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Autore: Sophie Hatter    05/03/2011    4 recensioni
1° settembre 1971.
Remus Lupin non è molto fiero di sé.
Sirius Black gli farà vedere le cose da una diversa prospettiva.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Remus Lupin, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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 Il ragazzino osservò con palese interesse il suo coetaneo gettare la sua roba sul letto non appena preso possesso della stanza e rintanarcisi sopra con aria schiva e mortificata, le labbra ermeticamente chiuse e gli occhi fissi nel vuoto, segni inequivocabili del fatto che non desiderava essere disturbato.

Ma lui non si era mai dimostrato capace di imparare a moderare la curiosità e in quel momento, finalmente lontano da casa sua e privato del severo controllo di un adulto, sentiva di potersi comportare come meglio credeva. Non che per lui l’etichetta e l’educazione avessero mai avuto una grande importanza, ma l’impulso ad ottenere informazioni su quel nuovo ambiente in cui avrebbe dovuto passare i restanti sette anni della sua vita contribuiva ancora di più ad alimentare il desiderio di ficcare il naso negli affari altrui.

Il ragazzino barricato sul letto era buffo e strano e non sembrava nutrire alcun proposito di interagire con lui o con altri. In quel momento nel dormitorio erano presenti soltanto loro due, ma il suo compagno di stanza non si era degnato di riserbargli nemmeno un’occhiata, preso com’era dalle sue faccende interiori.

Sirius Black non conosceva certo i normali meccanismi di socializzazione, ma lo infastidiva essere ignorato così apertamente e non si poneva certo scrupoli nell’aprire bocca anche nel momento più inopportuno.

"Che cos’hai?"

Il signorino dall’aria malaticcia e trasandata gli gettò a malapena una cupa occhiata di sbieco, lasciandosi sfuggire un lieve sospiro di esasperazione.

"Che ti importa, neanche mi conosci", rispose, a mezza voce, con un’intonazione chiusa e lievemente seccata. Sirius lo squadrò corrugando la fronte, intuendo all’istante di avere a che fare con un osso duro. Ma per puro puntiglio non aveva certo intenzione di lasciar perdere al primo tentativo.

"Comunque sia, sarò costretto a farlo", replicò, gettandosi intorno un’occhiata eloquente. La stanza era piuttosto piccola e di conseguenza il destino di una convivenza forzata sembrava essere piuttosto inevitabile, a meno che quel piccolo presuntuoso non avesse intenzione di isolarsi in una campana di vetro dove neanche i suoi strilli più acuti sarebbero riusciti a scalfirgli l’udito.

In tutta risposta ricevette un’occhiata perplessa, come se il ragazzino non avesse affatto idea di che cosa lui stesse parlando.

"Siamo stati smistati nella stessa Casa, ricordi?" gli fece presente, con un’intonazione lievemente scettica di fronte alla sua incapacità di compiere quel banale collegamento logico. L’asociale gli rispose con un’occhiata furiosa che sembrava nutrire l’aspirazione ad incenerirlo seduta stante.

"Ecco, è esattamente questo l’argomento di cui non voglio parlare". Santo Godric, quant’era suscettibile. Si comportava come se lo stessero scorticando vivo. In più, soffermandosi un attimo a riflettere, si rese conto che non capiva assolutamente come potesse non provare nemmeno un briciolo di gioia per essere finito a Grifondoro: i ragazzi più grandi avevano sollevato ovazioni clamorose ad ogni nuovo adepto che veniva smistato nella loro Casa, tale da riuscire a far arrossire d'orgoglio anche il più riservato tre le matricole.

"Perché? Non sei soddisfatto?" chiese, scrollando spalle. Anche a lui, a cui dapprincipio non importava assolutamente niente della Casa in cui sarebbe finito, aveva finito per risultare gradita una soluzione di quel tipo. Il suo nome, prima che lui giungesse a costituire l’eccezione alla regola, era sempre stato una garanzia per la Casa di Serpeverde e inizialmente era convinto che un dormitorio valesse l’altro, l’importante era mettere finalmente piede fuori da casa sua. Ma poi, mentre attendeva il suo turno tormentandosi distrattamente l'orlo del mantello, aveva cominciato a considerare la situazione con una maggiore serietà, ed era giunto alla conclusione che se fosse finito a Serpeverde tutti lo avrebbero considerato un vero Black, uno che possiede tutti i requisiti necessari per vedersi affibbiare i classici epiteti riservati a dei fanatici Purosangue. Sarebbe stato acclamato dagli applausi di gente che approvava la condotta dei suoi consanguinei e che si comportava alla stessa stregua delle persone che detestava di più al mondo, avrebbe dovuto dormire con loro e farseli amici per non diventare un reietto come lo era già nell'ambito della sua famiglia; una situazione di quel tipo avrebbe finito per risultargli intollerabile. Non desiderava condividere lo stesso destino di un parentado che disprezzava con tutto se stesso.

"Al contrario, non dovrei esserlo nemmeno la metà di quanto lo sono in questo momento. E comunque, non sono affari tuoi", gli rispose il ragazzino. Simpatico, davvero. La convivenza si prospettava interessante.

"Ad ogni modo sei stato tu ad introdurre l’argomento", gli fece notare Sirius, per il puro gusto di ribattere e di farlo infuriare di nuovo.

"Questo perché ci sei tu che fai domande", rispose lui, in tono stizzito. Sirius rimase in silenzio, mentre percepiva il suo ghigno caratteristico affiorargli sul volto. Nonostante venisse abitualmente apostrofato con offese di ogni genere, sapeva benissimo di non essere affatto stupido e forse gli sembrava di aver intuito per quale ragione il ragazzino della sua Casa si sentisse in colpa per essere contento di dove il Cappello Parlante lo aveva spedito. Lo sapeva perché, forse, il suo nuovo compagno aveva compiuto un gesto molto simile al suo.

"Hai chiesto tu a quello stupido cappello di essere mandato qui, eh?" chiese, con aria beffarda. L’attimo dopo, osservò compiaciuto il ragazzino arrossire lievemente in viso, proprio come se avesse centrato in pieno il punto della questione.

"Può darsi. Perché?" replicò, tenendo lo sguardo fisso verso il basso. Sirius scrollò le spalle, appoggiandosi alla finestra.

"Non c’è niente di strano. L’ho fatto anch’io", gli disse, con aria naturale. Il suo compagno gli gettò una rapida occhiata diffidente.

"Solo perché l’hai fatto anche tu non significa che sia una cosa normale", replicò, suscitando la sua risata incontrollabile. Rise sguaiatamente fino a bloccare lo sguardo in quello del ragazzino scontroso, fissandolo con tutta la sfrontatezza di cui era capace.

"Hai davvero una scarsa stima di te stesso per sentirti così in colpa", gli disse, facendolo di nuovo arrossire. Evidentemente il moccioso era uno di quei bambinetti cresciuti con il complesso dell’inadeguatezza e di un’umiliante modestia che li costringeva sempre a considerarsi meno di niente, sfuggendo la compassione altrui e rinchiudendosi nella loro depressione. Proprio il tipo di persona che era meno incline a sopportare.

"Non è questo il punto, semplicemente non penso che sia stato giusto scegliere in base ai miei desideri, in casi come questo", rispose piccato il ragazzino, reagendo con stizza al suo tentativo di mettere in crisi il suo sistema di pensiero. Sirius scosse la testa, in segno di evidente intolleranza per la sua immotivata testardaggine.

"È la tua vita. Perché non avresti dovuto scegliere tu?" replicò.

"Perché era evidente che avrei dovuto essere smistato qui per i miei meriti, non per la mia insistenza", gli rispose il ragazzino, in tono inasprito. Le loro visioni della vita erano evidentemente agli antipodi, ma Sirius non era abituato a demordere, specialmente nei casi in cui era convinto di aver ragione.

"Pensi di non avere abbastanza coraggio per startene a Grifondoro?" chiese, squadrando il marmocchio con aria di sufficienza.

"Forse", disse quello, ostentando quasi un'aria di sfida nel tentativo di riaffermare la sua dignità, mentre si scostava i capelli sottili dalla fronte. Un ghigno sardonico si dipinse istantaneamente sul viso di Sirius, sentendosi rivolgere precisamente la risposta che si aspettava. Lasciò che un breve silenzio calasse nella stanza per qualche secondo, di modo che la sua replica successiva acquistasse ancora più enfasi.

"Invece io credo che ci voglia proprio un bel coraggio per dire la propria quando qualcun altro sta decidendo del tuo futuro, sai".

Il ragazzino lo fissò negli occhi cercando di mascherare lo stupore sotto la ruga che gli increspava la fronte e la lieve piega perplessa delle labbra incurvate, mentre lui si limitava a sfoggiare il suo abituale sorriso impudente che gli permetteva di non sentirsi mai a disagio nel mettere in imbarazzo le persone. Gongolò silenziosamente, soddisfatto: avere l’ultima parola all’interno di una discussione era ciò che lo rendeva più fiero di se stesso, anche se di solito il raggiungimento di quell’obiettivo comportava anche di ricevere un sonoro schiaffo da parte di sua madre o di suo padre.

Il piccolo complessato fissava il pavimento con uno sguardo obliquo ed ostinato, rinchiuso nel suo silenzio. Non lo avrebbe mai guardato con riconoscimento per ringraziarlo di tutto cuore, questo l’aveva già intuito da tempo. Quello era uno orgoglioso ed ostinato almeno quanto lui. Ma ad essere sincero non gli dispiaceva affatto: detestava di tutto cuore le frasi fatte e il repertorio di cortesie forzate che così spesso la gente si sentiva in dovere di rivolgersi e in quel momento gli bastava sentirsi soddisfatto per aver almeno compreso il senso del suo trovarsi nella Torre di Grifondoro, invece che in quella di una qualsiasi altra casa di Hogwarts.

 

 

 

 

 

NOTE DI FINE CAPITOLO:

Il titolo di questa one shot è una citazione di Friedrich Schiller, poeta e drammaturgo tedesco.

   
 
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