Il
gioco degli scacchi …
È
dura la vita del soldato di trincea.
Io,
Alessandro Furiosi, lo so bene: sono qui da circa due anni, ovvero da quando
l’Italia è entrata nella Grande Guerra.
Oggi
è il mio compleanno e mi trovo qui, a Caporetto, a festeggiare i miei 20 anni
nel modo più orribile che potessi aspettarmi: sappiamo che arriveranno gli
eserciti tedeschi ed austriaci, quindi siamo qui, con le armi cariche, pronti
all’arrivo (ritardato) dei nemici.
Qui
tutti mi chiamano “Ale”, così come faceva mio fratello.
Quanto
mi manca la mia famiglia, la mia casa, quanto vorrei un piatto di pasta al
pomodoro e una fetta di crostata, un abbraccio da mia madre e una pacca sulla
spalla da mio padre.
Ma
ogni volta che mi fermo a pensarci, la realtà mi riporta bruscamente indietro:
mio fratello è in marina, a migliaia di chilometri da me, mio padre è in
fanteria sul fronte franco-tedesco, mia
madre è morta.
Mio
fratello è nato un anno prima che la mamma se ne andasse, quindi solo io mi
ricordo di lei, oltre a mio padre, un grande socialista, che mi ha influenzato
con i suoi ideali di guerra contro i grandi imperi.
Lui
dice ch i giovani, le nuove generazioni, non dovranno venire a sapere dei
dolori della guerra, così come mio fratello non conosce quasi nulla di mia
madre. Dice che è meglio così, loro non devono soffrire.
Io
non sono d’accordo: chi non conosce, non teme. Chi non teme, non evita. Chi non
evita, incontra.
Vogliamo
incontrare la guerra ancora?
Vogliamo
che questa non sia solo “La Guerra Mondiale”, ma “Una Guerra Mondiale”, una su tante??
Io
no, anche mio fratello la pensa così.
Lui
è un ragazzo sempre allegro, gioioso … non riesco proprio ad immaginarlo come
un militare che si alza all’alba sapendo di dover metter fine a tante vite.
Ma
dicono che la guerra cambia tutto: cambia gli stati, la politica, le città, gli
stili di vita, le persone …
Forse
è vero. Io, per esempio, prima non mi facevo così tanti problemi e domande,
vivevo la vita così come lei voleva essere vissuta.
***
Arriva
una chiamata. Marco, il mio vicino, risponde al telefono.
È
un ragazzo di neanche diciassette anni, è nato in una cittadina vicino a Milano
ed è, insieme a me, l’addetto alle comunicazioni.
È
molto simpatico, adora cantare canzoni nel suo dialetto ed io spesso non capisco
nulla, venendo da Bergamo, ed è anche parecchio alto, con i capelli biondo
chiaro.
Ha
la mania di sbuffare alla fine di ogni frase che dice, cosa che mi fa sempre
ridere un po’.
Mentre
parla al telefono, noto che deglutisce a fatica e la mano gli trema
leggermente.
Quando
si volta verso di me noto un lieve tremore nella sua voce quando dice
<<
Arrivano. >>
Non
ho tempo di pensare. Noi soldati non siamo portati a farlo spesso: eseguiamo
ordini, altrimenti veniamo sgridati, incarcerati, fucilati. Dipende dalla
gravità.
Mi
alzo di scatto e inizio a correre per andare ad avvertire i nostri compagni
dell’arrivo dei nemici.
Non
mi fermo neanche a guardarli, riferisco il messaggio e corro via, verso altre
persone da avvertire.
So
già che alcuni, proprio come me, hanno paura.
Perché?
Perché
siamo distrutti, la metà di noi sa già che perderemo prima che arrivi il
nemico.
Semplicemente
perché siamo mal organizzati, abbiamo 95.600 soldati, 1.150 cannoni e 26
bombarde in meno.
Torno
indietro e carico la mia arma.
<<
Siamo già morti. >> commenta Marco
<<
Già. Hai scritto alla famiglia? >>
<<
Sì. >>
<<
Anch’io. >>
Intorno
a noi c’è solo il silenzio. Sentiamo i rumori dei cannoni e dei soldati
dall’altra parte che si preparano allo scontro.
<<
Pronto ad uccidere qualche tedesco? >> chiedo, per alleggerire una
tensione ormai palpabile nell’aria.
<<
Sono nato pronto! >> ribatte Marco.
Un
botto squarcia il silenzio.
Un
razzo segnalatore squarcia il buio della notte e per un decimo di secondo
sembra che tutto il mondo stia per festeggiare la fine della guerra.
Per
un decimo di secondo immagino che la guerra finalmente non c’è più: tornerò a
casa, rivedrò i miei parenti, i miei amici e la mia ragazza.
Poi
un cannone spara, i fucili e le mitragliatrici iniziano a mietere le prime vittime.
Il
mio sogno di pace svanisce e inizio a premere il grilletto.
Riesco
a colpire dei nemici.
Cosa
importa? Sono nemici. Ogni pallottola che va a segno è un nemico in meno.
Ogni
pallottola che va a segno … è una vita in meno.
Il
tempo passa. Il nostro esercito è stato decimato da delle bombe a gas che
nessuno di noi aveva mai visto prima, dalle cannonate e dai proiettili.
Marco
impreca, le linee telefoniche non erano interrate e sono in parte distrutte.
Siamo
completamente isolati.
Soli
qui a combattere contro un nemico troppo forte e troppo numeroso per noi.
Sono
le otto circa quando alcune truppe tedesche escono dalla loro trincea e,
proteggendosi con i corpi dei loro compagni, raggiungono le nostre linee.
Riesco
ad abbatterne uno prima che sparisca dalla mia visuale, ma sono entrati già in
trenta, se non di più.
Guardo
Marco.
Capiamo
che moriremo, qualsiasi cosa faremo.
Ma
è meglio morire da eroi che da codardi.
Prendiamo
le armi e le carichiamo al massimo.
Sentiamo
già le urla dei nostri compagni colpiti dai nemici.
Corriamo
verso i tedeschi, urlando e sparando a tutti coloro che tentano di ucciderci.
<<
Per l’Italia, fratelli per sempre! >> è il nostro grido di battaglia.
Riesco
a colpire dieci uomini, Marco ne uccide otto.
Uno
sparo.
Una
goccia di sangue mi corre sulla fronte, andando a finire sulla ciglia.
Cado.
La
mia battaglia è finita, sono morto con una pallottola alla testa.
Nessuno
si ricorderà di Alessandro, che si è buttato sul nemico invece di fuggire.
Nessuno
si ricorderà di Marco, che ha ucciso un ufficiale tedesco.
È
come giocare a scacchi.
Non
importa quanti pedoni sacrificherai, l’importante è tenere in vita il re.