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Autore: miss yu    25/01/2011    4 recensioni
In una città come tante altre... In una casa qualunque...
Dentro una giovane coppia e un gruppo di ragazzi: Jamie che ha perso le parole in un incidente, Alison che ha costruito un' altra se stessa per sopravvivere, Kyle che vive la sua omosessualità tra sfrontatezza e sensi di colpa, Mira che usa il sesso per sentirsi importante, Connor anoressico e autolesionista, Yuki che tenta di volare con ali tatuate.
Tutti alla ricerca di un significato diverso da dare alla propria vita: vite vuote o troppo piene, spezzate e da ricucire, intollerabili o solo confuse, vite da sprecare, da buttare o da spremere fino all'osso, vite rabbiose o solo spaventate...
Quasi impossibile trovarci un senso e a volte troppo faticoso; più facile lasciarsi vivere o meglio sopravvivere, ognuno come riesce, ognuno come può, vittime soprattutto di se stessi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 1: C’era una volta la casa…


C’era una volta una casa e dentro vi abitavano tante vite, ed ognuna seguiva la propria traiettoria distinta e separata da tutte le altre…



C’è una casa all’angolo con Victory Road.
Una casa di mattoni rossi, con quattro gradini per raggiungere il portone d’ingresso pitturato di fresco e una coppia di finestre ai lati, con tende di pizzo che arrivano a metà dei vetri.
Sbirciando all'interno, tra vasetti di piante posti sui davanzali, si indovina un divano colorato.
Al secondo piano le finestre sono più numerose, guardano come occhi, esplorando l’esterno.
Sul tetto si alzano due abbaini.
Dietro si può supporre l’esistenza di un cortiletto, forse con i fili tirati per poter stendere nei giorni di vento.
Sul davanti vi è invece un piccolo pezzo di terra, pretenzioso chiamarlo giardino, qualche metro di prato trascurato attraversato da un vialetto di pietre grigie, con un cespuglio dagli steli lunghi, curvi sotto la neve.
In un angolo vi è abbandonato un pallone da basket un po’ sgonfio e lì accanto un aereoplanino di carta che, affidato al vento gelato, è precipitato nel breve giro di qualche secondo ed ora, caduto tra la neve e la terra bagnata, si sta sbriciolando.
Una bassa recinzione in ferro delimita la proprietà.
Accanto all’ingresso si trova una cassetta per la posta, sopra vi sono due cartellini.
Sul primo vi è scritto Matthew Parker e subito sotto Hillary Finch.
Sull’altro più grande: Rehabilitation Centre Parker’s House.


***********

Jamie.

La neve si sta quasi sciogliendo, ne è rimasta qualche mucchietto sporco ai bordi dei marciapiedi, qualche manciata sui cespugli e una spruzzata sui tetti.
L’auto blu parcheggia davanti alla casa.
L’assistente sociale apre la portiera e stringe con fermezza il braccio a Jamie.
In quel momento il ragazzo la guarda in viso e solo in quell’attimo sembra rendersi conto di dove si trova.
Sembra…
Già, in realtà cosa passa per la testa di Jamie nessuno lo sa e nessuno può dire con esattezza, dal giorno dell’incidente, cosa riesca a capire di quello che gli sta succedendo intorno.
E’ stato visitato e sottoposto a test: psicologi, psichiatri, neurologi….
Non è bello prendere atto che la scienza che indaga i misteri della mente umana, è in fondo completamente impotente di fronte a qualcuno che è chiuso in se stesso e sembra essere in questo mondo per caso.
Capire dove inizia l’impossibilità e dove finisce la volontà di comunicare.
Jamie è un enigma, come tanti del resto, come chi ha deciso o ha dovuto assentarsi dal mondo, per quanto non si sa, forse solo per un po’ o forse per sempre.
Jamie esteriormente sembra il ragazzo che una volta è stato, un quindicenne a volte allegro e a volte arrabbiato o triste, dolce questo sì, anche se di una dolcezza un po’ timida e aspra, che essere dolci a quindici anni è qualcosa che non si fa.
Poi però il paragone con quello che è stato prima dell’incidente finisce lì, perché Jamie non è più dolce e neppure arrabbiato o allegro e neppure triste; Jamie non è più nulla, solo qualcuno che rimane a fissare un muro per ore oppure un foglio di carta bianco, con i pastelli appoggiati lì di fianco e neppure toccati.
E’ stato deciso che un istituto non sia la soluzione giusta per lui e neppure un ospedale, perché in fondo Jamie ormai fisicamente sta bene e di quello che gli è successo gli rimane solo una piccola cicatrice vicino alla tempia, nascosta dai capelli.
Nessuno è venuto a reclamarlo semplicemente perché non ha più nessuno e così si è deciso di affidarlo ad una comunità familiare.
Alla Parker’s House.
Matt e Hillary sono andati a conoscerlo, anche se nessuno è in grado di conoscere il ragazzo.
Ora sono in piedi sulla porta, parlano brevemente con l’assistente sociale, lo prendono in consegna.
Hillary ha una voce morbida come una ballata irlandese.
Lo conduce in casa con la mano posata delicatamente sulla spalla.
Matt ha invece una voce calma e rassicurante come il rumore delle coperte che ti coprono.
“Ragazzi venite qui, è arrivato Jamie”
Sbucano un po’ da ogni parte e per Jamie sono troppi, perché li possa veramente mettere a fuoco.
C’è una ragazza dagli occhi grandi e asciutti.
C’è un ragazzino dal viso dolce e impertinente.
C’è una ragazza bella, quasi troppo.
C’è un ragazzo che ha tatuaggi sulle dita.
C’è un ragazzo alto, molto e magro, molto.
Troppi per Jamie.
Si fa condurre su per una scala di legno dalla moquette color biscotto, lungo un corridoio con tante porte.
“Questa è la tua camera, dormirai con Connor, pensiamo che possiate trovarvi bene insieme”
Connor forse è un nome, forse è qualcosa che lui non conosce, forse…
“Vuoi che ti aiuti a sistemare le tue cose?”
A Jamie piace la carezza che la voce di Hillary lascia sulla sua pelle.
I suoni che escono dalla bocca degli altri sono per lui solo emozioni che gli incidono la carne per un breve istante.
Non dà nessuna risposta, non ne dà mai.
“Bene, allora ora ti lascio solo”
Solo significa silenzio e il silenzio è buono, è soffice e avvolgente, ci si può galleggiare nel silenzio e sentirsi protetti, non può succedere nulla nel silenzio, nulla di male, perché il silenzio è il nulla e il nulla è buono.
Non ci sono parole nel silenzio e Jamie gli è grato, perché le parole gli sfuggono, sono inutili, senza significato.
Ha cercato dopo l’incidente di riprendere possesso delle parole, ma senza successo.
Le parole per Jamie sono come foglie secche in una tempesta, inutile cercare di afferrarle al volo: sfuggono, veleggiano intorno, si allontanano e se anche per caso riuscisse ad afferrarne una e a stringerla nel pugno, questa si frantumerebbe e tra le dita resterebbero solo polvere e frammenti, che della foglia sono solo parvenza.
Jamie non parla perché le parole non esistono più per lui, sono suoni insignificanti.
Jamie però comprende le parole degli altri, forse perché vengono dal di fuori e non è lui che deve dare un senso al mondo.
Le comprende ma non le fa sue, appena dette scompaiono e lo lasciano vuoto.
Le parole non abitano più dentro di lui.
Cosa ci abiti oltre il vuoto non lo sa bene.

Alison.

Non sa quanto tempo sia passato, sa solo che ad un certo punto Hillary ha bussato lievemente alla porta e poi l’ha socchiusa infilandovi dentro la testa, gli ha sorriso, lo ha preso per mano e lo ha accompagnato in cucina. Lui si è seduto ad un tavolo e lì accanto ha notato la ragazza dagli occhi grandi e asciutti e truccati pesantemente: Alison.
Alison ha anche i capelli corti e neri e il suo look è dichiaratamente metal. Per quello che tutto ciò vuol dire.
Perché se al primo impatto, ciò che colpisce è proprio questa sua immagine che lei sbatte in faccia a chi l’accosta, con l’aria di chi se ne frega altamente dell’opinione altrui, in realtà ciò che lei è, non ha nulla a che fare con ciò che appare.
Ciò che è, lo può capire solo chi riesce a sostenerne lo sguardo duro e sprezzante.
Alison un tempo era una ragazzina di buona famiglia, educata in ottime scuole, residente in una bella casa in un quartiere elegante, una ragazzina con una madre bellissima a cui assomiglia molto e senza un padre di cui non sa nulla, perché per la madre non è mai valsa la pena neppure di parlarne.
Sua madre bellissima e dura come un diamante, circondata da ammiratori, cerebrale, fredda ma non con lei, che la figlia era la sua opera in continuo divenire, il suo capolavoro.
Ora non è rimasto più nulla di ciò, se non il tentativo di Alison di sopravvivere nonostante tutto, anche se a volte, durante gli ultimi anni, si è chiesta se in fondo vale davvero la pena di sopravvivere o se non sia meglio soccombere.
Ma l’insegnamento della madre ha funzionato: “Mai arrendersi, mai buttare la spugna, mai farsi sconfiggere dalla bassezza, dall’ignoranza, dalla miseria della gente comune” e così Alison non si è arresa anche quando è rimasta sola, da quella notte in cui la polizia ha suonato alla porta di casa sua e si è portata via la madre.
E neppure si arresa quando è stata seguita dai servizi sociali, quando è stata affidata a famiglie sempre sbagliate per lei o lei per loro, quando è stata in istituti per ragazzi soli, quando ha dovuto difendersi dalla cattiveria gratuita che non sapeva neppure esistesse in misura così potente e irriguardosa.
Peripezie inimmaginabili per quella che era, contatti violenti, solitudine sconfinata, nessuno a cui potersi appoggiare anche solo per riprendere fiato.
Ma le parole della madre sono state la sua boa di salvataggio.
E quando è andata a trovarla in carcere la prima volta e l’ha trovata sempre bellissima, anche se infagottata in una tuta arancione, anche se pallida e magra, la madre quelle parole gliele ha ripetute: “Non arrenderti, io qui non lo faccio, nessuno può farci paura perché noi non siamo come questa gente gretta e insulsa che ci circonda e che cerca di spaventarci, noi siamo le dee di un mondo diverso, più alto, non sottoposto alle loro leggi becere e rozze, resisti ad oltranza, fai vedere chi sei, non permettere a nessuno di farti paura”.
E così Alison si è tagliata i lunghissimi capelli biondi che la facevano assomigliare ad una fata e che le incorniciavano il volto da adolescente.
Quando ha conosciuto Matt e Hillary della ragazzina per bene non c’era ormai più traccia.
Alison non capisce come la madre può riuscire a farsi rispettare in carcere, dove ormai è rinchiusa da anni, pur rimanendo sempre lei: la dea, la regina, dovunque e con chiunque stia.
Alison non ci è riuscita a restare ciò che era, ha dovuto cambiare e per farlo ha dovuto diventare un’altra persona, ha dovuto rinnegare il suo aspetto, la sua educazione, le sue buone maniere, la sua cultura.
Ha rinunciato a ciò che in questa nuova vita poteva esserle d’ingombro per acquistare nuove capacità, nuove abilità, nuovi modi d’essere.
Ed ora si sente in qualche modo sicura ma anche incapace di capire chi è veramente, perché la sua trasformazione è nata non da una sua esigenza, ma da una necessità.
E si sente anche in colpa per non essere riuscita a rimanere se stessa come ha fatto sua madre.
“Cosa significa questo travestimento?” le ha chiesto quando l’è apparsa di fronte con i capelli corti e neri e il suo abbigliamento metal.
“Non è un travestimento, mi piace essere così, rappresenta quello che sto diventando”
“”E cosa stai diventando?”
“Più forte, come mi hai chiesto di essere”
E la madre ha riso, d’un riso raffinato e freddo.
“Dove è finito tutto ciò che ti ho insegnato, non hai bisogno di trasformati per essere forte, noi lo siamo qui dentro” e si è toccata la testa. “Sei cambiata, ti sei venduta, sei diventata mediocre come gli altri”
Già, gli “altri”, quelli disprezzati, i perdenti, la massa inerme incapace di guizzi d’eleganza e considerazione.
“Forse lo sono una ragazzina mediocre, non ci hai mai pensato? Forse non sono una dea come te, forse hai sbagliato tutto con me, però almeno io non sono in galera”
E in quel momento, quando sua madre le ha girato le spalle e se ne è andata senza salutarla, in quel momento Alison ha capito una cosa essenziale: che lei non è sua madre, che lei è qualcun’ altro diverso ed originale.
E’ stata una scoperta terribile quella di comprendere che l’amore tra loro non era mai stato amore ma qualcosa di malato e malsano. Forse un attaccamento morboso e invasivo che non le ha permesso di essere ciò che voleva o poteva essere, ma solo una copia, anzi un’opera della madre.
Ora alza gli occhi dal libro di storia che sta studiando e guarda di soppiatto Hillary, che sta sistemando la biancheria per poi stirarla.
Hillary ha qualche chilo di troppo e un viso bello da sembrare una dama antica, con i lunghi capelli castani inanellati che le scivolano fino ai fianchi e il suo viso non ha un filo di trucco e le sue mani sono un po’ grassottelle e i suoi vestiti sono quantomeno dozzinali, ma nella pacatezza dei suoi gesti, nello sguardo assorto, nella calma della sua persona che però vibra d’emozioni e palpita di sentimenti, Alison capisce che ci sono altri modi di essere donna; che oltre la forza, il distacco e la superiorità, c’è un altro modo per sentirsi nel mondo senza avere troppa paura e che forse lei lo può poco per volta imparare.

Kyle.

Si sentono passi sulla scala e il ragazzino dolce e dal viso impertinente: Kyle, entra in cucina.
“Mi faccio uno spuntino” dice mentre apre il frigo e ne estrae il cartone del latte.
Hillary gli fa un cenno.
Ci mette solo qualche minuto a riempirsi il bicchiere e a prendere una fetta di torta.
“Torno in camera, devo studiare ancora una ventina di pagine di biologia” e sparisce di nuovo.
Si mette alla scrivania e riprende il filo dei suoi pensieri interrotti: la storia con Jared deve assolutamente considerarsi conclusa.
E’ un paio di settimane che non lo cerca più e ha fermamente stabilito che non deve più chiamarlo, neppure per placare un attacco di “voglia” di quelle che non riesci a resisterci.
Neanche deve più cercare di vederlo da lontano, appostandosi nei luoghi che lui frequenta e tanto meno cercare di rincontralo per “chiarire”.
Di cose da chiarire con Jay in realtà ce ne sarebbero un milione, ma Kyle sa bene che il tentativo risulterebbe inutile, come tutti quelli che l’hanno preceduto.
“Chiarire” con Jared non è possibile perché lui, mentre tu parli, fissa il vuoto o giocherella con l’Iphone e se arriva qualche chiamata si mette a parlare tranquillamente, lasciandoti a metà di una frase, non una frase qualsiasi, ma una di quelle che ti è costato fatica e sforzo riuscire a mettere insieme, una di quelle che per Kyle sono fondamentali: “ Che senso ha per te stare insieme”, “C’è solo sesso tra noi o per te c’è qualcos’altro” insomma “ Cosa mi devo aspettare da te?”
Ecco, mentre tu cerchi di non arrossire e tenti maldestramente di parlare di queste cose, di fargli capire i tuoi dubbi e le tue paranoie, lui si mette tranquillamente a parlare al telefono lanciandoti un’occhiata che vuole significare: “Scusa, continua pure tanto ti ascolto”
In realtà non ascolta, non ascolta mai!
Però il sesso con lui è da impazzire e non solo quello.
Jared è da impazzire.
Forse perché ha già passato i vent’anni e per Kyle è un vero uomo non un ragazzino, forse perché è bello di una bellezza androgina e insieme molto maschile, forse perché sprigiona fascino e carisma da tutti i pori, perché è intelligente e brillante, sicuro di se e spavaldo, irriverente, arrogante e presuntuoso.
E forse perché nonostante tutto Kyle spera di contare qualcosa per lui, di non essere considerato il solito ragazzino da sbattersi una notte e poi sotto a chi tocca, anche se in realtà sa con certezza che molti altri oltre a lui finiscono regolarmente nel suo letto.
A Kyle basterebbe solo che gli dicesse che, nonostante i tradimenti, lui resta un punto fermo, qualcuno a cui tornare, invece non c’è neppure questo.
E così Kyle ha deciso di non poter continuare a stare male, a vivere aspettando che lui si degni di rispondere ad un suo messaggio, ad una sua chiamata.
Non ha lottato con i suoi genitori, con la comunità del suo paese, non ha sopportato tutto quello che è successo dal giorno in cui ha confessato quello che era, per finire in una storia insulsa come questa.
Si sente frustrato e infelice.
E così, chissà come gli tornano in mente i suoi genitori adottivi, quelli che l’avevano scelto già nella pancia di sua madre naturale, quelli che lo avevano allevato con cura ed amore nella fede.
Quando lui ha deciso di fare coming out i loro visi avevano assunto un’ espressione di ribrezzo e pietà.
Non lo avevano punito ne allontanato; non sarebbe stato nel loro spirito, i peccatori vanno sorretti e aiutati a trovare la giusta via, la strada alla redenzione.
Proprio così gli avevano detto con un misto di sgomento e di eccitazione salvifica: “La tua condotta è peccaminosa, devi pentirti e tornare sulla retta via, oppure…” , ebbene sì gli avevano offerto pure un’altra possibilità in un impeto di generosità: “ Oppure dovrai fare una scelta di castità”.
Quando lui era scappato, l’unico punto di riferimento era stata sua madre naturale.
Sapeva chi era e dove viveva, i suoi genitori adottivi ligi e pieni di verità gliela avevano fatta conoscere quando era ancora un bambino e a volte la invitavano a casa nelle festività più solenni, nei momenti più importanti della sua vita.
Spesso, anzi quasi sempre, lei si inventava una scusa per non essere presente e lui in fondo ne era felice.
“Non ti ho abbandonato appena nato per riprenderti frocio a quindici anni” gli aveva risposto senza neppure fargli posare lo zaino per terra.
E poi c’era stato il ritorno a casa e quell’ansia di dimostrare qualcosa, di non farsi schiacciare dal giudizio dei suoi genitori, di mostrare a se stesso che non era così sbagliato, che non era così brutto peccare.
Quando lo avevano beccato a fare una marchetta, il legame che li teneva in qualche modo ancora insieme si era spezzato definitivamente e loro avevano gettato la spugna: Satana aveva vinto!
Kyle stringe i pugni, si sente arrabbiato come tutte le volte che ripensa al suo passato.
Perché sta autoinfliggendosi la penitenza di rinunciare a Jared?
Sa che per i suoi genitori questa storia è il paradigma di come lo percepiscono: una troietta in calore!
Lasciarlo significherebbe darla vinta ai suoi e a tutti quelli come loro, a quei moralisti che lo hanno condannato come una puttana per giunta gay!
Prende tra le mani il cellulare, il desiderio e la rabbia lo portano a cercare il numero di Jay.
Rimane a fissarlo per un attimo sperando in una forza di volontà inesistente che lo blocchi, poi chiama.
Stranamente Jared risponde e già questo è un piccolo successo.
“Ehi Kyle, è da un po’ che non ti fai sentire”
“Sì, ho avuto un po’ da fare con la scuola”
“ Con la scuola? Beh faccio finta di crederci, dopo cena vado al Pinky, ti va di venire?”
“Va bene”
“Allora ci vediamo al solito posto”
Kyle è consapevole che ciò che ha fatto è la dimostrazione lampante della sua debolezza e della sua scarsa autostima, ma il pensiero di Jared manda al diavolo automaticamente ogni senso di colpa.
Jay è bello da morire, con i capelli neri che contrastano in modo da mozzare il fiato con gli occhi blu evidenziati dalla matita.
Stasera sa che non andranno al Pinky ma Jay lo porterà in periferia e li faranno sesso, dentro a quell’auto che è impregnata dell’odore di tanti corpi diversi.
Sa che ci lascerà anche il suo, che urlerà e che godrà fino allo sfinimento e che ne vorrà di più e che Jared gli darà quello che desidera.
Forse tutto questo è più che sufficiente, pensa Kyle, forse è inutile cercare qualcos’altro, può considerarsi fortunato ad avere Jay, anche se non in esclusiva.
In fondo dalla vita non si può pretendere troppo, la felicità sta in quegli attimi di orgasmo, non è niente altro.

Mira.

Al secondo piano nella camera in fondo al corridoio, la ragazza bella, quasi troppo: Mira, chiude il cellulare e rimane distesa sul letto, stiracchiandosi pigramente.
Alison è scesa di sotto e questo le permette di avere la camera tutta per se e di non dover sostenere la presenza di quella che lei ritiene una spostata, da cui prendere le distanze.
E sì che mesi fa, quando Matt e Hillary avevano annunciato a tutti quanti l’arrivo di un’altra ragazza, per un momento si era sentita contenta: finalmente non sarebbe più stata l’unica femmina in una casa piena di ragazzi, finalmente avrebbe potuto avere anche lei una compagna di camera come gli altri.
In verità la contentezza era durata un brevissimo lasso di tempo.
Era svanita nel momento successivo, quando aveva pensato che avrebbe dovuto fare spazio nell’armadio e nel cassettone ai vestiti di “quella” e alle sue carabattole che sicuramente si sarebbe portata dietro.
La nuova ragazza era subito diventata nella sua mente “quella” e così è fondamentalmente rimasta.
Il secondo pensiero che le aveva fatto arricciare il naso era che non avrebbe più potuto fare la prima donna con i maschietti della casa, anche se in realtà questo era il minore dei problemi.
Sorride tra sé mentre se li vede sfilare nella mente: bell'affare!
I cosiddetti maschietti non hanno mai corrisposto ai suoi canoni estetici e cosa più importante sono afflitti da problemi ben più grandi dei suoi e quindi con loro non c'è mai stato qualcosa di più che una sana scopata e neanche con tutti.
Mira ama il sesso, lo utilizza per molteplici usi: passatempo piacevolissimo, divertimento, antidepressivo, ansiolitico, eccitante, sistema infallibile per ottenere favori, attenzioni, privilegi.
Non fa uso di droghe e non le piace particolarmente bere, perché il loro uso non le consente di mantenere il controllo della situazione, di rimanere sempre nella posizione di comando.
Il sesso è il suo unico vizio.
In fondo si può considerare una brava ragazza.
Ama se stessa come nessun altro potrebbe fare, si piace, si trova bella e molto sexy e non perde occasione per mettere in risalto le sue curve morbide, i suoi occhi neri e profondi, i capelli che le cadono sulle spalle in onde soffici e scure.
Matt e Hillary a volte trovano il suo abbigliamento completamente fuori luogo e non idoneo; soprattutto all’inizio della sua permanenza a Parker’s House spesso le hanno proibito di uscire di casa in tenute che loro giudicavano non appropriate.
Erano stati tempi duri quelli ma comunque istruttivi, che le hanno permesso di escogitare stratagemmi che fino a quel momento non aveva dovuto usare, perché nessuno le aveva mai proibito nulla.
Le difficoltà aguzzano l’ingegno, pensa sorridendo tra sé.
In realtà l’abbigliamento è stato solo un aspetto secondario di una serie di critiche che i due le hanno sbattuto addosso: discorsi si sono sprecati rispetto alla sua condotta.
Le hanno propinato le solite palle che gli adulti raccontano e a cui loro stessi poi non credono: il sesso non è merce di scambio, è necessario avere un maggior rispetto del proprio corpo, non bisogna svendersi.
Hanno cercato di farla passare per malata, per una persona piena zeppa di problemi, come tutti quegli sfigati che stanno in quella casa; le hanno parlato di dipendenza sessuale, di persone che usano il sesso in modo compulsivo solo per colmare un vuoto dell’anima.
Ridacchia tra sé, proprio così hanno detto “un vuoto dell’anima”, come se lei ne avesse una di anima, come se l’umanità non fosse solo unn’accozzaglia di corpi pronti a soddisfare i propri appetiti.
Lei li ha ascoltati facendo sforzi per non ridere loro in faccia, si è mostrata arrendevole e colpita dalle loro parole come se non le avesse mai sentite e la sua condotta da allora è divenuta irreprensibile.
Apparentemente!
Mira sospira, la vita in fondo non è poi così male!
Si alza pigramente e comincia a togliere capi d’abbigliamento dall’armadio abbinandoli tra loro.
I soldi non le mancano per soddisfare i suoi capricci ed è tutto merito di quel padre avvocato facoltoso, apparso dopo tanti anni di assenza.
Si è fatto vivo al momento giusto, quando sua madre l’ha scoperta a letto con Luke, il suo convivente.
Non solo si è bevuto la storia che fosse Luke a molestarla, ma ha intentato causa per ottenere il suo affidamento e Mira non vede l'ora che la vinca, in modo da poter lasciare la comunità di Parker’s House e intanto si gode i soldi che papà le manda, in cambio di alcuni incontri mensili.
Non male!
Mira si guarda l’ultima volta allo specchio, si gonfia un po’ i capelli con le mani, sorride a se stessa.
Dentro la borsa ha una minigonna mozzafiato con la quale, prima d’arrivare a casa di Thiago, sostituirà i jeans d’ordinanza.
Si lancia un ultimo sorriso, lo stesso che ha lanciato da lontano a Luke e alla madre come congedo.
In fondo con loro non stava male, quasi non sapevano neppure che esistesse e lei aveva tutta la libertà che poteva desiderare.
Però…
Non aveva mai sopportato che per quei due lei non fosse importante, che si scordassero di lei. Non era ammissibile!
Quando aveva sedotto Luke e si era fatta scoprire da sua madre, l’aveva fatto solo per fare capire a quei due che lei c’era e come se c’era.
In fondo è stata la giusta punizione per sua madre che è vissuta sempre alla ricerca di un uomo diverso, trascinandosela dietro come una valigia, che le lasciava fare tutto ciò che voleva in nome di una libertà che era solo ipocrisia, che le ha sempre raccontato balle su suo padre dicendole che lui non voleva saperne della figlia, mentre invece lui non era neppure a conoscenza della sua esistenza.
Si chiede se in fondo lei non le assomigli più di quello che crede ma poi scuote la testa: no lei è ben diversa, non ha bisogno degli uomini ma li usa.
Questa è la differenza colossale per cui sua madre ora è una poveraccia sola e lei è qui con i soldi di papà e un futuro di libertà.

Yuki.

E’ quasi sera.
La regola della Parker’s House è che gli orari vanno rispettati e in caso di contrattempo bisogna avvertire, anche con un Sms, ma è necessario farlo.
Sono queste le cose su cui Matt e Hillary non transigono, poche regole ma significative.
Una chiave gira nella toppa, rumore di scarpe che vengono gettate sgarbatamente a terra.
Quello che appare subito dopo è il ragazzo con i tatuaggi sulle dita: Yuki, alto e snello, capelli neri spettinati con un’infinita cura che solo apparentemente è casualità, trucco sugli occhi, smalto rovinato sulle unghie mangiucchiate.
Ha la custodia di una chitarra sulla spalla.
“Scusate sono un po’ in ritardo, vado a sistemare Black Pearl”
”Poi ritorna qui, abbiamo bisogno di parlarti” dice Matt.
Sparisce per comparire subito dopo senza giubbotto e senza chitarra, con solo una maglietta leggera e guanti di lana che gli lasciano scoperte le dita, dove sulle nocche sono tatuati dei numeri e delle lettere.
“Sei di nuovo in ritardo Yuki”
Hillary ha la voce calma dei momenti in cui le cose da puntualizzare sono importanti, a ben guardare è una voce anche un po’ dispiaciuta, un po’ tradita.
“Ho chiesto scusa”
“Non è questo il problema, è che sai che alle sei devi essere in casa, sai che è così che funziona, non è molto complicato”
“Non mi sono accorto del tempo che passava, poi lo sapete dove sto, non c’è bisogno di farne una tragedia. E’ che quando suono con i ragazzi mica possa starmene a controllare ogni dieci minuti l’orologio”
“Ti consiglio di trovare un mezzo per farlo, se arrivi ancora una volta in ritardo dovremmo rivedere la possibilità di andare a suonare a casa di Dean”
“Che cazzo Matt, questo non lo puoi fare”
“Non è questione di potere, ci sono delle regole, poche e chiare e non particolarmente difficili da rispettare, se non sei in grado di farlo significa che non sei sufficientemente maturo per prenderti degli impegni”
Yuki sbuffa.
Jamie lì accanto ascolta le sue sensazioni.
E’ strano come la capacità di cogliere le emozioni degli altri si sia amplificata, da quando ha perso le parole.
Yuki gli rimanda l’impressione di una confusione completa e nella confusione c’è un'unica linea retta che è la musica, ma anch’essa intasata da mille ramificazioni, intralci, grovigli. Yuki è colore e voglia di divertirsi, è stupore, voglia di conoscere, di provare e di sperimentare, ma è anche timidezza strana, ritrosia, malinconia e a tratti dolore lontano e sordo, coperto dal desiderio di vivere e di scoparsi la vita.
Alla sera di solito Yuki sta solo nella sua camera e suona o si fa dei video dove si esibisce nelle cover dei suoi miti.
Poi li carica su youtube e se li riguarda.
” Bene ora posso andare in camera mia?”
“Se stasera non tocca a te apparecchiare vai, basta che non ti fai chiamare dieci volte quando è pronta la cena” gli risponde Hillary.
E Jamie si è alzato dal divano e lo ha seguito.
Quando Yuki esce dal bagno, con solo un asciugamano sui fianchi, quasi si spaventa nel vederlo lì in piedi accanto alla porta attento e silenzioso e Jamie a sua volta sgrana gli occhi nel vedere i tatuaggi del compagno.
Gli sembrano bellissimi, elementi integranti del fisico di Yuki, così come i suoi piercing.
In modo particolare è affascinato dalle ali che ha sulla schiena.
Yuki si accorge dello sguardo di Jamie.
“ Sai perché ho tatuato delle ali? Perché ne desidero di vere, forse un giorno queste lo diverranno, che ne dici, potrebbe essere no?”
Si siede sul letto e scorre sul suo corpo i tatoo, spiega cosa significano, così come un artista spiega ai profani la chiave di lettura delle sue opere.
Ogni segno è il simbolo di qualcosa di essenziale.
“Questo significa: ‘Più vicino alla morte, più vicino all’ideale’, è bello vero?”
Jamie segue con lo sguardo il disegno sul braccio, per un attimo ha colto il significato di quelle parole, ma ora percepisce solo il senso di un’affannosa ricerca di qualcosa che neppure Yuki sa cosa sia; vorrebbe dirgli che forse dovrebbe smetterla di disegnarsi il corpo, di bucarselo e di scolpire sulla pelle il significato della vita, nel tentativo di fermarne il senso.
Vorrebbe potergli dire che tutto ciò che sta facendo è solo il tentativo di coprire le sue debolezze, di scappare dai suoi possibili fallimenti e che fare di se stesso un art work non gli servirà a nulla.
Ma i pensieri di Jamie non sono pensieri fatti di parole, solo emozioni e sensazioni.
“Sai, Yuki non è il mio vero nome, l’ho scelto perché mi piace il Giappone e perché è un nome che ha molteplici significati, il mio preferito è neve”
Jamie ritorna nella sua camera, guarda fuori dalla finestra e vede cadere piccoli e radi fiocchi che si sciolgono appena toccato il terreno, cristalli bellissimi e unici ma inconsistenti e sa con sicurezza che questa è l’unica verità che Yuki quella sera gli ha svelato.


Connor.

Matt si avvicina al ragazzo molto alto e molto magro: Connor, che è stravaccato sul divano e fa finta di guardare la TV.
Il ragazzo sta bofonchiando qualcosa di intelligibile.
“E’ inutile che borbotti, se c’è qualcosa fai prima a dirmela chiaramente”
Matt è fatto così, è severo e preciso nelle sue richieste, chiaro sempre. Con lui non c’è possibilità di fraintendimenti, di malintesi.
“Allora?”
“Perché deve stare nella mia camera?” borbotta.
Matt sbuffa.
“Ancora per questa storia, insomma quante volte ne abbiamo parlato Connor?”
“Infatti io non volevo parlarne, sei tu che me lo hai chiesto”
“Senti, Taylor se ne è andato e c'è un posto vuoto nella tua camera, lo devi accettare..”
“Che cazzo c’entra Taylor adesso”
“Lo so che tu e lui eravate molto amici…”
Connor sbuffa: “Lasciamo perdere Matt”
Connor è stanco, anzi lo era già prima di cominciare, le discussioni con Matt non portano mai a nulla.
“Comunque visto che nella tua stanza c’è un posto vuoto Jamie sta da te, non è così difficile da capire”
“Già, tanto l’handicappato me lo devo sorbire io”
Matt scuote la testa.
“Quando fai finta di essere cinico non mi piaci, comunque vai a chiamarlo la cena è pronta”
Il ragazzo si alza di mala voglia e arranca sugli scalini con una svogliatezza così plateale da far saltare i nervi a chiunque.
Entra spalancando la porta e sorride quando vede Jamie trasalire.
“Ehi la cena è pronta, devi scendere”
E’ brusco ma anche un po’ a disagio, in fondo non ha ancora capito bene con chi ha a che fare.
Certo Matt e Hill hanno spiegato a tutti chi sarebbe stato il nuovo ragazzo, hanno cercato di far capire cosa gli è successo senza violare la sua privacy, hanno detto che ha avuto un incidente dove i suoi genitori sono morti e da quel momento lui non parla più, però capisce... Almeno qualcosa... Forse... Nessuno sa bene quanto.
Connor allora aveva alzato le spalle e sbuffato, quel pietismo nell’aria lo aveva irritato, come se quel tipo fosse stato l’unico ad avere avuto guai con la vita, mentre di quello che provava lui non gliene fregava niente a nessuno!
Cazzo gliene frega a tutti loro di come sta vivendo da quando Taylor se ne è andato; cazzo possono capire quanto fosse importante per lui avere trovato qualcuno che riuscisse a fermarlo quando la voglia di farsi del male diventava ingestibile, quando la tristezza era ingovernabile.
Ed ora dover condividere il suo spazio con qualcuno che non è Tay gli è insopportabile.
Però quando Jamie lo guarda e gli sorride faticosamente si sente meno cinico di quello che vorrebbe, perché gli occhi del nuovo arrivato sono chiari, di un azzurro cielo e indifesi e il suo sorriso trema nella penombra, un sorriso incerto e fragile.
“Hai capito cosa ho detto?” Connor modula la sua voce su una tonalità meno scostante, “Scendiamo, dobbiamo mangiare”.
Jamie si alza quasi automaticamente.
C’è un posto vuoto e Hillary lo indica al nuovo arrivato.
Accanto a lui è seduto Connor, a lui Hillary ha posato davanti un piatto già completo: qualche pisello, una patata bollita piccola, una manciata di riso, mezzo hamburger.
Connor mangia con una lentezza esasperante, infilza con la forchetta un pisello per volta, schiaccia la patata, sminuzza in miriadi di briciole la carne e il riso lo mangia grano per grano ed è affascinante vedere quanta attenzione ci mette.
“Ci sono troppi piselli” borbotta.
Qualcuno ride.
Matt fulmina con gli occhi quelli che lo hanno fatto, cala il silenzio.
“Abbiamo fatto un patto Connor, non ci costringere a dover segnalare la cosa al dottore”
“Se mangio ancora qualcosa vomito”
“Connor sai che non vomiterai, ha ragione Matt, è la razione che il dottore ha indicato, nessun pisello in più”
“Li hai contati?” la voce di Connor trasuda rabbia ed irritazione.
“Pensi che abbia il tempo di contare i piselli, pensi che qualcuno di noi ce ne abbia aggiunti un paio in più per farti dispetto? Smettila e mangia”
Tutti hanno finito, stanno già sparecchiando mentre Connor sta ancora prendendo i grani di riso e li sta masticando uno a uno e Hill è seduta accanto a lui e legge un libro.
“ Mi sento un sorvegliato speciale”
“Lo sei, in questo momento della tua vita lo sei”
“Non vi fidate di me”
“No, se mi alzassi e uscissi dalla cucina butteresti tutto in pattumiera, lo sappiamo bene entrambi”
E’ ormai tardi quando Connor entra in camera sua.
Per un attimo sentendo il respiro lieve di qualcuno sul letto di fronte alla finestra pensa che Taylor sia tornato, poi si ricorda che Tay non tornerà più e intravede Jamie.
E’ disteso ma ha gli occhi aperti.
Connor si sveste lentamente, rimane in t-shirt e boxer, poi prende da sotto il materasso un piccolo involucro di carta leggera, lo apre con delicatezza e ne estrae una lametta.
L’appoggia contro l’interno coscia poi preme un po’ di più, stringendo i denti quando il sangue comincia ad uscire.
Quando alza gli occhi incontra quelli di Jamie che lo osservano e gli sembrano impauriti.
“Non è niente sai, non spaventarti, ora sto bene, solo quando sento male sto bene. In fondo non è male avere te come compagno di camera, almeno sono tranquillo sul fatto che non farai la spia”
Va in bagno, si disinfetta.
Quando rientra per mettersi a letto, Jamie è ancora sveglio.
“Dormi è tutto a posto. Tagliarsi per me è come per te non parlare, non è così? Il dolore lo puoi raccontare a qualcuno ma il vuoto come fai a spiegarlo?"
E così questa giornata finisce!


Ci siete ancora? Non siete ancora morti? ^_^
Lo so il capitolo è parecchio lungo e denso di avvenimenti, conoscere tutti i ragazzi che abitano a Parker’s House in una volta sola non è uno scherzo!
Spero che ciò che avete letto vi sia piaciuto e coinvolto e che continuiate a seguirmi.
  
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