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Autore: Lilith Lancaster    18/02/2011    4 recensioni
Alexandra Moore è una giovane ragazza di diciassette anni. Ha perso il padre e la sorella e non rivolge più la parola a sua madre. Ma non è questa l’unica storia di Alexandra. Da quando morirono suo padre e sua sorella lei riesce a vedere spiriti, fantasmi. All’inizio erano solo quelli di sua sorella e suo padre…poi loro scomparvero e arrivarono altri…li vede camminare per strada, passare accanto alla gente comune, che ne ignora la presenza. a causa di questi fantasmi si ritrova tagliata fuori dal mondo. e le rimarrano solo una possibilità: imparare a convivere con i propri demoni
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quattro anni. Erano passati quattro anni da quando il mio piccolo, personale e insopportabile inferno ero cominciato. Attualmente avevo quasi diciassette anni ma mi sentivo già una donna vissuta.

Mi muovevo tra la gente come tutti gli altri…ma io ero diversa. Non sapevo cosa ci fosse di sbagliato in me, perché quella vita fosse toccata proprio a me.

Ma per capire davvero è necessario fare un passo indietro…un passo che dura quattro anni di terribili sofferenze. Quattro anni che per me sono stati più lunghi di una vita.

Ho tredici anni. Sono seduta in macchina, insieme a mio padre e mia sorella. La notte è silenziosa ma io non ho paura, finché c’è lui al mio fianco andrà tutto bene. Non so dove stiamo andando. Papà ha semplicemente preso me e Flavia e ci ha caricate in macchina. Guida veloce.

“papà dove andiamo?” chiedo un po’ inquieta. Mia sorella, nel sedile posteriore si volta a sorridermi. Vuole rassicurarmi, ma neanche lei è tranquilla.
“andiamo a prendere la mamma e poi facciamo un viaggio….tutti e quattro insieme” mi dice. È teso, lo vedo. Però non faccio domande. Ci sarà tempo dopo per le domande. Papà si guarda spesso indietro e lo stesso fa mia sorella che ha sedici anni. Sono agitati, nervosi, preoccupati.

“che succede? perché devo essere l’unica a non sapere niente?” domando spazientita. Mi considerano ancora una bambina…ma io posso capire. Mia sorella allunga la mano e me la stringe, mio padre mi passa una mano nei capelli
“non succede niente tesoro…..solo che siamo in ritardo per l’aereo”

Non me la danno a bere. C’è qualcosa sotto. Ritiro la mano da quella di mia sorella e mi metto a braccia conserte. È allora che la vedo. Anzi, le vedo. Sono due macchine. Non ci capisco molto di macchina, ma queste sono sicuramente di grossa cilindrata. Mi sembra che siano troppo vicine a noi, ma in fondo io non sono un’esperta.

Papà si volta di nuovo. Vede le macchine e stringe i denti. Flavia si aggrappa alla sua gamba. Forse il buio le fa paura. Prima che abbia tempo di chiedere qualcosa arriva una scossone, che mi manda a sbattere contro il sedile anteriore.

Papà protegge Flavia con un braccio e allunga l’altro a cercare me. Sono intontita. Non ho tempo per schiarirmi le idee Un altro scossone, e poi un altro e un altro ancora. Vengo sballottata da una parte al’altra della macchina, non capisco più niente.

E poi il colpo. Uno solo. Secco. Alla testa. Sento il dolore della testa che sbatte contro il finestrino, incrinandolo. E poi buio
“cucciola…tesoro” una voce.
“papà” provo a dire, ma non trovo la mia bocca. Non riesco ad aprire gli occhi La voce di papà è affannata. Non sento Flavia.

Che succede? Dove sono? Finalmente riesco ad aprire gli occhi e mi accorgo di molte cose contemporaneamente. Le mie mani, piene di qualcosa di caldo e vischioso, la mano di mio padre sul mio braccio…e poi tutto il resto.

Il mondo è capovolto…non è più nel verso giusto. Papà è a testa in giù. E anche Flavia. Mi rendo conto di quello che sta succedendo. Piango.

“papà. Flavia”

striscio in avanti, graffiandomi contro le lamiere dell’auto distrutta.
“va tutto bene tesoro” dice papà passandomi una mano nei capelli. No che non va tutto bene. C’è troppo sangue. Arrivo vicino a loro e tendo una mano ad ognuno. Flavia respira piano e io piango.

Non so cosa sta succedendo e non so cosa succederà. piango e le lacrime si mischiano al sangue che sta bagnando tutto intorno a me. Papà ha un rantolo .mi volto verso di lui e tremo. Lo abbraccio stretto e piango
“papà. Papà papà papà” grido. Ho paura. Ho troppa paura. “
ti voglio bene tesoro. Voglio bene a tutti voi.” Mi sussurra. Vedo il suo volto contrarsi e poi rilassarsi. Le mie mani si inzuppano di sangue mentre lo stringo forte.
“ho chiamato l’ambulanza. Resisti ancora per poco piccola mia. Tu sei forte.” Mi sussurra poi sospira. Ed io ho veramente paura. “
siete stati tutta la mia vita. E lo sarete sempre. Non dimenticatevi di me” Non vedo niente a causa delle lacrime che ormai sono incontrollabile, eppure lo capisco.

Capisco che papà non c’è più….non voglio crederci. Non è possibile. Lui è papà, lui è quello che ascolta la musica insieme a me, quello che mi sta accanto quando ho paura…quello che si alza nel cuore della notte per scacciare via gli incubi….
“papà” singhiozzo
“alex” mia sorella.

Mi avvicinai a lei, ancora piangendo
“papà sta bene?” chiede, con voce incerta. La abbraccio stretta, piangendo, senza risponderle. Anche lei piange
“alex….ti voglio bene…tutte le cose brutte che ti dico quando litighiamo…io non le penso sul serio…..ti ho sempre voluta bene” mi sussurra all’orecchio. No. Non voglio sentire altro. Non voglio. Piango e la tengo stretta.
“Flavia ti prego…Flavia non lasciarmi sola. Flavia ho paura. Io non posso stare senza di voi. Ti prego Flavia, non abbandonarmi” singhiozzo stringendola forte a me.

Vorrebbe parlare ma non trova la forza e io la abbraccio. La abbraccio cercando di trattenerla insieme a me. Cercando di fermare il sangue che scorre a fiotti, chiudendo le ferite con le mie mani, cercando di bendarla, facendo a brandelli il mio vestito.
“mi vuoi bene?” domanda con voce fievole.
“si certo…tu mamma e papà siete tutto quello che conta per me nella vita.” Sussurro
“allora sono felice” mi risponde. La vedo sorridere e diventare bianca pian piano, sento che il suo respiro si affievolisce e non posso fare niente per aiutarla. La tengo stretta finchè il suo cuore non si ferma…..

e anche il mio….


Da quel giorno il mio cuore ha smesso di battere. Giace con loro…nelle loro tombe che non ho mai veramente lasciato.

L’ambulanza mi estrasse dalla macchina distrutta dopo due ore.

Due ore in cui rimasi a piangere e desiderai di morire, stretta a ciò che rimaneva della mia famiglia.

Sospirai, ricacciando le lacrime che erano già riaffiorate. No…non avevo dimenticato….e non avrei mai potuto andare avanti, superarlo…. Da quel giorno tutta la mia vita era cambiata. Era diventata uno schifo.

Prima il viaggio in ambulanza, poi il funerale, i giorni che avevo passato a piangere davanti alle due tombe…..il mio ostinato silenzio…lo sconforto di mia madre….e poi il resto.

E adesso mia madre non voleva più saperne di me, mi considerava un mostro. Vivevo da sola, in una piccola casina nella periferia di Firenze. Anche adesso era notte…ma non avevo paura…ormai non avevo nulla da perdere. Il silenzio avvolgeva ogni cosa. I vicoletti per cui camminavo erano disabitati.

Arrivai a casa, un portone squallido e scrostato in mezzo ad altri portoni altrettanto squallidi. Anche se vivevo da sola e non ero affatto normale cercavo di comportarmi come tutti gli altri, andavo a scuola e studiavo. Avevo voti perfetti, anche perché non avevo nient’altro da fare a parte che studiare. Non avevo amici. La rubrica del mio telefonino era vuota, conteneva solo i numeri delle forze dell’ordine e del pronto intervento.

Buttai il giubbotto su una vecchia poltrona rattoppata e andai in cucina a prepararmi un caffè. Mentre preparavo la caffettiera e la mettevo sul fuoco osservavo le gocce di pioggia che avevano iniziato a bagnare la piccola finestrella della cucina. Aspettai accanto al piano cottura che il caffè fosse pronto, tamburellando con le dita sul bordo della cucina, cercando in tutti i modi di non pensare e non vedere.

Quando sentì movimenti accanto a me mi voltai esasperata “basta. Lasciatemi stare” gridai alla stanza apparentemente vuota.

Già….ecco perché io non ero normale…..perchè ero diversa e odiavo la mia vita…..perchè da quel giorno, da quello stupido giorno che aveva distrutto la mia vita, io li vedevo.

 Li vedevo tutti.

Tutti loro che mi seguivano, che camminavano tra la gente…tutti loro di cui nessuno si accorgeva e che sembravano adorarmi.

All’inizio ne avevo parlato con mia madre. Lei ne era rimasta spaventata e mi aveva portato da parecchi psicologi e psichiatri, pensava fosse colpa del trauma che avevo subito. la verità era che loro c’erano. E per me erano reali quasi quanto la tazzina che adesso stringevo tra le mani.

Dopo tutti gli “specialisti” da cui ero stata portata, mia madre ne aveva trovato uno che diceva di potermi “aggiustare” che bastava una piccola operazione perché tutto tornasse come prima. Io mi ero opposta, avevo rifiutato, ma alla fine erano riusciti a farmela, dichiarandomi incapace di intendere e di volere, non avevo subito danni…

ma loro restavano.

Tutti loro restavano al mio fianco. Volevano provare di nuovo…altre operazioni…altri esperimenti. Avevo litigato con mia madre, una litigata orribile. Mi aveva gridato che non voleva un mostro come figlia…da allora non ci rivolgemmo più la parola. Due giorni dopo andai via. Solo uno zaino e pochi risparmi, il mio nome e la loro compagnia per ricominciare a vivere.

 All’iniziò avevo pensato che il mio fosse un dono. Rivedere Flavia e papà, vederli mentre mi sorridevano era qualcosa di stupendo per me. Poi loro erano spariti, piano piano…come se avessero scelto di non restare al mio fianco.

In quel periodo vivevo in un paesino vicino Foggia, con il falso nome di Alessia Martinez. Avevo vissuto col timore che mia madre mi facesse cercare per rinchiudermi in qualche clinica…ma niente…semplicemente mi aveva cancellato dalla sua esistenza….in fondo lo aveva detto, che ero uno scherzo di natura.

Era seguito un breve periodo in cui ero stata psicologicamente e realmente sola…poi erano tornati loro a farmi compagnia.

Ma non più mio padre e mia sorella…loro erano spariti per sempre. Gente estranea, che non conoscevo, ma di cui sentivo spesso parlare ai telegiornali. Mi sussurravano cose all’orecchio la notte, di giorno mi seguivano…..nel paese avevano iniziato a guardarmi male, ad additarmi e a credermi pazza.

C’era voluto poco perché facessi di nuovo le valigie e mi dileguassi…avevo viaggiato ancora, facendo l’autostop, e alla fine mi ero stabilita presso Pisa. Una città abbastanza tranquilla, dove speravo di ricominciare come Alice Marino.

Ancora una volta le mie speranze si erano dimostrate vane. Avevo trovato un lavoro, avevo guadagnato un po’ di soldi e non appena la gente aveva iniziato a parlare di me avevo cambiato aria. Così per altre due volte. adesso mi ero stabilita a Firenze da quasi un anno. Avevo deciso di riprendere il mio nome.

Alexandra Moore. Era bello poterlo pronunciare di nuovo.

Ormai mi ero abituata a tutte le loro presenze e quando camminavo in mezzo alla gente riuscivo quasi ad ignorarle. La forza dell’abitudine. Quando però ero a casa da sola…..beh era tutta un’altra storia.

Le notti le passavo praticamente insonni, torturata dai loro sussurri, dalle loro voci…dalle loro preghiere….cercavo di scacciarli dalla mia vita, ma loro non se ne andavano. Anzi….ne vedevo sempre di più mentre camminavo tra la gente ignara. E tutti sembrano amarmi. Mi venivano dietro ed ognuno cercava di raccontarmi la sua storia.

Ma io non volevo ascoltare…desideravo soltanto vivere in pace. Speravo di riuscire a Rimanere a Firenze per un anno almeno….la città mi piaceva anche se il quartiere dove abitavo faceva schifo. Avevo trovato un buon lavoro, facevo la cameriere in un bar-tavola calda. Non mi pagavano una fortuna, ma era sufficiente per tirare avanti per un po’. E poi volevo finire almeno l’anno scolastico. Per cui tutti i giorni, a scuola e in giro per la città, mi sforzava di ignorare i “fantasmi” che si affollavano attorno a me.

Ma a casa scoppiavo. Tutta la rabbia, la tristezza e la frustrazione uscivano fuori. Perché continuavano a perseguitarmi? Perché non mi lasciavano in pace?

Mi presi la testa fra le mani. Desiderando solo che tutto quel casino finisse. Desideravo essere come le ragazze che vedevo a scuola. Allegre, sorridenti, piene di amici…io ero l’unica isolata…probabilmente ero considerata la più sfigata della scuola, non parlavo con nessuno e camminavo tenendo il cappuccio della felpa tirato sugli occhi e i capelli legati in una coda alta.

Il rumore del caffè che saliva arrivò tempestivamente a strapparmi dalla mia meditazione. Presi la caffettiera e mi versai tutto in una tazza di quelle che si usano solitamente per bere il latte. Andai a sedermi sul vecchio divanetto, stringendo tra le mani la tazza fumante. Accesi distrattamente la tv, sorseggiando con piacere il mio caffè nero bollente. Come al solito beccai il telegiornale.
“Ernesto De Santis…operaio, morto…”
Cambiai in fretta canale. Non mi andava di sentire il resto e speravo che non arrivasse anche questo Ernesto De Santis ad aggiungersi alla moltitudine di presenze che mi perseguitavano.

Rimasi tutta la sera a guardare uno stupidissimo quiz, e alla fine mi alzai e andai nella mia piccola e malandata cucina. presi la scatola dove tenevo tutti i medicinali e tirai fuori un flacone di sonniferi. Si, stavolta in un modo o nell’altro, sarei riuscita a dormire. Non ne potevo più di passare le notti a guardare il soffitto e a rabbrividire al freddo.

Buttai giù due pillole, poi tornai nello striminzito salotto, recuperando dalla poltrona all’ingresso un plaid sgualcito. Spensi la tv, non era il caso di lasciarla accesa…la bolletta della luce era già abbastanza cara da pagare. Mi accoccolai sul divano, avvolgendomi stretta nel plaid.

Era novembre e in casa non avevo termosifoni, solo una misera stufa che trascinavo nelle varie stanza della casa a seconda delle mie esigenze. Posai la testa sul bracciolo, rabbrividendo un po’. che vita del cavolo. fu il mio ultimo pensiero prima di scivolare nel buio dell’incoscienza

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