Non
c’è molto da dire qui, temo.
È
tutto scritto di seguito.
Tre
capitoli, tre punti di vista per la stessa giornata: Lui, la madre di lui e il
ragazzo di lui.
Tre
modi diversi per vedere la stessa situazione.
Piccola
avvertenza: è una narrazione molto lenta, dunque potrebbe risultare noiosa.
Ringraziamenti
a Shichan per il betaggio ♥
Parzialmente
ispirata a fatti realmente accaduti.
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First:
Probabilmente,
non ce la facevo semplicemente più.
« Mamma... ».
Tutte
le volte che la guardavo, tutte le volte che mi sorrideva, mi sentivo in colpa.
Come
se stessi infrangendo una tacita promessa che c’era fra noi. Una promessa mai
nominata né tantomeno messa per iscritto, ma che aleggiava nel nostro rapporto
come se facesse da sempre parte della nostra normalità.
La
promessa di dirci tutto, ogni cosa. Di condividere fra noi la felicità così
come i dispiaceri, i problemi a scuola e al lavoro, i dubbi, le insicurezze e
l’ansia.
Tutto.
Dalle capocchie di spillo ai giganteschi massi di dura roccia.
« Potresti... dire
qualcosa? ».
Ti prego. Qualsiasi
cosa.
La
vidi sobbalzare, poi ricominciare finalmente a respirare. I suoi occhi, fissi
sull’acqua che ribolliva nella pentola, fecero quello strano gioco che
frequentemente avevo visto quando in casa c’era ancora papà: si spensero, e si
riattivarono subito dopo con un tremito delle palpebre.
« Vai, Michael. Fai
tardi a scuola ».
Come
se, in quell’attimo infinito, avesse coscientemente cancellato dalla memoria
l’ultima frase che avevo pronunciato.
“Mamma, un giorno di
questi... vorrei presentarti il mio ragazzo.”
Da
allora, sono passate quasi tre settimane.
He.
Quando
altre paia di scarpe entrarono nel suo campo visivo, alzò finalmente lo sguardo
dai mocassini marroni che completavano degnamente la sua tanto dignitosa divisa
scolastica.
Come
aveva previsto, stava arrivando l’autobus. Ed era pieno, ma non serviva una
previsione per capirlo; lo era tutti i santi giorni.
Sospirò,
e il suo fiatò si condensò nell’aria in una nuvoletta di vapore.
Rabbrividendo,
racchiuse di più la testa nelle spalle, cercando il calore della sciarpa contro
il collo. Nello stesso istante in cui l’autobus si fermò a poca distanza da
lui, la mano destra nella relativa tasca alzò di qualche tacca il volume del
lettore mp3.
< I can’t deny I am afraid,
I won’t walk by and fade away.
Encaptured I belong to you, so cold,
astray... >(1)
Socchiuse
gli occhi, ascoltando mentre saliva.
Se
glielo avessero chiesto, probabilmente non avrebbe saputo descrivere il “come”.
Era
semplicemente successo.
Ad
un certo punto, un giorno come qualunque altro, si era accorto di amarlo. Si
era reso conto che, nonostante Alek fosse un
esemplare di essere umano non della peggior specie, ma di quelli cinici
abbastanza per avere le potenzialità di diventarlo, non gli importava poi
molto.
A
lui piaceva così, con tutte le sue fisime esistenziali e i suoi attacchi di
violento malumore. Con i suoi pensieri distaccati, a volte deprimenti, che egli
stesso soleva definire “semplicemente realisti”.
Con
quel suo carattere piccato che non piaceva subito a tutti, oppure piaceva ma
dopo un po’ stancava. Alek era una persona che si
doveva conoscere per più di qualche mese, probabilmente, per essere capita
veramente.
Era
questo che aveva sempre pensato, osservandolo da lontano. Ed era ciò che aveva
continuato a pensare quando, alla fine, erano diventati amici, poi come fratelli...
poi amanti.
Un
lieve sorriso gli sfuggì a quel pensiero, gli occhi puntati sullo scorrere
della città all’esterno del vetro. Un sorriso dolce ma, al tempo stesso,
oscurato da un’ombra malinconica.
Non
era giusto, pensò poi, mentre le ultime note della canzone scemavano nelle
orecchie.
Essere
così felice e non poterne ammettere il motivo ad alta voce, non era giusto.
« S-scusa?
».
La
voce un po’ acuta di una ragazza, capelli ricci e scuri nonostante la carnagione
chiara, gli arrivò proprio in quei pochi secondi di intervallo fra la canzone
appena finita e la successiva. Un ottimo tempismo, gli venne spontaneo
considerare, mentre per riflesso condizionato si toglieva uno degli auricolari
dalle orecchie. « Sì? » rispose dunque,
accigliato.
Lei
parlava piano, e fra il fragore delle pareti dell’autobus in movimento riusciva
a sentirla a malapena. Notò però che non indossava uniformi di sorta –
nonostante avesse uno zaino azzurro sulle spalle pieno di cuoricini e scritte a
pennarello – dunque il collegamento con la scuola superiore pubblica fu
spontaneo.
C’era
sempre stata, in quella cittadina, un certo contrasto fra la mediocre scuola
superiore pubblica e la facoltosa scuola superiore privata, di cui lui faceva
parte per volere di suo padre.
Certo,
tutto questo nonostante suo padre vivesse dall’altra parte degli Stati Uniti
con un’altra donna e i suoi due fratellastri.
« E-Ecco io volevo...
sì, insomma... ecco, chiederti il numero di cellulare... posso averlo? Per
favore! ».
Si
era sinceramente aspettato di tutto tranne che quello. Perso nei suoi pensieri,
che gli tormentavano il sonno e la veglia da ormai tre settimane, aveva
ingenuamente pensato che lei volesse chiedergli informazioni, magari su di una
fermata.
Solo
dopo si ricordò di averla vista altre volte, sempre su quell’autobus. Ma non
solo, anche al campo sportivo della squadra di atletica. A volte, lei e altre
due ragazze stavano appollaiate sulle tribune durante i loro allenamenti.
Ah.
Era quello, allora.
Il
pensiero che avesse un’ammiratrice lo fece ridacchiare. Ma non perché fosse
inusuale – ne aveva avute poche, doveva ammettere, ma contava una qualche
esperienza in proposito – piuttosto perché, ogni volta, non poteva evitarsi di
immaginarsi la faccia che avrebbe fatto Alek quando
glielo avrebbe detto.
Probabilmente
avrebbe arricciato il naso, assottigliando gli occhi, e con uno schiocco di
labbra avrebbe minacciato qualcosa, concludendo con una bella maledizione
contro tutte le “stalker” che avevano la faccia tosta
di prendere di mira una sua proprietà.
Ah,
sempre gentile il suo ragazzo.
Cancellando
il pensiero e trattenendosi nella sua solita cortesia, le sorrise lievemente: « mi dispiace ma la
mia ragazza non ne sarebbe troppo felice, temo... credo di non potertelo dare ».
Sconsolata,
quella chiese scusa e tornò verso i sedili in fondo.
Michael,
rimettendosi la cuffia nell’orecchio, tornò a fissare fuori con espressione
seria.
Era
talmente abituato a nascondersi, che usare il femminile ormai gli veniva
naturale.
« Ancora niente? ».
Gli
si avvicinò velocemente non appena suonò la campanella, segnando l’inizio della
tanto agognata pausa pranzo.
Michael,
tornando finalmente con la mente al presente, fece spallucce. « Parliamo il minimo
indispensabile » aggiunse a voce, portando
le dita della mano destra fra i capelli castano scuro, tirandoseli indietro.
Il
suo interlocutore – capelli di un biondo ramato, occhi verdi, divisa scolastica
portata alla bene e meglio: maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti
insieme al maglioncino beige, e cravatta allentata fino al secondo bottone
(slacciato) della camicia – sospirò sconsolato, spostando i vari libri e sedendosi
sul suo banco a gambe incrociate. « Mi pare un bel problema, Mike » aggiunse poi,
appoggiando i gomiti sulle proprie ginocchia e il volto sulle mani,
osservandolo da quella posizione sopraelevata.
Michael
sbuffò, allentandosi un po’ la cravatta nera e sbottonandosi il colletto. Lo
guardò a sua volta, alzando un sopracciglio: « ultimamente ti ripeti un po’, Jess. Sono quindici giorni che me lo dici. Grazie, ho
afferrato il concetto e ti ripeto, lo so » ironizzò appena, non riuscendo tuttavia a
suonare piccato nemmeno la metà del solito.
Poteva
fare di meglio, ma ormai erano altri tempi.
Jess espresse il suo disappunto roteando gli
occhi. « Non intendevo
quello » spiegò: « era per dire che
sta diventando un problema serio. Tua
madre che non ti rivolge parola per una settimana è normale. Tua madre che non
ti rivolge parola per due settimane, plausibile, anche se insolito. Ma se non
ti rivolge parola per tre, è un cataclisma » puntualizzò, ignorando tutti in una volta
gli sguardi e i movimenti dei loro compagni di classe, probabilmente diretti
alla mensa scolastica.
Jess sospirò di nuovo, puntando lo sguardo
oltre la finestra chiusa. « Anche oggi niente
cibo? » domandò pacato,
cercando con gli occhi ciò che durante la lezione aveva tenuto così impegnati
quelli di Michael.
Non
lo trovò. Probabilmente perché, come al solito, anche se Michael aveva fissato
insistentemente un punto del cielo grigio e nuvoloso di quel giorno non voleva
dire che avesse effettivamente visto ciò che guardava.
Michael,
dal canto suo, chiuse gli occhi e lasciò pendere le braccia lungo i fianchi. Si
era spostato in avanti con il bacino, abbandonando la posizione eretta che era
obbligato per etichetta a mantenere durante le lezioni, e ora stava facendo di
tutto per impedire al suo cervello di volare alle ormai solite paturnie
mentali; anche se le richieste di aggiornamenti di Jess
non lo aiutavano esplicitamente ad ovviare il problema. « Scusa, non ho
fame... però tu vai » gli rispose,
facendo un lungo respiro e rilassandosi.
Jess scosse il capo. « Figurati, mica ti
lascio da solo » bofonchiò.
Michael
aveva conosciuto Jess il primo anno di scuola
superiore. In poche parole, quando ancora entrambi non avevano ben presente
come funzionasse il mondo dell’ high school.
Anche
per quanto riguardava l’amicizia con Jess, era
semplicemente successo per caso. Erano finiti vicini di banco, dato che erano
gli unici della classe che venivano dalla scuola elementare senza nessun amico.
In entrambi i casi, infatti, gli amici di sempre erano finiti alla scuola
superiore pubblica.
Poi,
con il tempo, la differenza di classe sociale cominciò a farsi sentire. Jess era nato in una famiglia di ceto medio, che però si
era arricchita quando l’azienda tessile di proprietà della madre si era fatta
un nome sul mercato internazionale. E quel nome, lo stesso che portava il
biondo, aveva la stessa efficacia di un lasciapassare per i gruppi sociali più
in vista della scuola.
Faceva
parte della squadra di football nel ruolo di running back(2) e la sua ragazza era la capo cheerleader della
squadra cittadina (più grande di lui, addirittura). Aveva voti nella media ma,
come tutti gli sportivi di successo, contava di entrare al college con una
borsa di studio per meriti sportivi. Era bello e richiesto, e se non veniva
invitato ad una festa era solo perché aveva rotto il naso all’organizzatore
durante una qualche litigata. Normale amministrazione.
Tuttavia,
nonostante fosse così popolare, non aveva mai smesso di rimanere al suo fianco.
All’inizio Michael pensava che lo facesse per pietà – presente, no? Il ragazzo figo che prende sotto la sua ala protettiva lo studente
mediocre di turno in classe – ma aveva scoperto molto presto che il cervello di
Jess non prevedeva un livello di ponderazione così
alto. Era un ragazzo semplice, nonostante fosse effettivamente intelligente, e
rimaneva con lui semplicemente perché era il suo primo amico. Il migliore,
aveva detto specificatamente il biondo.
Doveva
ammettere che era un pensiero che lo faceva sorridere.
Inoltre,
Jess aveva giocato un ruolo fondamentale con Alek, anche se fra i due scorreva sangue amarognolo.
Gli
aveva dato la forza per dichiararsi, poteva anche dire così. Se l’era presa sul
personale da quando lo aveva scoperto, autoproclamandosi “il vostro Cupido di
san Valentino” citato testualmente. Anche se non aveva mai capito cosa
centrasse san Valentino, dato che all’epoca era maggio.
Jess era il suo appiglio. Era la schiena a cui
appoggiare la sua quando non aveva la forza di rialzarsi da terra e non voleva
pesare sulle spalle di Alek. Era le quattro mura di
una stanza in cui poteva sussurrare i suoi segreti e i suoi problemi, sapendo
che non sarebbero mai usciti di lì.
Perché
se c’era una cosa che Jess era, quella era
l’incarnazione della fedeltà.
« Oh, però tua madre
ha rotto il cazzo ».
Beh,
gli mancava solo un po’ di tatto, ecco. Doveva pure avere una mancanza da
qualche parte, no?
« Jess,
ne dobbiamo proprio parlare? » domandò allora Michael, riaprendo gli occhi e
guardandolo fra le ciglia.
Quello,
tornando a sua volta con le iridi verdi sulle sue, annuì. « Sì » aggiunse poi a
voce.
Non
lo sopportava quando faceva così. La sua intenzione non era passare l’ennesimo
pomeriggio a discutere su quanto doveva essere fatto e come, su cosa avesse
provato per recuperare il rapporto con sua madre e altre particolarità del
genere.
Voleva
solo disperarsi in pace. Perché sembrava impossibile?
Sibilò
qualcosa di incomprensibile, mettendosi seduto un po’ più composto, come se
fosse finalmente pronto per la solita chiacchierata. Anche Jess
lo notò.
« Allora? » chiese dunque il
biondo, in ascolto: « come procede a
casa? » domandò.
Aspettando
qualche istante, Michael sospirò e socchiuse gli occhi. « Mi saluta, per lo
meno, ma per il resto niente di che. Mi chiede cosa voglio da mangiare, a volte
mi da la buonanotte prima di andare a dormire... ma basta. Non dice nient’altro
» portò di nuovo la
mano fra i capelli: « non riesco nemmeno
a capire cosa pensa. Se mi dicesse qualcosa, qualsiasi cosa... se si
arrabbiasse, se urlasse, forse capirei. Forse me ne farei una ragione. Ma
così... » aggiunse, e fu
impossibile per lui trattenersi oltre.
Era
una cosa che faceva troppo male. Ma non il dolore di una ferita fresca, di un
taglio sulla pelle che sanguina molto, ma oltre quello non duole poi così
tanto.
Un
dolore profondo, radicato. Come un cancro, qualcosa che ti erode dall’interno
senza che tu possa fare niente per impedirlo. Una ferita che non sanguina, ma
scava con forza il suo spazio fra le viscere, e nel farlo scatena l’inferno.
« Praticamente, è
come se stesse in un mondo tutto suo » ipotizzò Jess.
Michael
annuì, appoggiando i gomiti sul banco e la fronte alle mani giunte. « Non riesco più a
capirla... » soffiò, mordendosi
il labbro inferiore.
Si
sentiva il respiro bloccato in gola, lo stomaco chiuso e quella famigliare
voglia di piangere che ormai da qualche settimana invadeva la sua vita a
momenti alterni.
Più
che altro la sera, a casa, quando steso sul letto si girava sul fianco e
osservava il buio. Quando pensava, e rifletteva, e si chiedeva “perché”.
“Perché è finita
così?”
Sentì
la mano di Jess sulla testa sfregargli piano i
capelli, in un gesto amichevole e caldo. « Smetti di frignare, non sei una checca
isterica » borbottò,
probabilmente in imbarazzo, spettinandolo.
Era
fatto così, Jess. Era una di quelle persone che ti
faceva ridere al pensiero che l’amicizia fra un ragazzo etero e uno gay (o
presunto tale) non potesse esistere.
« Sai, Jess? » cominciò allora
Michael, strofinandosi senza darlo troppo a vedere gli occhi prima di
rialzarli: « considerando che il
tuo migliore amico sta ufficialmente con un ragazzo, certi termini potrebbero
anche risultare offensivi » buttò lì, più come commento
ironico che come vera e propria lamentela.
Infatti,
Jess non abboccò all’amo. Oppure abboccò in pieno, e
quello che disse lo pensava seriamente.
« Non sei tipo da
offenderti per cose come questa ».
Non
lo avrebbe mai capito.
Michael
sorrise. « Già » affermò.
Passarono
qualche istante in silenzio, ascoltando solamente il lontano chiacchiericcio
degli studenti in giro per la scuola. Alcuni, con una pallina di carta di
giornale, si divertivano a giocare a calcio in corridoio e, di tanto in tanto,
i tonfi della pallina che batteva su porte e pareti arrivavano forti come
fucilate in quel silenzio che tale non era del tutto.
Finché
non fu Jess, incredibilmente, a mettere fine allo
stallo. « Secondo me sta
scappando ».
« Eh? » fu la risposta
spontanea del castano, perso nel suo personale e piccolo mondo.
« Tua madre » specificò Jess: « secondo me non sa
cosa fare, e allora scappa » spiegò.
A
volte, è vero.
I
ragionamenti più semplici sono anche i più esatti.
Lui
e sua madre erano tutto, l’uno per l’altra.
O
almeno... lo erano stati da quando suo padre, un bel giorno, aveva fatto le
valigie e aveva alzato i tacchi.
Erano
rimasti soli. Lei con un figlio di otto anni da crescere ed educare, lui con
una madre che aveva una ferita al cuore ancora aperta.
Michael
aveva sempre capito, tuttavia, che sua madre aveva dei limiti che non era in
grado di oltrepassare.
Era
una donna paziente, lavoratrice e molto in gamba. Lavorava come segretaria in
un ufficio comunale, dunque aveva orari fissi e uno stipendio che le permetteva
di pagare l’affitto, le bollette, il cibo per entrambi e avere sempre e
comunque qualcosa da parte per le emergenze. Suo padre gli pagava la retta alla
scuola privata – così come aveva pagato anche quelle delle scuole precedenti –
dunque non aveva il bisogno di sborsare soldi anche per un assegno di
mantenimento.
In
patteggiamento, sua madre aveva deciso che andava bene così. Che altri soldi
non ne voleva. Che si sarebbe arrangiata, ne era in grado, e allora “va bene, firmi
qui”.
Sua
madre era forte. Questo aveva sempre pensato.
Per
quello vederla ogni giorno così silenziosa e mesta, come se si fosse un’altra
volta rinchiusa in quel mondo a parte che visitava in passato quando non aveva
intenzione di accettare la presenza dell’ormai ex marito al suo fianco, gli
faceva male.
Lei
era una donna forte, eppure lui era riuscito a farla crollare. Di nuovo.
Si
sentiva... in colpa.
Borbottando
qualcosa che non aveva nessun senso, sbatté violentemente la penna sul tavolo.
Il rumore sordo rimbombò per tutta la biblioteca, facendo sì che alcune persone
girassero il capo in sua direzione, e lui ignorò altamente i seguenti sussurri
che riempirono il silenzio appena interrotto.
Alzandosi
dal tavolo su cui tre libri e il suo quaderno degli appunti erano aperti in
stile tovaglia, agguantò il cellulare dalla tracolla ed uscì.
Il
bello delle scuole private era che assomigliavano molto alle università.
Avevano aule grandi, professori preparati – non faticava a crederlo, con lo
stipendio che prendevano – e biblioteche fornite e tecnologiche, con abbastanza
tavoli da poter far studiare chiunque fosse troppo lontano per andarsene a
casa, o dovesse comunque rimanere a scuola per gli allenamenti delle varie
squadre sportive.
Lui
non faceva parte di questo secondo gruppo, ma aveva da qualche tempo deciso che
studiare in biblioteca non era una così brutta idea. Se tornava a casa,
nonostante l’irreale silenzio che vi regnava, non avrebbe fatto altro che
aspettare le cinque del pomeriggio – orario in cui sua madre tornava dal lavoro
– senza combinare nulla, e dopo non sarebbe andata meglio. Aveva perso due
giorni di studio in quel modo, e dal terzo aveva infine optato per quella
soluzione.
Fortunatamente,
nella scuola privata maschile in cui era stato iscritto le lezioni terminavano
relativamente presto e la biblioteca chiudeva relativamente tardi.
Facendo
un cenno con il capo alla bibliotecaria, in trincea dietro la reception fra due
pile di libri e con il naso sulle pagine di un altro, uscì e fece qualche
passo, allontanandosi dal modesto manipolo di studenti appollaiati all’ingresso
per una pausa caffè e relative chiacchiere. Cercò velocemente un numero sulla
rubrica del cellulare, avvalendosi di un’abitudine quotidiana, arrivando
finalmente al nome che gli interessava e facendo partire la chiamata.
Attese.
Non ci volle molto.
« Sei in ritardo » gli rispose una
voce maschile che ben conosceva: « ...di
due minuti » completò.
Michael
si fece sfuggire un sorrisetto. « Stavo pensando al modo migliore per lasciarti » disse,
appoggiandosi con la schiena al muro dell’edificio.
« Mh... è un problema » commentò l’altro, tranquillo come se il fatto non
fosse nemmeno suo. Probabilmente aveva già smascherato lo scherzo oppure, semplicemente,
non lo aveva preso sul serio sin dall’inizio. « Ti
sei trovato la donna? » domandò anzi, come
se fosse sinceramente curioso.
Michael
ridacchiò, lasciando perdere. Non sarebbe mai riuscito a fregarlo – o meglio,
non ne avrebbe mai avuto il coraggio – se Alek
continuava ad avere così tanta fiducia nei suoi confronti.
« No, sono ancora una
tua proprietà » disse dunque: « però ammetto che
questa mattina una ragazza mi ha chiesto il numero di cellulare, in autobus » lo informò,
dicendolo come se fosse una cosa di poco conto ma essendo in realtà
estremamente curioso di come avrebbe reagito l’altro.
Passò
qualche istante, in effetti, prima che riuscisse a sentire un grugnito scazzato
dall’altra parte della cornetta: « Le
hai chiesto in quanti modi vuole morire? » ringhiò e no, questa volta non
scherzava.
La
minaccia però non fece altro che farlo ridere di più.
« Cosa c’è che ti diverte così tanto? ».
« Tu! » rispose subito
Michael: « seriamente, le ho
detto che non potevo. Cos’è, non ti fidi? Sono una persona fedele » disse, osservando
nel frattempo il cielo che cominciava a scurirsi. Era quello l’inconveniente
dell’inverno, faceva buio molto presto.
Ci
fu un breve silenzio dall’altro capo del telefono, da cui si sentì uno schiocco
di labbra. « Non ho mai detto di non fidarmi, ma
preferirei che non ti gironzolassero intorno » disse l’altro.
Michael
ridacchiò di nuovo. « Alek,
era una ragazzina! » si difese.
« Peggio del peggio, allora » commentò subito lui.
Non
ce la poteva veramente fare. Gli piaceva tutto di quel ragazzo, sia il modo un
po’ grezzo di porsi che la dolcezza intrinseca che riusciva ad infilare in ogni
parola, in ogni frase che pronunciava.
Anche
la gelosia, quelle minacce lasciate sicuramente a vuoto che borbottava a mezza
voce. Suvvia, da qualunque parte la si guardasse, Alek
non avrebbe mai alzato le mani su una ragazza nemmeno sotto tortura.
Non
era sicuro sotto compenso, però.
« Idiota, lo sai che
non lo farei mai... » mormorò appena in
risposta, piegando le labbra in modo dolce anche se non gli stava sorridendo
direttamente.
Anzi,
era quasi meglio così. Aveva difficoltà ad esprimersi a dovere, quando se lo
ritrovava davanti.
Dall’altro
capo, udì una risatina. « Non c’è bisogno che ripeti di amarmi, lo so » ironizzò con finto
fare saccente. « Piuttosto... » continuò poi: « a casa? ».
Michael
fece spallucce (per riflesso condizionato, più che altro). « Mah, sempre così » rispose con l’aria
di uno che non ne può più, di dover ripetere sempre le stesse cose.
Dall’altra
parte, tutto tacque. Tanto che Michael pensò inizialmente che fosse caduta la
linea, salvo constatare che si sentiva il rumore del suo respiro. « Alek?
» chiamò dunque.
« Forse dovresti veramente pensare ad un modo
per lasciarmi... » disse allora l’altro,
con voce mesta, però questa volta molto seriamente.
Michael
si batté una mano sulla fronte.
Amava
Alek, lo amava davvero, ma quando faceva così provava
l’irrefrenabile voglia di prenderlo a calci in bocca. Non poteva fare ogni
volta attenzione a quello che diceva per paura che poi l’altro passasse le sue
giornate ad autodistruggersi l’anima con il complesso della palla al piede.
Non
era così che funzionava una relazione, ok?
« Alek,
se ricominci con questa storia giuro che patirai una morte lenta e disonorevole
» minacciò
veementemente, serio nel messaggio più di quanto fosse per la minaccia in sé.
Alek sospirò. « Va
bene, va bene... » acconsentì poi,
anche se non dava propriamente l’idea di aver accettato il muto compromesso che
Michael si era sforzato di minacciargli così bene.
Riprese
a parlare, cambiando completamente argomento, dopo qualche breve istante. « Mi sa che fra poco devo andare. Cosa fai
oggi, biblioteca fino a sera? » domandò.
Michael
annuì: « sì. Devo finire una
ricerca di Cime Tempestose » specificò con un sospiro che lasciava intendere quanto
poco la cosa lo entusiasmasse.
Ci
fu un attimo di sbigottito silenzio. « Ma
Cime Tempestose non era nei compiti per la prossima settimana? » chiese poi Alek, stupito nel tono di voce.
Michael
annuì ancora. « Quelli di questa
settimana li ho già finiti » lo informò, detto più che altro come se si stesse
lamentando di non averne di più.
Lui
ovviamente non lo vide, ma era sicuro che adesso Alek
stesse scotendo il capo con profondo disappunto. « Sei
la vergogna della gente pigra » commentò sprezzante, per poi aggiungere
subito: « devo andare ora, ci sentiamo per la buona
notte? ».
Michael
buttò un occhio sull’orologio da polso, constatando che anche per lui era ora
di rientrare; anche perché cominciava ad avere un po’ di freddo. « Approvato. Ti
alleni anche oggi? » si informò.
Alek frequentava il college – corso di scienze
sociali – e faceva parte della squadra di atletica dello stesso, dato che aveva
gareggiato anche per la squadra della sua scuola superiore. Era un
mezzofondista, e le sue specialità erano gli ottocento metri piani e i
quattrocento ad ostacoli.
In
realtà, si erano conosciuti proprio sul campo d’atletica. Avevano frequentato
la stessa scuola media, seppur in due classi diverse, e per quei tre anni in
cui aveva gareggiato come staffettista erano sempre stati compagni di squadra.
Che
poi ci fossero voluti due di quegli anni perché diventassero amici, era
un’altra storia.
« Sì, fra poco ci sono le selezioni invernali
» gli rispose
pacatamente: « non fare troppo tardi, ci sentiamo questa
sera » aggiunse poi.
Michael
salutò a sua volta e poi richiuse il cellulare. Alzò per un ultimo istante lo
sguardo al cielo coperto sempre più scuro, stiracchiandosi e dirigendosi di
nuovo verso l’entrata della biblioteca.
Per
un attimo, uno soltanto, notò gli sguardi di un quartetto di ragazzi dall’altra
parte della strada. Ridacchiavano e guardavano in sua direzione.
Se
ne fregò, rientrando nell’edificio. Non era tipo da prestare attenzione a cose
infantili come quella.
Quando
uscì dalla biblioteca, salutando con un cenno il custode che ne chiudeva a
chiave le pesanti porte in vetro, erano ormai le sette di sera e all’esterno
era completamente buio. L’atmosfera era rischiarata dalla luce elettrica dei
lampioni in strada, ma il freddo era tornato pungente esattamente come quella
mattina.
Alzò
il mento in modo da portare le labbra fuori dalla sciarpa, soffiando nell’aria.
Subito il suo fiato si condensò in una fitta nuvola lattiginosa che gli fece
effettivamente capire quanto freddo facesse.
Pensò
ad Alek, rabbrividendo. Non credeva assolutamente che
si allenassero fuori, con quella temperatura da circolo polare artico; probabilmente
si erano spostati in palestra... anzi, glielo augurava proprio.
Con
le mani bene immerse all’interno delle tasche felpate del cappotto, arrivò a
passo veloce alla più vicina fermata. Alzò gli occhi sulla bacheca in cui erano
segnati gli orari, constatando con un moto di puro odio per i mezzi pubblici
che il prossimo autobus utile alla causa sarebbe passato non prima di dieci
minuti.
Dovette
arrendersi all’evidenza di dover aspettare per forza e, sforzandosi di rendere
la gambe e i glutei insensibili al freddo – tutta convinzione mentale, c’era
chi affermava che funzionasse! – si sedette sulla panchina in ferro sotto al
tettuccio. Estrasse il lettore mp3 dalla tasca del cappotto e, infilandosi gli
auricolari, lo accase e cominciò a scorrere la lista
delle canzoni. Non ne cercava una in particolare, non aveva semplicemente
voglia di risentire sempre le solite quattro che si sparava nelle orecchie
nelle mattine deprimenti (ovvero, ultimamente, sempre).
Non
fece però in tempo ad arrivare ad una scelta.
« Scusa, sapresti
mica quando passa il 27? » domandò una figura
davanti a lui. La sua ombra gli copriva la luce del lampione, ma a giudicare dalla
cintura firmata e dai jeans prettamente giovanili doveva essere un suo coetaneo
o di poco più grande.
La
risposta, tra l’altro, gli venne abbastanza spontanea: « dovrei vedere la
tabella... » disse pacatamente,
alzando lo sguardo.
Bingo.
Non era niente di che: jeans stretti e di marca, catenina d’oro, maglioncino
nero che aveva l’aria di essere cachemire, capelli neri laccati in un ciuffo,
braccialetto a catenina d’argento e un paio d’orecchini per lobo. Non lasciava
una buona prima impressione, ma sembrava uno tranquillo e lui si rifiutava di
avere pregiudizi di sorta.
Peccato
che, a volte, quelli che si considerano pregiudizi non siano altro che un
disperato tentativo dell’istinto di gridare “fa attenzione!”.
Fu
troppo tardi quando se ne rese conto. Mentre si alzava a voltava il capo verso
la tabella degli orari, una mano lo prese violentemente per la nuca,
stringendosi ai suoi capelli, e lo mandò a sbattere proprio sulla dura plastica
della tabella stessa.
Normalmente
non avrebbe accusato un colpo del genere, che tutto sommato non era nemmeno
così potente. Però la presa alla sprovvista e la sua guardia totalmente
abbassata fecero sì che fosse più la paura, che il colpo, a fargli del male.
Si
sentì il cuore stretto nella morsa del panico e una sorta di mano invisibile
che gli stringeva la bocca dello stomaco, bloccandogli al contempo anche il
respiro e la voce. Tentò di dire qualcosa, qualunque cosa, ma come prevedibile
non ci riuscì. Aveva la guancia destra schiacciata contro la plastica con
talmente tanta forza, che le labbra erano persino piegate in una posizione
strana. Anche se il colpo in sé non era stato così irruento, la prestanza con
cui il ragazzo gli teneva la testa schiacciata gli faceva intendere che non
fosse stato manesco apposta.
Non
riuscì a pensare a niente se non ad un striminzito “cos’ho fatto?” che nemmeno
arrivò a pronunciare. Le mani, nonostante fossero libere, rimanevano inermi
lungo i fianchi e in mano, più per riflesso condizionato che altro, ancora
stringeva il lettore mp3.
Sentì
uno schioccare di labbra, poi la voce del suo assalitore riempì il silenzio
solitario di quella fermata d’autobus.
« Mi è arrivata una
voce, Michael. Posso chiamarti così? » domandò retoricamente, senza nemmeno
aspettare la risposta: « un uccellino mi ha
detto che ultimamente stai gironzolando intorno ad una persona, e
quest’uccellino è particolarmente infastidito da questo tuo comportamento. Dice
che è sgradevole » spiegò con tutta la
dovuta calma del mondo, mentre con la mano libera dalla presa afferrò il suo
polso e, con la stessa facilità di come lo aveva mandato a sbattere, gli piegò
il braccio dietro la schiena in modo che non si muovesse.
Michael,
dal canto suo, ancora non parlò. Stava inutilmente cercando di liberare la
mente dalla scarica di terrore che gli impediva di pensare lucidamente, quando
notò altre due persone arrivare dal fondo del marciapiede.
Era
troppo bello, esageratamente irreale pensare che fossero lì per accorrere in
suo soccorso.
Infatti,
non lo erano. Lo notò anche senza vederli davvero in volto, bastarono i ghigni
di complicità che gli rivolgevano, le loro labbra sfigurate dal sadico
divertimento.
Erano
un “branco”.
E
lui era la vittima.
No,
la preda.
In
quell’attimo, pensare al suo nome gli
venne spontaneo.
Tuttavia,
i pensieri non gli impedivano di sentire ciò che gli accadeva intorno; non
erano abbastanza forti per estraniarlo dalla realtà. Era fin troppo cosciente
di doversi liberare, di correre, ma non sapeva come e il suo corpo non aveva la
minima intenzione di obbedire agli ordini che ostinatamente il cervello
continuava ad inviare ai muscoli.
Ma
le gambe non si muovevano e ora, cominciava anche a sentire dolore. Sia al
braccio bloccato in quella posizione strana, sia al punto della fronte con cui
aveva sbattuto sulla bacheca.
« Ti piace, Michael? » sentì poi il
ragazzo sussurrargli all’orecchio, il fiato caldo sulla minima porzione di
guancia che riusciva a sfiorare con le labbra. Un sussurro sibillino, quasi
incorporato ad una risatina divertita, ma annoiata nonostante tutto.
Non
capì cosa intendesse, inizialmente. Dopo, però, gli fu chiaro.
« Se in filo una mano
là sotto ti viene duro, mi dicono » aggiunse sprezzante.
Sì,
fu decisamente tutto più chiaro.
Gli
venne da sorridere. Ma il suo non fu né un sorriso di scherno, né un
inaspettato gioco del nervosismo.
Fu
puro compatimento.
« Non lo so, vuoi
provare? Magari viene duro anche a te » ribatté.
Col
senno di poi, forse non avrebbe dovuto farlo.
Fu
per la seconda volta sbattuto contro la bacheca, afferrato rudemente per i
capelli in modo da agevolare il movimento con quanta più forza possibile;
questa volta fece seriamente, e fece molto più male di prima.
Poi
fu tirato indietro per una terza volta, sempre per i capelli, e buttato sul
marciapiede con violenza. Fortunatamente cadde su un fianco, ma era esattamente
sull’orlo e non gli ci volle molto per girarsi e ritrovarsi sul suolo asfaltato
della carreggiata. Sotto la sua guancia appoggiata a terra, correva la linea
bianca che distingueva la corsia dalla banchina.
Però,
a quanto parve, per i tre non fu un problema così grande essere quasi in mezzo
alla strada.
Cominciarono
a picchiarlo. Forse non così violentemente come si era aspettato, ma lo fecero
con i piedi. Blateravano – poteva sentirlo nonostante si tenesse le braccia,
ormai martoriate e piene di graffi, sulla testa – qualcosa riguardo a non
volerlo toccare con le mani per schifezza, per non rimanere “contagiati”, per
non rischiare di farlo “eccitare troppo” e tutta una lunga serie di porcherie
che persino ascoltare per sbaglio era un’offesa all’udito e a tutto ciò della comune
morale che si potesse offendere a parole. Ridevano nel frattempo e, in tutto
ciò, continuavano a prenderlo a calci.
La
schiena, i lombi, il fianco scoperto su cui non era girato. Le gambe, un
ginocchio e poi di nuovo la schiena. La pancia, per una volta in cui non era
riuscito a chiudersi abbastanza su se stesso, e per quel colpo il diaframma non
si mosse più, bloccandogli il respiro.
Continuarono
ancora.
Michael
non disse e non fece niente, subendo e basta. Pregando che la smettessero, che
si stancassero, che quella tortura finisse e loro si annoiassero di quel
giochino, oppure completassero quel favore che, a giudicare dalle parole che
aveva sentito prima che la tortura cominciasse, sembrava stessero facendo a
qualcuno.
Che
qualcuno arrivasse, e li cacciasse... qualcuno qualsiasi, qualcuno e basta.
Ma
non ci fu verso, e loro continuarono per molto. Fino a quando, ad un certo
punto, non gli sembrò nemmeno più di sentire dolore.
Di
tanto in tanto un’auto passava, ma non si fermò nessuno.
L’autista
dell’autobus numero 13 che lo aveva soccorso, evitando con tanta cura di fare
della sua scatola cranica una gelatina, lo aveva portato al pronto soccorso più
vicino chiedendo alla centrale un cambio tempestivo per la linea. Si sentiva in
colpa ad avergli sporcato il gilet scuro e la camicia azzurra di sangue,
nell’appoggiarsi a lui mentre lo aiutava a salire e scendere dal taxi, e si
appuntò mentalmente che avrebbe dovuto scusarsi, appena il suo cervello fosse
tornato ad elaborare le informazioni a regime normale.
L’infermiera
dell’accettazione che li aveva accolti, invece, era sbiancata e aveva blaterato
qualcosa che sembrava tanto il nome di Dio seguito da qualche preghiera.
Ma...
era così grave? Doveva ammettere che si era preoccupato non poco, soprattutto
perché lui non sentiva tutto quel dolore e gli sembrava, a parte la
cocciutaggine dell’autista di volerlo sorreggere, di riuscire a muovere tutto
alla perfezione. Beh, non “alla perfezione”, però ci riusciva.
Dopo
un’attenta visita, il medico che ora stava controllando controluce la lastra al
torace che gli avevano fatto aveva decretato che non c’era niente di grave, e
che per la maggior parte erano solo lividi ed escoriazioni. Anche l’rx non mostrava nessun osso rotto e, di questo il medico si
disse sollevato, non vi erano nemmeno costole incrinate o in condizioni
peggiori.
« Sei stato fortunato
» se ne uscì
all’improvviso, rompendo il silenzio che si era venuto a creare all’interno
dell’ambulatorio: « sei ridotto male,
ma non così male » ironizzò, ma sinceramente
Michael non capì se doveva ridere o meno.
Il
dottore, capelli folti e brizzolati sopra un professionale camice bianco con le
iniziali ricamate sulla tasca, posò la lastra sopra la busta gialla da cui
l’aveva tolta, togliendosi gli occhiali e rivolgendosi di nuovo a lui.
« Michael, come ti
sei fatto quei lividi? » domandò, e la sua
espressione era talmente seria che riusciva ad incutere un certo timore.
Inizialmente,
il castano non rispose. Scostò lo sguardo da quello indagatore dell’uomo, focalizzandosi
sulle mani snelle e veloci dell’infermiera che continuava l’opera di
disinfezione delle varie escoriazioni che aveva sulle braccia.
Tuttavia,
probabilmente quel medico aveva una certa esperienza, per casi di quel tipo.
Attese in silenzio finché non fu proprio Michael, a rispondergli.
« Una rissa, niente
di che... » disse sul vago,
guardando altrove.
« Non hai le ferite
tipiche della rissa » intervenne allora
il dottore, pacatamente: « le escoriazioni su
braccia e gambe sarebbero frequenti anche in quel caso, ma avresti come minimo
anche un occhio nero e il labbro spaccato. Invece, a parte quel graffio sulla
guancia, il tuo volto è integro. Inoltre avresti come minimo qualche costola
incrinata, invece l’rx è pulito, in quel senso. La
maggior parte delle ferite le hai sulla schiena, e io credo che siano calci » spiegò con calma,
le mani nelle tasche del bianco camice. Lo osservò ancora in silenzio per
qualche istante, prima di aggiungere: « vuoi veramente che dica io la verità? ».
A
quelle parole, Michael si morse il labbro inferiore, arrendendosi all’evidenza.
Quell’uomo sapeva fare il suo lavoro meglio di come lui mentiva. « Mi hanno picchiato » rivelò con un filo
di voce, quasi vergognandosi.
Con
il senno di poi, si era reso conto, non aveva fatto niente, niente per resistere.
Non
solo si vergognava, ma si sentiva anche... debole.
Vide
negli occhi del medico lo scintillio della consapevolezza, e non si stupì nel
sentirlo continuare il discorso: « per quale motivo? » domandò, paziente.
Ancora,
per la seconda volta, non rispose.
Gli
tornarono alla mente i momenti, uno per uno, in cui era stato alla mercé di
quei tre ragazzi e dei loro calci. Delle loro risa, delle loro prese in giro e
delle loro offese. Delle loro parole affilate come lame e dure come solido
legno, velenose e irte di spine acuminate.
“Frocio.”
Offese
che si era sempre detto di non considerare come reali, convincendosi che non
gliene poteva fregare di meno. Che la gente poteva dire di lui quello che
voleva, urlargli in faccia ciò che più desiderava e tutto ciò non l’avrebbe mai
toccato, nemmeno sfiorato. Avrebbe lasciato correre sulla pelle insulti e
occhiatine come acqua sulla plastica.
Non
era stato così. Quelle parole... avevano fatto male, alla fine. Ed erano
penetrate in profondità sotto la cute, lasciando segni al di là di lividi e
graffi.
“Muori, scherzo
della natura.”
Senza
un vero perché, anche se continuava a dirsi che non era vero... aveva paura.
Quell’inafferrabile
paura senza motivo, il tipo che non si può combattere, o contrastare, perché
non si sa da dove proviene o cosa la provoca. Qualcosa di simile alla pura
inquietudine, solo più forte.
Quando
si rese conto che il suo silenzio era parso troppo lungo per una conversazione
normale, il dottore aveva già ripreso a parlare.
« Te lo chiedo per
una questione puramente amministrativa. In casi come questo, l’ospedale è
obbligato a segnalare il caso alle forze dell’ordine e, a seconda della
gravità, a sporgere denuncia. Allora, chi è stato a picchiarti? » domandò di nuovo,
portatore di una pazienza al di fuori delle possibilità di molti.
Qualcosa,
dentro di lui, si agitò. Non seppe dire cosa, però.
« Non li conoscevo » rispose dunque,
brevemente e senza aggiungere altro.
« Sapresti
descriverli? » domandò l’uomo.
Michael
negò con il capo. « Mi hanno preso di
spalle, non li ho visti bene » mentì.
Se
li ricordava. Forse non bene i due compari arrivati dopo, ma il primo ragazzo
sì. Ricordava la sua voce, soprattutto: viscida e dal tono quasi seducente, aveva
vibrato vicino al lobo del suo orecchio mentre lo teneva facilmente fermo
contro il vetro freddo della tabella.
Se
ci ripensava, gli venivano i brividi. Ed era semplicemente disgustato al
pensiero di quanto gli aveva permesso di avvicinarsi, forse inconsciamente,
preso alla sprovvista.
Era
stato semplicemente al di là della sua volontà.
« Capisco... » disse il dottore: « provvederò a che
sia sporta denuncia contro ignoti, allora. Ora, se vuoi scusarmi avrei altri
pazienti che mi attendono. Una volta che l’infermiera avrà finito, aspetta qui
fuori l’arrivo di tua madre e poi puoi tornare a casa. Se avverti dei fastidi,
mal di testa o qualsiasi altra cosa, torna subito in pronto soccorso » gli disse,
sorridendogli affabile prima di aprire la porta ed uscire.
Michael
lo salutò cortesemente, attendendo paziente ed in silenzio che la donna al suo
fianco terminasse di medicarlo.
Ogni
minuto che passava, però, la sensazione di malessere aumentava. Non era un
malore fisico, dovuto alle ferite o alle percosse subite; era sicuro che fosse
mentale, piuttosto. Era tutto dentro di sé.
Paura,
inquietudine, solitudine. La sensazione di vuoto accanto a sé appena
considerava di essere solo, in quella struttura. Appena pensava al fatto che,
nonostante sua madre fosse sicuramente per strada diretta lì, fino a che non
sarebbe arrivata lui sarebbe stato da solo.
In
balia di chiunque.
Quasi
riusciva a vedere il trio di ragazzi camminare lungo il corridoio asettico del
pronto soccorso, le loro labbra curvarsi in ghigni poco rassicuranti e i loro
occhi derisori puntati su di lui.
Trattenne
improvvisamente il fiato, chiudendo gli occhi e cancellando dalla mente quella
visione improbabile. Non voleva rendersi ridicolo né davanti all’infermiera, né
al cospetto di se stesso.
Non
era un bambino, non più. Aveva diciassette anni. Non gli era più permesso avere
paura dei fantasmi.
La
donna, probabilmente scambiando quel comportamento come una conseguenza delle
sue cure, chiese scusa a mezza voce. Le sua mani, se possibile, divennero
ancora più delicate e Michael non perse occasione per scusarsi a sua volta.
Si
stava agitando per niente. Doveva darsi una calmata.
Per
il resto del tempo non pensò più a nulla, concentrandosi solamente sul lavoro
della donna. Osservò con attenzione come imbeveva il batuffolo di cotone
idrofilo nel disinfettante, passandolo gentilmente sulle ferite per poi
considerare se mettere o meno un cerotto o qualsiasi altro tipo di medicazione.
Passò con delicatezza la pomata sul suo polso sinistro, gonfio e martoriato,
fasciandolo poi con velocità e precisione.
Quando
finalmente ebbe finito, Michael lasciò l’ambulatorio e si sedette sulla prima
seggiola che trovò libera. Fuori dalla stanza l’aria era più fresca, e la porta
d’ingresso poco distante faceva entrare un po’ d’inverno ogni volta che veniva
aperta e richiusa. Lui era senza maglione, abbandonato svogliatamente sulle sue
gambe insieme alla cravatta, e nonostante non fosse propriamente accaldato non
riusciva a muovere un muscolo per rivestirsi.
Era
semplicemente impietrito. Non per la stanchezza, nonostante ne sentisse lo
spettro nelle vicinanze, ma per un tipo di esaustione che oltrepassava persino
l’essere sfibrati. Era la consapevolezza di quello che gli era effettivamente
successo a fare capolino nei meandri della sua mente e, insieme ad essa, la profonda
tristezza che ne faceva seguito.
Cosa
avrebbe detto a sua madre, quando sarebbe arrivata? Cosa le avrebbe raccontato,
come si sarebbe giustificato?
Sicuramente
con un’altra bugia, un’altra menzogna. Un’altra oncia di falsità all’interno
del loro rapporto ormai compromesso.
Perché
con quale coraggio poteva dirgli la verità? Picchiato perché innamorato di un
ragazzo, perché qualcuno non l’aveva presa bene, non aveva semplicemente
annuito per poi girarsi dall’altra parte dimenticando di aver affrontato quella
conversazione.
A
volte avrebbe voluto che fosse semplicemente una cosa normale. Che fosse come
dire “toh, fra poco pioverà”: una di quelle cose di cui prendi atto ma che
finisce per passarti di mente l’attimo dopo averla sentita.
Voleva
semplicemente vivere la vita per come se l’era immaginata. Cosa c’era di così
sbagliato?
Chiuse
gli occhi, stringendoli mentre gli si bloccava il respiro in gola. Lui non
piangeva, non era sua abitudine farlo, ma se in quel momento fosse stato nel
buio della sua stanza... probabilmente si sarebbe lasciato andare.
Ma
non era a casa, e non sapeva nemmeno se tornarci o meno. Non sapeva se sua
madre gli sarebbe corsa incontro abbracciandolo, oppure si sarebbe tenuta a
distanza e avrebbe tirato dritto fino alla portineria e basta.
Oramai,
quello che sapeva di lei si era dissolto in un rumoroso silenzio. Non avrebbe
mai saputo dire come avrebbe reagito alla realtà dei fatti.
E...
Alek? Cosa gli avrebbe detto?
Non
poteva sperare di dirgli la verità senza che lui ne uscisse per lo meno offeso,
se non addirittura incazzato con il mondo intero. Lo conosceva, e per quanto
bene gli volesse lui e la calma non andavano esattamente d’amore e d’accordo.
Non
poteva dirgli “mi hanno picchiato perché sono gay” se quello si traduceva
automaticamente in “mi hanno picchiato perché sto con te”.
Come
poteva anche solo pensare che non si facesse venire come minimo i sensi di
colpa per una cosa simile? Anzi, erano inclusi nel prezzo, si poteva dire.
Il
pensiero di mentire anche a lui, però, lo faceva stare ancora peggio. Lui, che
era la seconda persona dopo sua madre a cui aveva silenziosamente promesso di
non mentire mai... non se lo meritava. Non si meritava le sue menzogne.
Bugie
che sembravano impilarsi ed aumentare, diventare sempre di più e sempre più
pesanti. Premevano sulle spalle come massi e, ne era sicuro, prima o poi ne
sarebbe rimasto schiacciato.
Sentiva
il limite avvicinarsi ogni minuto.
Trattenendo
un gemito si prese la testa fra le mani, appoggiando i gomiti alle ginocchia e
piegandosi su se stesso. Fece qualche respiro profondo, ma quando vide che
l’agitazione non svaniva, si lasciò sfuggire una sola parola.
Un
solo nome, nel tono di una preghiera.
« Alek...
».
« Sono qui ».
Sobbalzò,
sgranando gli occhi per la sorpresa; sentì il cuore perdere un battito e,
mentre alzava lo sguardo seguendo quella voce, i sentimenti entrarono in
contrasto fra loro.
Da
una parte, aveva un disperato bisogno di lui. Dall’altra, avrebbe preferito che
non fosse realmente lì; avrebbe quasi sperato di essersi immaginato tutto in
funzione di quel disperato bisogno di lui.
Ma
non era immaginazione; capelli biondi e corti, spettinati e sudati, sfioravano
con le punte un viso arrossato e un paio d’occhi di un blu profondo, in uno
strano contrasto con la carnagione pallida tipica del nord Europa.
Ogni
volta che lo guardava, si chiedeva come aveva fatto una persona dalla bellezza
così particolare a decidere di stare al suo fianco.
Inizialmente,
Alek non si avvicinò. Rimase di qualche passo poco
distante, osservandolo. Sembrava riprendere fiato.
Erano
cose che Michael notava. Lo faceva già normalmente, ma se si trattava di Alek la sensibilità nei confronti dei dettagli aumentava
esponenzialmente.
Lo
vide posare gli occhi su ogni parte del suo corpo come se stesse effettivamente
considerando cosa fosse successo e quanto fosse grave. Notò la sua fronte
aggrottarsi quando arrivò alla benda sul polso, e il suo sguardo farsi
preoccupato immaginando ciò che la camicia nascondeva.
Tornò
poi a guardarlo con la stessa espressione di qualcuno che osserva qualcosa di
fragile che è sul punto di rompersi, o un prezioso vaso di cristallo inavvertitamente
caduto a terra e rimesso insieme alla bene e meglio.
Michael
cercò qualcosa di rassicurante da dire, ma non gli venne in mente nulla. Non
prima che prendesse parola l’altro, almeno.
« Cos’è successo? » chiese. La domanda
più classica del mondo.
No.
Alla fine non ce la faceva, a mentirgli.
Sorrise
amaramente, abbassando gli occhi. « Mi hanno picchiato, mi sa » ironizzò, ma non
riuscì a farlo sorridere.
Non
era nemmeno nelle sue intenzioni, effettivamente. Solo, non trovava modo
migliore per dire la verità se non fingendo che non fosse nulla d’importante.
Lo
osservò avvicinarsi ed inginocchiarsi davanti a lui, prendendo delicatamente
fra le mani il suo polso fasciato; sempre dolcemente, vi posò sopra le labbra e
chiuse gli occhi per un attimo.
Michael
lo lasciò fare, sorridendo lievemente. « Non è niente, Alek.
Sto bene » disse piano, come
se in quel corridoio ci fossero solamente loro, come se la confusone e il via
vai del pronto soccorso fossero spariti d’un tratto.
Il
biondo riaprì gli occhi, ma non gli lasciò la mano. « Com’è successo? » chiese,
l’espressione a metà fra la serietà ed una sorta di tormento interiore.
« Aspettavo
l’autobus, mi hanno aggredito lì » rispose automaticamente, scostando lo
sguardo dai suoi occhi.
« In quanti? » continuò Alek.
« Tre » rispose ancora
Michael.
Poi,
la domanda che quest’ultimo meno avrebbe voluto sentire: « perché? ».
Questa
volta, non rispose subito. Tornò a guardare semplicemente i suoi occhi,
cercando in essi una qualsiasi scusa per non fornire quella risposta, o
sperando che lui lo capisse da solo.
Se
anche ci arrivò, però, in essi vide solo la disperata necessità di sentirselo
dire. Come se, altrimenti, una ragione simile potesse anche non essere reale.
Si
sentivano sempre, nei telegiornali, notizie di aggressioni a sfondo omofobico. Persone cosiddette normali con la convinzione
che la loro normalità fosse la chiave di volta con cui guardare tutti gli altri
componenti della società, e con cui giudicare coloro che non si associano a
tale ideale di normalità.
Sì,
si sentivano sempre... ma quando capitava ad una persona vicina, o a se stessi
in prima persona, la storia era totalmente diversa. La paura contro cui si
doveva combattere era totalmente diversa.
« Per... te » soffiò piano,
socchiudendo gli occhi.
Lo
vide chiaramente, passare come un’ombra nelle iridi blu dell’altro: il senso di
colpa che si trasformava pian piano in panico, divorando ogni briciolo di
ragione e di buon senso.
Si
sentì in dovere di fermare qualsiasi brutto pensiero che, ne era sicuro, stava
proliferando nella mente di Alek.
« Ehi, non mi hanno
fatto niente, ok? » disse subito,
posandogli le mani sulle guance: « solo dei lividi, qualche escoriazione e un
polso slogato. Non hanno nemmeno fatto sul serio » aggiunse, cercando di essere
convincente per lui ma soprattutto per se stesso.
« Questa volta forse,
ma la prossima? » cominciò allora Alek, ma Michael lo fermò subito.
« Ti proibisco di
pensare qualsiasi cosa che si avvicini anche solo lontanamente all’idea di
lasciarmi, perché so che ci stai pensando, ti conosco troppo bene » disse.
Alek fece schioccare le labbra, in disappunto.
Strinse
i denti prima di sospirare e parlare di nuovo: « mi dispiace deluderti, ma non sono
così forte per poter fare una cosa simile » commentò, poi portò le proprie mani a
prendere quelle di Michael e, stringendole, le baciò.
Il
castano non poté far altro che sorridere dolcemente. La tensione sembrava, pian
piano, scivolare via.
Eppure,
notava qualcosa in lui. Tensione. La presa delle sue mani, seppure sempre
gentile, era un po’ più forte e serrata del solito.
Alek aveva la brutta abitudine di pensare solo
a se stesso, ma di considerare molto di più le persone che amava e di cui era
geloso. E nella sua considerazione, rientrava un modo contorto di dire le cose
che lo preoccupavano, o di cui era insicuro, seguendo una tempistica ed un
sistema di ragionamento tutto suo.
Erano
quelle occasioni in cui non sapeva da che parte prenderlo.
« Tua madre? » chiese poi il
biondo, alzandosi e sedendosi al suo fianco. Michael fece per lasciargli la
mano – erano in pronto soccorso, in mezzo alla gente – ma Alek
la tenne ben stretta, intrecciandone le dita con le proprie.
Con
un secondo sorriso, Michael lo lasciò fare. « Non è ancora arrivata » gli rispose: « e tu? » aggiunse poi « chi te lo ha detto?
».
Alek arricciò il naso. « Mi ha telefonato Jess » sputò con tono
arrogante.
Ah,
ecco. Probabilmente lo aveva chiamato sua madre per saperne qualcosa di più.
« Non dirlo con quel
tono, è una brava persona » lo difese: « ed è il mio
migliore amico » aggiunse poi.
« Ero io il tuo migliore amico... » sibilò il ragazzo
al suo fianco, fissando il muro dall’altra parte dell’asettico corridoio come
se dovesse farlo esplodere con la sola forza del pensiero.
Tasto
sbagliato. Se ne rese conto subito.
« Mi pare che tu
abbia fatto l’upgrade » cercò di sdrammatizzare.
Alek face schioccare di nuovo le labbra ma la
sua espressione non variò. Il castano sapeva che non avrebbe dovuto prendersela
a cuore, ma Jess era un suo amico, e che lui fosse il
suo ragazzo o meno voleva vederci chiaro.
« Si può sapere
cos’hai contro di lui? » domandò allora
« Vuoi dire cos’ho
contro quelli come lui » rispose l’altro,
scostando gli occhi chiari sui suoi: « Fa parte della stessa risma di chi ti ha
malmenato, vero? Omofobi figli di papà annoiati dall’esistenza » imprecò a denti
stretti, tornando a fissare il muro senza però lasciargli la mano.
Quando
Alek se ne usciva con certi discorsi, Michael non
sapeva come rispondere. Era come se stesse dicendo le stesse cose di quella
“risma”, come l’aveva chiamata lui.
Stava
dividendo le persone in categorie. Così come Alek lo
faceva con “i figli di papà”, loro lo facevano... con i gay.
Il
concetto di base era il medesimo.
Ma
non glielo fece notare. Sapeva che a parlare era la rabbia, non Alek. Era l’agitazione che sicuramente lo aveva mandato nel
panico quando aveva ricevuto la telefonata di Jess, e
che lo aveva spinto a venire fin lì mandando a quel paese tutto il resto.
Straparlava
sempre, quando si agitava. Ma poi, ogni volta chiedeva scusa.
Inutilmente;
dal canto suo, era perdonato per definizione.
Solamente
allora notò un particolare a cui in precedenza non aveva dato peso. « Sei in tuta? » domandò perplesso,
fissando pantaloni e giacca coordinati nei colori rosso e bianco, gli stessi
del college che frequentava l’altro. Senza giubbotto, tra le altre cose.
Lui,
girandosi appena, annuì. « Il campo era vicino
» disse
innocentemente.
Cosa
non completamente vera, se per “campo” intendeva quello in cui la squadra di
atletica si allenava di solito, ovvero quello che distava per lo meno tre
isolati dall’ospedale.
« Alek...
» disse poi, improvvisamente
conscio di una terribile realtà: « sei venuto di corsa? ».
Quello,
come risposta, fece un sorrisetto sbieco.
Aveva
veramente mollato a metà gli allenamenti venendo in ospedale senza nemmeno
cambiarsi!
Non
poteva crederci! « Pazzo... » mormorò sconvolto.
« Si trattava di te » si giustificò
l’altro.
« Ti ammalerai! » esclamò lui per
tutta risposta.
« Ma cosa vuoi che me
ne importi, scusa? » sbottò allora il
biondo, mantenendo tuttavia un tono di voce normale. Michael gli riservò uno
sguardo palesemente contrariato, ma negli occhi di Alek
non notò il minimo segno di cedimento, così lasciò perdere. Strinse di più la
mano in quella dell’altro e, scivolando più in basso con il bacino, si appoggiò
con la fronte alla sua spalla.
Se
ne fregò della gente, delle infermiere e di chiunque potesse passare e notarli.
In quel momento era al suo fianco, il resto avrebbe aspettato.
« Le selezioni
invernali... » sussurrò poi il
castano, come a voler rivangare l’argomento. Sentì il capo di Alek appoggiarsi sul suo, e la stretta sulla mano essere
ricambiata.
« Mettiti in testa
che faccio quello che mi pare, Michael » gli disse, per poi aggiungere: « finché lo vorrai,
io sarò sempre al tuo fianco ».
Non
ebbe la forza per rispondergli, dato che all’improvviso tutta la tensione e la
stanchezza accumulate fino a quel momento ritornarono prepotenti a prendere
possesso del proprio corpo.
Semplicemente
chiuse gli occhi, addormentandosi.
Quando
si risvegliò era ancora seduto sulle sedie del pronto soccorso, ma questa volta
inginocchiata davanti a lui c’era sua madre.
Aveva
i vestiti da casa – quei pantaloni blu di una tuta ormai logora e rattoppata –
ed era quasi sicuro che il giubbotto beige coprisse il solito maglione rosa con
i gattini che si trascinava dietro dagli anni ottanta.
Vedendola
in quel momento, con i capelli tirati sulla nuca alla bene e meglio, nessuno
avrebbe avuto il coraggio di pensare che per la maggior parte della giornata
vestiva completi eleganti con camicie di seta, portava i tacchi e chiudeva i
capelli color mogano in stretti e professionali chignon.
Quando
Michael fu ritornato totalmente in sé, sua madre lo abbracciò stretto. Non
disse niente perché ci pensò quel gesto a fare tutto: si poteva sentire la
preoccupazione, lo spavento ma, al contempo, il sollievo che quella situazione
di tensione fosse finalmente terminata, anche se dovuta a cause di forza
maggiore non esattamente gradevoli.
Non
si dissero però nulla per tutto il viaggio di ritorno verso casa, in cui non
fecero altro che guardarsi e tenersi per mano. Lei sorrideva appena, in quel
modo tutto particolare delle mamme per comunicarti in silenzio che andrà tutto
bene, e lui rispondeva non per riflesso, ma per sincero sollievo.
Si
sentiva come se un mucchio di mattoni si fosse finalmente levato dal suo
stomaco, e nonostante non avessero ancora parlato, il solo fatto che sua madre
gli sorridesse e lo guardasse di nuovo dopo più di venti giorni non poteva fare
altro che renderlo ottimista.
Se
fosse stata solo l’adrenalina a causare quello sbalzo d’umore, probabilmente
già la mattina successiva sarebbe tornato tutto come prima.
Arrivarono
davanti al condominio, sua madre pagò il tassista e salirono insieme le scale
fino al loro appartamento al terzo piano. Sua madre aprì la porta, entrarono,
si svestirono e si guardarono di nuovo negli occhi.
Nessuno
dei due aveva la minima idea di come cominciare o di cosa dire. Continuavano a
guardarsi in silenzio, uno sperando che fosse la donna a dare inizio ad un
qualsiasi discorso, l’altra dando per scontato che quest’onore spettasse al
figlio.
Alla
fine, dopo un minuto buono, la madre chiuse gli occhi e fece un profondo
sospiro. « Hai fame? » domandò poi,
riaprendoli.
Michael,
sollevato, negò con il capo.
« Meglio, anche io ho
lo stomaco chiuso » commentò la donna,
togliendosi le scarpe e posandole ordinatamente all’interno del mobile
all’ingresso: « faccio del tè.
Qualcosa dovremo pur mangiare a cena » considerò, incamminandosi in direzione della
cucina. Nell’aria aleggiava ancora il profumo della carne – probabilmente
l’avevano chiamata che aveva già cominciato a preparare la cena – ma erano
entrambi consapevoli che sarebbe stata buttata via, perciò non si rimise
nemmeno a terminare la cottura, prendendo direttamente la teiera.
Michael,
una volta che si fu tolto le scarpe a sua volta, si diresse subito verso il
divano dopo la zona cucina. Si sedette tranquillo nel suo solito angolo,
rilassandosi all’atmosfera familiare che emanava la casa.
Era
un po’ preoccupato per Alek, in realtà, ma era quasi
consapevole che fosse rimasto in ospedale fino a che non era arrivata la madre.
Conoscendolo, inoltre, probabilmente aveva calcolato i tempi in modo tale da
sparire ancora prima di incrociarla anche solo per sbaglio. Non si conoscevano
di persona, Alek e sua madre Elise, ma il biondo
aveva visto una sua foto e di sicuro sarebbe stato tranquillamente in grado di
riconoscerla.
Una
volta che il tè fu pronto, Elise tornò in direzione del divano con le due tazze
di liquido fumante. Il tipico odore del tè appena fatto si diffuse nell’aria e,
accompagnata da tale aroma, sua madre si sedette nell’angolo opposto del
divano, coprendo le proprie e le sue gambe con la coperta di pile.
Una
volta che fu seduta, ed ebbe sorseggiato il tè, prese parola di nuovo. « Adesso parliamo un
po’, ok? » domandò, a dire il
vero un po’ minacciosamente.
Michael
annuì, assaggiando a sua volta l’inimitabile tè di sua madre. « Sì » aggiunse a voce,
aspettando che fosse lei a fare la prima domanda. Perché quando Elise diceva
“parliamo”, la prima domanda era sempre la sua.
« Sei gay? ».
Si
sapeva anche che Elise, quando diceva “parliamo”, era psicologicamente
preparata a non avere remore o peli sulla lingua.
La
domanda in sé, nonostante Michael conoscesse queste particolarità, fu come
attaccare un pezzo di scotch ai peli del braccio e poi strapparlo via.
Lui
si prese qualche istante prima di rispondere, osservando il liquido ambrato
nella tazza. « Non lo so » ammise poi,
decidendo di parlare a cuore aperto.
Non
avrebbe mai più vissuto l’esperienza protrattasi fra loro nelle ultime
settimane; se qualcosa doveva succedere, sarebbe definitivamente successa da
quella sera in poi e lui avrebbe affrontato qualsiasi conseguenza ne fosse
derivata.
Anche
Elise si prese il suo tempo. « Non lo sei? » domandò dunque, il tono pacato ma serio.
« Non so nemmeno
questo » rispose Michael,
questa volta subito dopo la domanda: « so solo che sono innamorato, mamma. Come
mai lo sono stato, e so che nonostante questa persona sia un ragazzo come me ho
deciso di cercare di viverla come posso » disse. Alzò gli occhi su di lei, la tazza
ancora vicina alle labbra: « è sbagliato? » domandò a sua volta.
Sua
madre bevve un altro sorso di tè. « Dipende » sentenziò poi, continuando: « il concetto non è
sbagliato. Secondo la morale lo sarebbe, ma io ho perdonato per anni un marito
che mi tradiva, dunque non sono la persona migliore per impartire lezioni di
morale » aggiunse con lo
stesso tono calmo.
« E allora cosa ci
trovi di ingiusto? » partì al
contrattacco Michael.
« Dal punto di vista
logico, nulla » ammise, facendo
però solo una breve pausa prima di riprendere: « ma sono una madre, non riesco a
pensare a mio figlio dal punto di vista sistematico con cui impilo documenti
sulla scrivania del mio capo » disse. Prese un altro sorso di tè, per poi continuare:
« so che ti chiedo
uno sforzo, ma cerca di metterti nei miei panni. Cerca di immaginare di avere
un figlio e immagina per lui un futuro; un futuro in cui lo vedi diplomarsi,
laurearsi e trovare lavoro. Immagina la prima volta che ti porta a casa la sua
ragazza, il momento in cui te la presenta, il momento in cui lui ti dice di
averle chiesto la mano. Immagina le nozze, la cerimonia, le cene con i parenti
e i nipotini che corrono ai tuoi piedi in una bella casa con un giardino verde
e pieno di fiori. Immagina... che tuo figlio abbia tutte le cose che tu non hai
avuto la forza di avere, o che hai sfiorato con le dita senza riuscire ad
afferrarle, oppure che hai avuto e perso. Una bella casa, un consorte fedele,
una famiglia unita... » un’altra piccola
pausa, gli occhi lucidi puntati sul soffitto: « non si tratta di logica qui Miky(3), lo capisci? » aggiunse con un
filo di voce, deglutendo per non lasciare che le lacrime la vincessero.
Michael,
dal canto suo, aveva fatto tutto ciò che gli aveva chiesto di fare. Aveva
immaginato un suo possibile figlio, aveva costruito attorno a lui una vita
perfetta... ma ancora non si sentiva nel torto, non si sentiva sbagliato più di
quando aveva preso il coraggio a due mai e aveva rivelato a sua madre di
frequentare un maschio.
Probabilmente,
era semplicemente impossibile per un figlio mettersi nei panni della propria
madre.
Chiuse
gli occhi, sospirando. « Sì, capisco almeno
quello. Ma non posso mettermi nei tuoi panni, mi dispiace mamma... non ce la
faccio » disse sinceramente,
abbassando lo sguardo sulle proprie ginocchia coperte dalla soffice coperta di
pile.
Non
aveva mai pensato che parlare con sua madre potesse costargli così tanto
coraggio. Aveva sempre discusso con lei nella maniera più leggera e libera
immaginabile, anche se, doveva ammettere, non su problematiche di quel calibro.
Al massimo erano problemi con la scuola, o con l’atletica, o con qualsiasi
altra cosa normalmente riguardante la vita di un adolescente come tutti gli
altri.
Finché
non aveva smesso di essere un adolescente come tutti gli altri, almeno.
Rimasero
entrambi in silenzio per minuti che parvero ore intere.
Finché,
questa volta, il coraggio di infrangere quel nuovo muro non venne proprio dal
ragazzo: « cosa vuoi che
faccia? » chiese, puntando lo
sguardo indeciso prima sugli occhi della madre, poi sulla lampada direttamente
alle sue spalle.
Elise
rimase in silenzio per qualche altro istante. « Se te lo chiedessi... lo lasceresti?
» rispose poi con
un’altra domanda, seria ed inamovibile.
Michael
temeva un risvolto del genere. Ingenuamente, dentro di sé, aveva pensato che
sua madre potesse capire, che potesse addirittura accettare il fatto che la
persona più importante della sua vita, da quel momento in poi, sarebbe stato un
ragazzo poco più grande di lui.
Una
persona del suo stesso sesso.
Come
un bambino piccolo che crede nel potere delle fate, aveva creduto fermamente
che sua madre avesse capito quanto ci teneva e, sorridendo, gli avesse detto
“va tutto bene” con quella sua voce dolce che lo metteva sempre a suo agio.
Che, in qualche modo, sarebbe forse stata anche un po’... felice, per la
felicità che con Alek sentiva di avere raggiunto.
Evidentemente,
però, era altrettanto vero che le bolle di sapone scoppiano non appena si tenta
di afferrarle con le mani.
Poiché
quello erano i suoi desideri: fragili bolle di sapone.
« Mi stai
chiedendo... » soffiò, facendo del
suo meglio per far sì che la voce non tremasse: « ...di rompere con lui? » terminò, non
potendo trattenere un fremito.
Elise
fu inamovibile. « Lo faresti? » domandò di nuovo.
Il
panico lo invase del tutto. Partì dallo stomaco e risalì pian piano, infettando
il cuore, facendogli aumentare i battiti fino a sentirli rimbombare
fastidiosamente nelle orecchie. Ormai non guardava né sua madre né la lampada
sul tavolino alle spalle della donna; aveva fissato lo sguardo sulla tazza di
tè che teneva fra le mani, occhi sbarrati e fiato corto, totalmente in balia
del dubbio.
Cosa
rispondere? “No” e continuare la storia con Alek, o
“sì” e rimettere in piedi il rapporto con sua madre?
Era
una scelta che non poteva fare. Cos’avrebbe fatto la maggioranza delle persone?
Sarebbe fuggita di casa con l’amante pur conscia di fare uno sgarbo all’unico
genitore a cui è importato qualcosa del figlio, oppure avrebbe obbedito alla
madre infrangendo non solo il proprio cuore, ma anche quello dell’amante?
Perché
lo sapeva, lo poteva quasi immaginare il volto di Alek
impietrito dalla sorpresa. Sarebbe stato ore a fissare lo schermo del cellulare
prima di avere la forza di respirare di nuovo e, ne era sicuro, il primo
respiro consapevole sarebbe stato il preludio alla vera disperazione.
Alek non era una persona in grado di capire
quand’era il momento di smettere di farsi del male.
Trattenne
il fiato, sentendo il diaframma premere sui polmoni come se fosse in apnea
sott’acqua da troppo tempo e gli servisse al più presto una boccata d’aria.
Respirò di nuovo, ma nulla più che un minimo rivolo d’aria entrò fra le labbra
quasi serrate.
No...
non poteva. Non voleva. Era ingiusto.
Sua
madre lo stava mettendo all’angolo. Gli stava chiedendo di scegliere fra due
cose importantissime della sua vita sapendo già quale avrebbe scelto. Era
schifosamente ingiusto.
Quello
che fece più male, però... fu il pensiero delle labbra di Alek
piegate in un sorriso gentile mentre gli diceva un semplice “non fa niente” e,
ingoiando la tristezza per i momenti di solitudine...
...semplicemente
lo lasciava andare.
Perché
sì, com’era sicuro che l’altro sarebbe caduto preda di una disperazione senza
via d’uscita... sapeva anche che non avrebbe cercato di trattenerlo o fargli
cambiare idea.
Per
questo era... profondamente ingiusto. Alek non
avrebbe lottato.
Non
se la richiesta fosse arrivata da Michael.
Non avrebbe lottato.
« I... Io n-non... » balbettò nel pieno
della sua crisi interiore, fissando il liquido ormai tiepido con lo sguardo a
dir poco terrorizzato.
Non
sapeva se sua madre lo stesso osservando, che espressione avesse in volto o
cosa le passasse per la testa. Sapeva solo che non avrebbe mai voluto vedere
quel sorriso triste dirgli addio ma, al contempo, non poteva sopportare la
visione di lui e sua madre separati in casa.
Era
sua madre. Loro erano una famiglia da due. E lei lo sapeva.
Sapeva benissimo che
avrebbe comunque scelto lei.
« Miky,
calmati. Respira » intervenne poi sua
madre, mettendosi dritta sul divano e appoggiandogli una mano sulla fronte. Non
sapeva quando aveva cominciato a tremare, ma se ne rese conto dal fatto che la
mano fresca di sua madre era più ferma della fronte su cui era appoggiata.
« Non... chiedermi
una cosa simile... » balbettò
sussurrando, socchiudendo gli occhi come un imputato che aspetta la sentenza
che lo condannerà alla galera.
« Non te lo sto
chiedendo » gli disse.
Sobbalzò.
Non gli parve vero.
« Eh? » domandò infatti,
rialzando lo sguardo su quello della madre.
Stava...
sorridendo. Appena un po’, ma sorrideva. « Non te lo sto chiedendo » ripeté lentamente,
riaccomodandosi sul divano e prendendo un altro sorso di tè.
Michael
era del tutto scioccato. Era consapevole che alcune lacrime erano finalmente
sfuggite al suo poco autocontrollo perché le aveva sentite scivolare sulle
guance e cadere sulla coperta, ma non gli importò. « Cosa stai... » sussurrò, allibito.
Elise
sospirò, sorridendo un po’ più ampiamente. « Non è la vita che mi immaginavo per te, ma
sei giovane... le cose cambiano rapidamente, alla tua età » probabilmente stava
esprimendo una speranza, nel profondo di sé, ma non diede tempo a Michael di
porsi il dubbio: « ma è anche vero che
ormai sei grande, e riesci benissimo a ragionare per conto tuo. Fai quello che
vuoi, finché ti rende felice » aggiunse, chiudendo gli occhi mentre terminava in un
sorso tutto il contenuto della tazza.
Michael
provò un sollievo tale, che pensò addirittura di non averlo mai provato prima
di allora. Si lasciò andare ad un breve singhiozzo poi, ridacchiando, si
asciugò occhi e lacrime con la manica del maglione. Balbettò anche quelli che
dovevano essere dei ringraziamenti, ma non fu totalmente sicuro che sua madre
avesse effettivamente capito che lo erano.
Tutto
ad un tratto, il mondo riprese una buona parte dei suoi colori.
« Ah, chi era quel
ragazzo biondo? » domandò poi la
madre, saltandosene fuori dal nulla.
Lui,
terminando di asciugarsi gli occhi, la guardò. « Eh? » domandò accigliato.
« All’entrata del
pronto soccorso, quando sono arrivata, c’era un ragazzo biondo. Se ne è andato
non appena mi ha vista » disse, inclinando
appena la testa di lato.
Michael
capì subito di chi si trattava. « ...Alek » mormorò, posando di
nuovo le labbra alla tazza.
« ...è lui? » chiese, curiosa.
« Sì » rispose il ragazzo,
terminando a sua volta la bevanda.
« Mh...
» mugugnò Elise,
inarcando appena un sopracciglio: « hai dei buoni gusti. Come la tua mamma » se ne uscì, tutto
sommato abbastanza tranquillamente.
Michael
ridacchiò appena: « Lo so » ammise, allegro.
Anzi
no, felice. Di quella felicità che poche altre volte aveva avuto il coraggio di
ammettere di provare.
« Ma deve smettere di
fumare, aveva l’aria di un fattone. Oh, e... » una piccola pausa, un sorrisetto
sottilmente allusivo sulle labbra carnose della donna: « ...lo voglio
conoscere ».
Michael,
se possibile, sorrise ancora di più. Rise, anzi, riempiendo la stanza di quella
complicità che aveva ritrovato con la madre e di quella gioia incondizionata
nel poter condividere con lei l’esperienza forse più importante della propria
vita sino a quel momento.
Poco
importava che lo avessero picchiato, che il motivo fosse la sua sessualità e
che sua madre lo avesse ampiamente immaginato fin dal primo momento in cui lo
aveva visto, malmenato e pieno di bende, seduto su quelle seggiole di plastica
nel corridoio del pronto soccorso.
Erano
cose che avrebbe potuto evitare con un po’ d’attenzione in più.
Da
quel momento in poi, anche se avrebbe comunque dovuto fingere di fronte al
resto del mondo, almeno non lo avrebbe fatto con le persone per lui più
importanti. Era libero dalla menzogna, libero dalla tensione che gli impediva
di vivere liberamente, e quel risultato era arrivato inatteso quasi come un
fulmine a ciel sereno.
Aveva
patito, ma da quel dolore era letteralmente rinato.
Alla
fine era vero. Ciò che non uccide, fort-
Un
attimo... cos’aveva detto?
« Fumava?! ».
First:
He ~ End.
___________________________________________________________________________________________
1.
Strofa di “Surrender” dei Vanishing
Point.
2.
Il running back è uno dei ruoli più importanti del
football insieme al quarterback. È il
corridore che parte da dietro alla linea di attacco e penetra la linea di
difesa avversaria, solitamente andando direttamente a meta o comunque
guadagnando molto terreno. Ce ne sono di due tipi: il fullback è il più potente, quello
che porta palla nei giochi più duri e passa sfondando al centro, mentre l’halfback deve
essere agile e veloce per le corse laterali. Jess
gioca quest’ultimo ruolo.
3.
Una piccola precisazione sul suo nome e su come va letto ;D “Michael” si può
leggere in molto modi, qui è inteso all’italiana “maicol”;
i diminutivi che gli danno sono “Mike”, dato da Jess,
che si legge normalmente “maic” e Miky,
dato dalla madre, che invece si legge “maichi”.