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Autore: Gaea    23/02/2011    6 recensioni
Ulisse, la sua storia, la sua gloria, il suo tormento. Ispirato dal canto XXVI dell'Inferno della Divina Commedia.
Non serve il mio nome, credo. Dopotutto anche qui fra quest’anime io non son Nessuno.
Prima classificata al Dante's contest indetto da Eliezer su EFP
Genere: Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: La vera pena
Nickname: Gaea
Canto scelto: Inferno, canto XXVI
Frase scelta: “io e' compagni eravam vecchi e tardi/ quando venimmo a quella foce stretta/ dov’Ercole segnò li suoi riguardi

 

Rating: Verde

Genere: Introspettivo, Monologo.

 

 

 

La vera pena

 

C’è una cosa che nessuno ha mai compreso.

Nemmeno lui che nel suo peregrinare venne fin da me e, raccolta la mia storia, mille volte ne parlò fra la sua gente, e ancora se ne parla.

Nemmeno lui che udì la mia voce, flebile ormai come il mormorio spezzato del vento che sfiora la fiamma di una candela.

Nemmeno lui che vide e scelse di parlare di me e il mio doppio compagno di sventure, Diomede, come due che insieme alla vendetta vanno come all’ira.

 

Non serve il mio nome, credo. Dopotutto anche qui fra quest’anime io non son Nessuno.

 

Lasciai l’isola di Circe che ancora l’ultimo Troiano non l’aveva battezzata Gaeta. Molte, molte lune vi avevo trascorso.

Le lusinghe della maga erano irresistibili, eppure tutte le sue arti non fecero che fomentare in me il desiderio di casa. Della mia casa. Fu per questo che ripartii. Un viaggio lungo ancora, ed insidioso, ma che mi permise infine di raggiungere ciò che bramavo: il mio talamo, la mia sposa, l’affetto del mio erede e la solida presenza di mio padre.

Non bastava questo a sopire il mio fuoco. Non questo poteva spegnere la fiamma che avvampava e mi bruciava, già allora.

Raccolsi pochi compagni fedeli che non volevano abbandonarmi e, saliti su una nave, facemmo vela verso l’ignoto. Le coste meridionali del mondo si dispiegavano sotto la chiglia della nostra nave, le onde vi si infrangevano, come gli anni sui nostri corpi. Più di una ruga potevo contare sul mio viso, bruciato da sole e sale e nessuno dei miei compagni poteva dir di meno.

E fu così che io e' compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov’Ercole segnò li suoi riguardi, perché l’uomo non andasse oltre.

Mi fermai lì molti giorni. Contemplavo, dal ponte della nave, le due colonne, simboli del limite che mi veniva imposto da una volontà sopra la mia. Ma se gli anni avevano piegato il mio corpo, lo stesso non si poteva dire del mio animo che, anzi, s’era accresciuto in sapienza del mondo e in volontà, tale che consideravo oramai la nave un mero prolungamento del mio spirito granitico: credevo di poterla spingere, con la sola forza della mia mente eccelsa, al di là di qualsiasi limite. Chi osava frapporsi fra me e l’inesplorato? Gli dèi? Ma gli dèi non esistevano, e se esistevano già una volta gli avevo beffati.

Ah, che stupido cieco ero, me ne rendo ben conto ora…

Un lato di me, recalcitrante, mi diceva di non avventurarmi oltre le Colonne: mi mostrava mio figlio grande e a sua volta padre, e le spiagge bianche di Itaca, candide come il ventre della mia sposa, in là con gli anni ma ancora bellissima, selvaggia e indomabile, inflessibile come le nevi che potevano coprire di quanto in quanto le più alte delle mie montagne: il limite del mondo era un limite che perfino il mio ego poteva sopportare, mi diceva.

Proprio questa che sembrava la ragione più solida per rinunciare, fu poi quella che mi fece capitolare dinnanzi all’ignoto: come potevo io non sapere?

Richiamai i miei compagni con parole benevole, ricordando loro l’orgoglio che dovevano mostrare, facendo divampare in loro il desiderio di non venir meno a loro stessi: poco tempo ci restava da vivere, non era forse meglio rischiare di svanire in un lampo accecante piuttosto che bruciare di nascosto, senza fiamma, fino a trovarci inceneriti e muti? Il nostro essere non era forse più simile al divino che alle bestie, noi che potevamo vantarci d’aver visto con i nostri occhi più di quanto qualsiasi uomo potesse mai aver fatto?

La decisione era presa, la nave salpata, la prua volta all’occaso , noi remavamo con foga.

La notte ci mostrava stelle sconosciute, mentre le nostre antiche guide non emergevano sulla linea del mare tanto erano basse  e vicine. E noi continuavamo a remare.

Cinque volte Diana seguì il suo sentiero di caccia celeste, e niente di nuovo se non la brulla desolazione azzurra dell’acqua si prospettava ai nostri occhi. E noi continuavamo a remare.

Infine, contro ogni speranza, apparve terra, là in fondo: una montagna. E noi, pieni di gioia per la scoperta, continuavamo a remare.

Era ancora lontana, immensa pareva la distanza, e anche così la sua altezza rasentava quella dei sogni più arditi: tanto alta che mai nessun occhio ne aveva veduta una simile prima.

C’era gioia nelle nostre voci, la sfrenata felicità del naufrago che vede davanti a sé la salvezza.

Troppo presto, però, avevamo gioito.

I canti presto mutarono in urla strazianti, la gioia si convertì in dolore: dalla terra un’enorme tromba d’acqua prese via verso di noi. Non c’era modo di scappare.

I venti percossero la prua, facendoci girare su noi stessi per tre volte, strappando uomini dalla barca e gettandoli in un mare divenuto improvvisamente nero.

Resistevo al timone, guardando i miei compagni svanire, quando al quarto giro la nave si sollevò del tutto, spezzandosi: ci inabissammo e le acque si chiusero sopra di noi.

 

Non so cosa ne fu dei miei compagni. Io mi precipitai qui, fra le braci e le fiamme, in questo fuoco che m’avvolge in cui mi vedete. C’è una cosa che però nessuno ha mai compreso riguardo questa tortura. Non è questa, infatti,  la mia vera pena.

Non sono le mie membra che incessantemente ardono a rendere quest’eternità il mio inferno, né tantomeno dividere la mia essenza con siffatto compare.

No, la ragione del mio continuo dolore è un’altra: è il divampare della curiosità nella mia mente, che ancora è acuta come nel giorno in cui sgominai Ilio.

Non il corpo, ma l’ingegno mi opprime.

E ancora mi chiedo, in ogni istante del mio tormento: cos’era quella montagna? E cosa vi sarà stato dietro di essa?

 

____________________________________

incollo il giudizio di Eliezer

 

Lessico e ortografia_10
Originalità dello sviluppo_14
Caratterizzazione dei personaggi_10
Stile_5
Giudizio personale_5
Totale_44/45

Mi piace un sacco il lessico che hai usato. Anche una frase in particolare, una delle ultime. Mi piace come hai ‘rigirato la frittata’, come hai saputo interpretare quelli che potrebbero essere i pensieri e i tormenti ‘attuali’ dell’anima di Ulisse. Mi è piaciuto un sacco il ragionamento che l’ha portato a continuare a navigare, non verso Itaca, ma verso le Colonne d’Ercole. Non è banale, nonostante tu sia riuscita a non osare troppo. I cinque punti di giudizio personale sono stati assegnati senza pensarci troppo, giuro! :)
Complimenti. ;)

 

Beh...grazie mille a te!

   
 
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