Ed eccomi
qui dopo mesi d'assenza! xD Non so se la mia mancanza
si è sentita - sono sicura di no - ma una cosa è certa: questa dannata coppia
ispira solo guai! Ed è così che, ispirandomi al film Genitori in Trappola che
sicuramente tutti avete visto, è nata questa
roba.
Attenzione,
però. Ciò non vuol dire che la fanfic sia una copia
sputata del film, anzi. Ne prende solo l'idea. Punto. Poi si diversifica
completamente. =D Okay, vi lascio, buona lettura! ;)
Russie mon Amour
Furono delle risatine a far
voltare, esasperata, Mrs Smith; le ennesime, per
inciso. La donna, una quarantacinquenne dal portamento rigido, era la classica
inglese d’altri tempi – rigida, intransigente, glaciale – e non tollerava
minimamente che nel suo gruppo – quello che aveva dovuto accompagnare per il
viaggio d’istruzione, vi fossero distrazioni o, peggio, risatine.
Individuate le responsabili, -
e non era poi tanto difficile, visto che si trattava
sempre delle stesse – le fulminò con lo sguardo, glaciale.
“Davidson! Cooper! Tachibana!”
Le tre, come punte da uno
spillo, saltarono sull’attenti, guardando la loro insegnante con sguardo
fintamente colpevole.
“Scusi.” Biascicò
Quando la docente si voltò
nuovamente verso la guida che stava illustrando al gruppo la storia di piazza
della Bastiglia, le tre ripresero a parlottare fitto fitto, un sorriso sornione a condire loro il volto.
“Che pizza queste spiegazioni!”
Elizabeth Cooper – Liz – si sventolò con un depliant
preso distrattamente all’ennesimo museo visitato.
“Quand’è che ci lasceranno
libere?” gemette Samantha Davidson – Sam – roteando gli occhi verdi. “Sono cose
le sappiamo a memoria: ci hanno rotto le scatole per mesi con la rivoluzione
francese.”
Daphne Tachibana sbadigliò, insolente, poi sorrise. “Vedrete che
tra dieci minuti al massimo finiranno, poi avremo un’ora e mezza, o due, per
fare lo shopping più sfrenato.”
Sam la guardò, sospirando. “Io non so come fai ad azzeccare sempre. Sarà perché i
professori ti adorano per la tua parlantina nonostante studi quel poco che
basta per avere la sufficienza ed essere promossa, o-”
Liz
ridacchiò. “Lei si gode la vita, al contrario di te.”
“Veni, vidi,
visa.
Quella di mia madre.” Ridacchiarono così violentemente che dovettero tenersi la
pancia ed allontanarsi un po’ dal gruppo per non
essere rimproverate nuovamente.
Sam sospirò, beata. “Ah, tua
madre: io adoro tua madre.” Gli occhi praticamente le brillavano al sol pensiero di Hilary Tachibana.
Daphne fece
un sorriso tutto denti. “Lo so, è la madre migliore di tutte.”
“Trentasei anni, fisico da
paura, bellissima, lunghi capelli fluenti, fila di corteggiatori che non
finisce mai, avvocato di grido – quindi lavoro tosto – carattere altrettanto tosto…
è perfetta!” Sam stava già elencando tutti i punti salienti del suo idolo, con
gli occhi che le luccicavano, mentre le altre la guardavano ridacchiando.
“Capita ad una ragazza su un miliardo di avere una
madre così.”
“Lo so, e mia madre
perennemente ringrazia questa tua idolatria per lei.” Ridacchiò la diretta
interessata.
“In effetti
se le metti a confronto con le nostre…” sbuffò Liz,
roteando gli occhi. “La mia a stento mi permette di andare alle feste: quale
madre è una con la quale puoi fare shopping parlando
liberamente del ragazzo che ti piace?”
Daphne esibì
un sorriso fiero. “E’ sempre stata così, ha sempre voluto un rapporto
paritario, e-” vennero interrotte dal richiamo
dell’insegnante che stava dicendo loro le ultime cose sulla piazza: le tre
capirono che sarebbe stata questione di pochi istanti, successivamente
sarebbero state libere di scorazzare per la città.
“Vi voglio qui alle dodici e
mezza precise.” l’insegnante, decisa, squadrò una ad
una le sue alunne, e il suo sguardo non ammetteva repliche. “Rimanete sempre
nei paraggi, e non vi allontanate.”
“Non accettate caramelle dagli
sconosciuti…” sussurrò Liz all’orecchio di Sam, che
ridacchiò.
“Bene, potete andare.” Annuì la
docente; fu così che il gruppo, composto da
diciassette ragazze sui quindici anni, si disperse a macchia d’olio per tutta
piazza della Bastiglia.
Subito le tre si ritrovarono a
braccetto, sorridenti e gioiose, ansiose di sperimentare lo shopping più
sfrenato e
“Mio Dio, un centro
commerciale!” Sam lo esclamò come se non ne avesse mai visto uno; ma era sempre
così: che fosse a Milano, Londra, Liverpool o Parigi, le tre ragazze, da
cittadine del mondo quali erano, si sapevano orientare benissimo, ma bastava
far notare loro un qualsiasi centro commerciale o l’ultimo negozio di Prada
sulla quattordicesima, che il loro senso dello spazio e del tempo andava a
farsi benedire tanto quanto il loro conto il banca.
Cinque minuti più tardi erano
già entrate, missione reparto vestiti, pronte a
depredarlo, saccheggiarlo, razziarlo quanto più possibile.
“Guardate, guardate!”
trillò Daphne; in mano aveva una maglietta a righe
con un fiocchetto sul collo. “La provo?”
“Tieni questo, con il tuo
fisico e i tuoi occhi del cavolo ti starà disgustosamente bene.” Mise il
broncio Liz, porgendole un vestitino aderente viola
pieno di paillettes.
L’altra si accigliò. “Perché
devi sempre dire che ho occhi del cavolo?”
Liz
strinse le palpebre, mettendo in evidenza le pupille
azzurre. “Perché si! Dannazione, come si fa ad avere gli occhi viola? Viola! Come
La domanda indiretta colse la
ragazza impreparata che, dal sorriso smagliante che aveva, si ritrovò con una
smorfia sulle labbra ben disegnate. “Non esagerare.” Biascicò, nascondendo il
volto in un maglioncino di cachemire. “Ho dei colori
particolari, ma dipende dalla mia progenie. Io… beh, io sono inglese
solo di adozione, tu lo sei da generazioni e
generazioni.”
“Ma
ormai nessuno bada più alle generazioni!” fece la bionda con una smorfia. “Sono
così… volgarmente out! Il mondo è cosmopolita, chi ha nelle vene sangue di più nazioni
diverse è guardato con occhi diversi, non come prima, come un mulatto!”
dichiarò, scuotendo la testa. “Tu hai una madre metà Giapponese e metà
Americana, e tuo padre, da quanto ne sai era Russo;
poi sei venuta ad abitare in Inghilterra… Beh, tu sei il risultato, è per
questo che sei una delle ragazze più popolari della scuola!”
Daphne si inacidì. “Pensavo fosse perché sono
anche solo lontanamente carina, ma evidentemente non è così.” Girando
sui tacchi, andò via da quel reparto, la testa che le pulsava e le lacrime agli
occhi.
“Al mio segnale, prendi la
rincorsa e scappa.”
“Guarda che ti ho sentito!”
Nadja
ridacchiò all’ennesima scaramuccia tra gli zii, e i suoi occhi incontrarono
quelli di suo zio Takao, che fece
spallucce come a dirle che ci aveva provato.
Odiava fare shopping,
ma quel giorno zia Karen aveva insistito tanto per comprarle qualcosa di
carino, e lei non aveva saputo rifiutare.
Si trovava in Francia da tre
giorni, esattamente da quando erano iniziate le vacanze di Pasqua, che aveva speso tutte lì, con coloro che l’avevano battezzata.
Fino ad allora si era divertita parecchio, anche
considerato che non vedeva la sorella di suo padre e suo marito – che poi era
uno dei migliori amici del suo papà – da almeno un anno. Ma era esattamente
come li ricordava: giocherelloni, sempre pronti a battibeccare ma tanto, tanto innamorati.
“Nadja,
tesoro, vieni qui per piacere.” La voce della zia la
richiamò dai suoi pensieri. “Hai quindici anni ormai, è possibile che tu non
abbia iniziato a truccarti nemmeno un pochino?”
La ragazza restò immobile.
“Zia, non mi interessa…”
“Sciocchezze.” Decretò con una
mossa della mano la donna. “Stai diventando grande; capisco che tu viva con tuo
padre, ma non sei solo una blader, sei anche una
ragazza. E bella, anche.” Fece, schiacciandole l’occhiolino.
Nadja
arrossì, abbassando lo sguardo. “S-Sinceramente, non mi interessa…
Non saprei da dove iniziare…”
“E dai, Kary,
non tutte le ragazze sono fatte per i mascheroni che si vedono nelle
pubblicità.” Intervenne Takao, sbuffando, le mani
sprofondate nelle tasche dei jeans. “Se Nadja non
vuole truccarsi non vedo perché debba farlo, vuol dire
che è una ragazza semplice: meglio.”
La donna sbuffò. “Beh, si. Ma sapete che dico? Io questo
lucidalabbra te lo compro lo stesso. È semplice da usare, lascia le labbra
morbide, è femminile, è profumato-”
Il marito esibì un ghigno.
“Spero non quanto l’ultimo tuo acquisto in fatto di profumi, tesoro.” Qui zio e
nipote risero, alludendo al profumo preferito di Karen, che lei trovava divino ma in realtà era pressoché nauseabondo.
La zia di Nadja
sospirò, incrociando le braccia sul petto. “Beh, se ti
da tanto fastidio, quando lo metto, cioè la sera, puoi sempre dormire sul
divano.”
Takao esibì
un sorriso furbastro. “Preferirei pinzarmi il naso.” Nadja
rise, e finse di interessarsi ad una marca di rossetti
più in là piuttosto che all’abbraccio e ai baci appassionati che seguivano
spesso le scaramucce degli zii.
Non poteva dirsi una ragazza
infelice, Nadezda Hiwatari,
anzi, tante volte, ad un bilancio accurato risultava
che non le mancasse proprio niente. Un padre che, seppur freddo, le voleva un bene immenso e che, per lei, avrebbe fatto
qualsiasi cosa; ottimi voti a scuola; amici fidati che la adoravano, ricambiati;
possedeva la scuola di beyblade migliore dell’intera Mosca,
visto che, ad averla fondata era stato proprio Kai Hiwatari, suo padre, con la collaborazione dei suoi amici.
Nadja, così,
allenandosi ogni giorno dalle due alle quattro ore al
giorno, era diventata una delle migliori blader della
scuola, che accoglieva studenti da tutta
Aveva anche una schiera di zii
che le volevano bene, zii molto diversi tra loro, ma che rivestivano
tutti una loro importanza. Era circondata d’amore, d’affetto.
Di tutti, tranne che da quello
del quale sentiva realmente il bisogno.
Sospirando, estrasse lentamente
dal portafogli la foto strappata mostrante una giovane donna, poco più grande
di lei, in abito da sera, con un sorriso smagliante.
Mamma…
Guardando quella foto, capiva
bene come mai talvolta suo padre si incantasse a
guardarla, o il perché, quando giungevano amici d’infanzia dei suoi zii che la
vedevano restassero ammutoliti.
È
proprio uguale a..!
Ma il nome di sua madre non veniva mai pronunciato, fatto o detto: lei era
l’innominabile, colei che aveva avuto l’ardire di fare innamorare un gelido
come Kai Hiwatari per poi
mettersi il suo cuore sotto i tacchi senza pietà, fuggendo via come una lepre.
Guardando però nuovamente la
foto, la stessa che aveva trovato nella stanza di suo padre quando aveva cinque
anni, si convinse di una cosa: una persona dai lineamenti così dolci, così
ingenui, così rilassati, che sorrideva in maniera così spontanea, non poteva
essere una megera.
La storia era un’altra; c’era
qualche altra cosa sotto. Qualche altra cosa che lei voleva scoprire.
Aveva esagerato con la sua
reazione, ne era consapevole, ma la realtà era che quando le
si toccava un tasto in particolare diveniva parecchio suscettibile.
Liz,
sminuzzando la sua vita vista dall’esterno in maniera così frivola, l’aveva
fatta arrabbiare, e parecchio anche; avrebbe dovuto essere una delle sue
migliori amiche, invece l’aveva trattata con la delicatezza con la quale
l’avrebbe maneggiata una qualunque delle sue compagne di classe.
Ma la
verità era che si era inalberata quando aveva cominciato a parlare di origini e
soprattutto, di suo padre.
Daphne
sospirò, tentando di calmarsi.
In genere era una ragazza
vivace, sempre con il sorriso sulle labbra che, da quindicenne qual’era, si godeva la vita; zio Max e zia Maryam le ripetevano spesso quanto assomigliasse a sua
madre, con la sua voglia di vivere e con la sua vitalità. Ma, quando si toccava
il tasto padre, tutto ciò veniva sostituito da un malumore profondo che veniva
scacciato solo dopo ore ed ore.
Estrasse dalla pochette una
foto strappata che ritraeva un giovane ventenne con un sorriso appena
accennato. Papà… Sua madre non ne
aveva mai voluto parlare. Sapeva soltanto che era russo, e che sua madre era
fuggita via da Mosca quando lei aveva appena un anno perché non lo sopportava
più. Ovviamente Hilary Tachibana non le aveva detto
così.
“T-Tuo p-padre?” quando gliel’aveva chiesto, all’età di quattro
anni, la voce di sua mamma si era fatta da gioiosa
come sempre, ad acuta e stridula. Aveva sospirato innumerevoli volte ed aveva continuato a balbettare. “E’ russo, vive a M-Mosca e… Non so…” aveva ridacchiato, come
isterica. “Che altro
d-dire? Ci
vivevamo anche noi p-prima che io…” qui i suoi
occhi si erano scuriti, lei era impallidita e aveva stoppato il discorso.
Riguardo zio Max, lui
descriveva sempre suo padre come uno dei migliori blader
che avesse mai conosciuto, seppure un po’ riservato e ritroso. Quando gli aveva
chiesto il perché sua madre lo avesse lasciato, era stato lui a glissare,
dicendole in fretta e furia che non lo sapeva bene e che forse era perché non
si trovava più bene con lui.
Quella foto l’aveva trovata
quando aveva cinque anni, nel comodino di sua madre, e, una volta scoperta,
Hilary gliene aveva fatta una copia.
“Ah, il festival del bey.” Aveva sogghignato Max, quando gliel’aveva
fatta vedere. “Kai doveva avere una
ventina d’anni, qui eravamo tutti tirati a lucido, da notare lo smoking. È una
delle poche foto in cui tuo padre compare sorridente, forse per questo a Hilary
piace.”
La mancanza di un padre era per
Daphne come un buco nero nella sua anima colorata e
variopinta; si era infatti promessa di andarlo a
cercare una volta divenuta maggiorenne, per avere quantomeno delle risposte di
cui, più passava il tempo, più sentiva il bisogno.
Il reparto profumi e cosmetici
si stagliò in tutta la sua imponenza, proponendole marche e gamme da sogno, ma
nemmeno questo riuscì a sollevarle il morale; mise da parte la foto di suo
padre, riponendola nella pochette, e sospirò. Era tempo di cercare di
risollevare da sola il proprio umore.
“Ehi, finalmente!”
Sobbalzò a quella voce maschile
sconosciuta, che le parlava in russo, e voltandosi si trovò davanti un uomo sui trentacinque, dai capelli neri, con il sorriso
divertito. A poca distanza, una donna dai capelli biondissimi, era impegnata a
provarsi un rossetto.
“Dice a me?” Daphne sbatté gli occhi, arrangiandosi con il poco russo
che sapeva cioè quello base di un corso che aveva
seguito due anni prima in Inghilterra e che ancora non era finito.
“Ma si,
scema!” rise l’uomo, che, evidentemente, l’aveva scambiata per qualcun’altra.
“Dove ti eri cacciata? Ti ho cercata per tutto il
reparto! Kary, eccola qui!”
La donna bionda si voltò,
sorridente, e Daphne spalancò occhi e bocca quando
vide due occhi viola identici ai suoi stagliarsi di
fronte a lei.
“Oh, Zeus…”
“Tesoro, tutto bene?” la
bionda, che doveva avere poco più di trent’anni, la guardò preoccupata; sei
impallidita.
Perché
ho un brutto presentimento? Perché mi sento strana? Perché sento che questa
donna mi ricorda qualcuno?
“S-Scusate, io…” deglutì a
vuoto, poi tentò un sorriso. “Cerco un bagno.”
“Vuoi che ti accompagni?”
“No, no, signora, davvero, la
ringrazio.” Fece, prima di girare sui tacchi e andarsene a gran velocità.
Karen e Takao
si guardarono, sbigottiti. “Signora?”
Vedendo un maglioncino pesante
a tinta unita che andava bene per l’inverno, lo prese, decidendo di cercare un
camerino per provarlo.
Le piacevano i vestiti
semplici, senza troppi fronzoli, che fossero comodi e adattabili al clima
gelido della Russia.
Aveva lasciato gli zii intenti
a sbaciucchiarsi nel reparto cosmetici, e, onde
evitare di perder tempo, aveva preferito dare un’occhiata ai vestiti.
“Non vorrai davvero provare
quello, spero.”
Nadja si
voltò di scatto, strizzando gli occhi: chi diavolo era
quella biondina che la fissava dall’alto in basso come se stesse commettendo un
atto criminale? Decise di ignorarla, e di non abbassarsi al suo livello.
“Ehi, Daph. Parlo con te.” Insisté
la biondina. “E poi che diamine ti sei messa addosso?”
In quell’istante sopraggiunse
anche Sam, proveniente da un altro reparto. “Ehi, ragazze, ho preso una cosetta
per Mi-” ammutolì quando vide le amiche. “Santo cielo,
Daphne, che diavolo ti sei messa addosso?”
“E’ quello che le ho detto io.”
Annuì Liz.
“Jeans sdruciti e felpona verde acido? Devi andare a lavorare in miniera in stile flashdance?” le due ridacchiarono
insieme, ma la loro risata si fermò quando notarono il viso scuro della
brunetta.
“Ehi, Daph.”
Sam le poggiò una mano sul braccio. “Scherzavamo. E
poi sappiamo che non ti piacciono queste felpone o
questi jeans osceni. Sei ancora arrabbiata per prima?”
Nadja non
era arrabbiata: era furiosa. Nonostante stessero parlando in inglese,
quell’inglese stretto della Londra bene, lei riusciva a capirle perfettamente,
e capiva anche che la stavano prendendo in giro per il
suo modo di vestire.
Come si permettevano, quelle
oche, che nemmeno la conoscevano, e senza dubbio, l’avevano scambiata per
un’altra persona? Come?!
“Andate al diavolo.” Ringhiò,
prima di gettare loro addosso le magliette che aveva
preso con l’intenzione di provare.
Uscendo dal bagno, la ragazza
sospirò ed espirò ritmicamente come se ciò potesse automaticamente farla stare
meglio. Non avrebbe saputo dire perché vedere quella donna dagli occhi viola le aveva causato quel senso di inquietudine: sapeva
solo che quando aveva visto quei lineamenti familiari, una morsa gelida le
aveva stretto lo stomaco.
Saranno
certamente flash assurdi che mi attraversano il cervello.
Cercò di sbarazzare la mente da
pensieri inutili che si accavallavano tra di loro, e per la prima volta in vita
sua, passando nel reparto donna, non degnò di uno sguardo i favolosi vestiti
esposti.
Quando vide una chioma bionda e
una rossa vicine, sospirò, andando vicino alle sue
amiche. Era probabilmente il caso di uscire da quel negozio e di andare ad un bar vicino a prendere qualcosa.
Fu l’occhiata truce che le
lanciò Liz a bloccarla, seguita da Sam, che
inizialmente fece finta di non vederla, dopodiché mise le braccia conserte,
come a farle intendere che aveva appena commesso un atto imperdonabile.
“Che c’è?”
Liz inarcò
il sopracciglio sottile e biondo. “Ci prendi in giro?
Cos’è, smessi i panni da minatrice sei tornata
La bruna fece tanto d’occhi.
“Che cosa stai dicendo?”
Sam la guardò, torva. “Non
prenderci per il culo, Daph.
Smettila.” fece, stizzita. “Potresti anche solo semplicemente chiedere scusa.”
Daphne
spalancò la bocca. “Se è per questo Liz deve chiedere scusa a
me!” precisò. “Fa tutto quel discorso sull’essere cosmopoliti
e mi va a toccare il discorso su mio padre, che lo sapete non voglio si tocchi, e dice pure che sono popolare a
scuola per questo! E dovrei scusarmi io!
Ma si può sapere che avete?”
Liz le
lanciò un’occhiata di fuoco. “Ah, ed è per questo che poi sei arrivata qui vestita come una soldatessa del Cile, e quando io e Sam
abbiamo scherzato su questo fatto, ci hai mandate al diavolo e ci hai tirato
pure gli indumenti che volevi provare!”
“Che cosa?!”
sconcertata, meravigliata e sorpresa, l’interlocutrice non sapeva quasi cosa
ribattere. “M-Ma non è vero!”
Sam e Liz
si guardarono, le sopracciglia aggrottate. “Non è
vero?” Daphne poteva essere una peperina,
ma perché mentire spudoratamente e in maniera così infantile?
“No!”
Liz parlò
senza riflettere. “E chi ce li avrebbe tirati questi indumenti, allora?”
chiese, sventolando un maglione pesante a collo alto.
Scese il silenzio. Daphne sostenne lo sguardo delle sue amiche, che non
potevano certamente credere di aver visto un ologramma o un fantasma.
“No, signorina, i maglioni a
tinta unita li trova in fondo, non qui. Guardi, la
ragazza con cui sta parlando la sua gemella ne ha uno in mano.”
Fu un attimo. Daphne si voltò lentamente, verso la direzione della voce
della commessa, per vedere… lei stessa.
Solo che non era un riflesso
dato da uno specchio.
Continua.
Spero proprio che qualcosa ve l'abbia comunicato. O no?
Io sto tremando dalla paura, onestamente, sono mesi che lavoro a
questa cosa... Ditemi voi. =S
Ora ho poco tempo, ci sentiremo più approfonditamente nel prossimo
capitolo. O, almeno, lo spero davvero.
Un bacione a tutti. ;)