Si era detto di aprire la sua anima a qualcuno.

Uno dei personaggi della sua storia sarebbe stato lì per lui, aspettando un cenno e la confessione di ogni sua ansia, tirando fuori lacrime dai suoi occhi -e orgoglio dal suo petto-. Passare in rassegna tutte le maschere che avevano fatto un cameo sul palco della sua vita gli aveva fatto arrossire le guancie, stringere la stoffa dei pantaloni, senza arrivare a spiegare quell’improvvisa voglia di aprire la bocca, e parlare.

Un ladro redento sull’altare della sua tribù, un clown con la faccia da schiaffi, un medico da strapazzo con manie da pervertito. Rise. Non andava fiero dei suoi contatti sociali.

Sfregando il viso sulla manica della camicia li vide, girargli attorno presentando i ricordi che aveva di loro come in uno show di cabaret. Poi guardò la luna ed il marciapiede sotto la finestra, dove lo salutavano uno ammiccando, uno ghignando, uno sorridendo.

Gli parve d’impazzire, braccato da quell’improvviso senso d’umanità che chiedeva comprensione.

Arrivò aprendo la porta con una chiave, gettando fiumi di parole dalla bocca. È alto, e stupido, con ambizioni alte e solide e l’apparente incapacità di comprendere alcunché.

“Ehi tesoro, sono tornato”, gli ripetè, come se non si fosse già capito, poi si chinò su di lui, facendosi deformare il viso da un sorriso un po’ malefico. Sentire la bocca di Kurapika sulla sua lo stupì irrimediabilmente, specie perché non aveva dovuto supplicarlo in lungo ed in largo per ottenere una simile, deliziosa concessione.

Era un bacio disperato, di quelli che Kurapika dava quando aveva un assoluto, impellente bisogno di parlare.

Preso nel suo abbraccio, Kurapika si umettò le labbra e non si ribellò, evitando il suo sguardo. L’unico che poteva sedere al suo confessorio era quell’idiota del suo uomo… non ci aveva ancora fatto l’abitudine. Leorio lo strinse, prendendo ancora una volta coscienza della sua incapacità di capire, ma deciso a provarci.

“Ti ascolto, amore mio”.