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Autore: cassiana    05/03/2011    3 recensioni
"Quella del Professore era una vita ordinaria e tranquilla, perfetta per due individui come Napoleone e Wellington. [...] L’unica interruzione a quella tranquilla routine avveniva una volta a settimana [...] Lungi dall’apprezzare quelle rumorose visite, esse erano tuttavia vissute come un male necessario. E quella sembrava essere la peggiore delle seccature che potesse loro capitare. Fino all’arrivo di Garibaldi."
Genere: Commedia, Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Wellington e Napoleone'
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Il nemico del mio nemico è mio amico Note: Scritta per la  THE COW-T: The Clash of the Writing Titans - TERZA SETTIMANA @ maridichallenge
prompt: nemici

Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.



Il nemico del mio nemico è mio amico 

    
         
        Non avrebbero potuto definirsi amici, sebbene condividessero la stessa casa ormai da anni ed erano giunti a conoscersi così in profondità da essere in possesso di una mappatura completa di ogni tic, di ogni piccola idiosincrasia e predilezione del coinquilino; tanto da essere divenuti capaci di prevedere ognuno il comportamento dell’altro. Ma non erano nemmeno nemici, questo no, sebbene fossero più le cose che li dividessero di quelle che li unissero. Tra Napoleone e Wellington vigeva una sorta di rassegnata tolleranza. Tanto il grigio Wellington era flemmatico quanto il bruno Napoleone era energico, tanto era pigro il primo, quanto entusiasta il secondo. Ma era proprio questa la forza della loro convivenza, in questa sorta di complementarietà che li rendeva coinquilini perfetti. Ognuno aveva i propri spazi e tempi delimitati in maniera precisa, ognuno di loro sapeva come e quando muoversi. E sebbene ormai non ci fossero più gli attriti che li avevano contrapposti agli inizi della loro convivenza, non tutto scorreva sempre nell’alveo della pacifica sopportazione. Entrambi erano soliti muovere all’altro le stesse, abituali critiche in una sorta di gioco in cui amavano indugiare nelle lunghe ore di solitudine.
    Wellington, per esempio, deprecava in Napoleone quella che per lui era una totale mancanza di dignità: il suo scodinzolare esagerato, il suo latrare profondo che feriva le sue piccole orecchie feline, il suo piatire affetto e il suo elemosinare cibo…che volgarità! Da parte sua Napoleone rimproverava al gatto quella che a suo dire era una deprimente mancanza di empatia e lo accusava spesso di essere nient’altro che un piccolo ruffiano. Wellington a quell’accusa era solito voltarsi e stirarsi proprio di fronte al muso di Napoleone.
    C’era una sola cosa che li accomunava: l’assoluta dedizione verso il Professore. No, non potevano definirsi amici, per quanto il loro umano si compiacesse di pensarlo, non sarebbero mai giunti a comprendersi, ma provavano l’un per l’altro una sorta di affetto reciproco, anche se entrambi sarebbero stati pronti a negarlo fino alle estreme conseguenze.    
    Quella del Professore era una vita ordinaria e tranquilla, perfetta per due individui come Napoleone e Wellington. La mattina presto, quando la luce del sole cominciava appena ad orlare i tetti cittadini Wellington zampettava fino al petto del Professore e dava piccoli colpetti col muso al suo naso per svegliarlo, poi, mentre l’uomo ciabattava in cucina ancora insonnolito, Wellington era già pronto a sovrintendere le operazioni per la colazione. In quel momento giungeva Napoleone uggiolando e scodinzolando, pronto per la passeggiata mattutina. Come ogni mattina Wellington strizzava gli occhi, infastidito e cominciava a lavarsi con metodo.
    Napoleone attendeva con impazienza quella passeggiata, non solo per ovvi motivi fisiologici, ma perché quelli erano gli unici momenti di vera solitudine che poteva condividere col Professore. Non importava se faceva freddo o se pioveva, la sua allegria sembrava immutabile: adorava passeggiare per quei pochi metri che li dividevano dal piccolo parco cittadino e trovava irresistibile la vecchia pallina da tennis che l’uomo gli lanciava affinché lui gliela riportasse: Napoleone pensava che non si sarebbe mai stancato di quel gioco. Poi veniva lasciato libero per un po’ di correre e l’erba umida sotto le zampe era un piacevole diversivo rispetto al freddo pavimento dell’appartamento dove viveva, amava sentire il pelo arruffato dal vento pieno di tutti quegli odori così invitanti da analizzare. Il fischio che lo richiamava giungeva sempre troppo presto, ma ubbidiente Napoleone tornava verso il guinzaglio teso.  
    Wellington trascorreva quei momenti di beata solitudine perlustrando il suo territorio, marcando i luoghi fondamentali ora con una grattatina, ora strusciando il capino, fino a che annusando l’aria non rilevava soddisfatto la sola presenza dei suoi feromoni. Infine si appostava alla finestra nell’attesa che i suoi compagni tornassero a casa. Ma quando Napoleone e il Professore aprivano la porta lo trovavano sempre, invariabilmente acciambellato da qualche parte a sonnecchiare. L’unica interruzione a quella tranquilla routine avveniva una volta a settimana quando la Signora delle Scope veniva a rassettare la loro abitazione. Lungi dall’apprezzare quelle rumorose visite, esse erano tuttavia vissute come un male necessario. E quella sembrava essere la peggiore delle seccature che potesse loro capitare. Fino all’arrivo di Garibaldi.
    Una sera il Professore si era presentato più allegro del solito e aveva mostrato ai due compari quello che aveva definito il loro nuovo amico. Quando Garibaldi aveva lasciato la spalla dell’uomo ed era svolazzato gracchiando in giro per lo studio, la prima reazione di Napoleone era stata snudare le zanne con un ringhio profondo, mentre Wellington aveva gonfiato il pelo soffiando e spuntando all’indirizzo di quella nera minaccia.
    Petulante, chiassoso, chiacchierone, Garibaldi aveva, inoltre, l’irritante abitudine di dover dire la sua su tutto, tuttavia sembrava inconsapevole della fastidiosità dei propri comportamenti. Ciò aveva in parte rassicurato Napoleone che nutriva la speranza che prima o poi anche Garibaldi si sarebbe adattato alla tranquilla routine della loro convivenza; anche se non poteva fare a meno di provare un’intensa gelosia quando il corvo si poggiava su una spalla del Professore rubando così tutta la sua attenzione. Da parte sua, invece, Wellington era certo che quell’uccello non la contasse giusta, per non parlare del fatto che la sua sola presenza aveva ridestato i suoi antichi istinti predatori. In una parola, Wellington lo detestava a morte, mentre Napoleone non poteva fare a meno di provare ancora una notevole diffidenza nei suoi confronti. Di certo nessuno dei due avrebbe mai potuto perdonare il Professore per averlo portato a vivere con loro. Da quell’infausta sera in cui Garibaldi era entrato in casa tra i vecchi compagni e il nuovo arrivato era sorta una logorante guerra di nervi. 
    La situazione sembrò precipitare un’assolata mattina di qualche mese dopo. Come d’abitudine Wellington aveva svegliato a colpi di muso il Professore e dopo aver fatto colazione l’uomo era uscito con il pointer per la sua solita corsa. Ma quella mattina in particolare l’eccitazione di Napoleone aveva rasentato un livello che Wellington aveva considerato semplicemente insopportabile. Tra il latrare di Napoleone e il gracchiare di Garibaldi, che intanto chiedeva a gran voce il suo grano, l’irritazione di Wellington era cresciuta fino a colmare la misura; così si era allontanato in cerca di un posticino tranquillo dove lavarsi in pace con le orecchie abbassate e la coda che frustava nervosamente l’aria.
    Più tardi il ticchettare rumoroso della pendola era l’unico rumore nell’appartamento. Acciambellato sulla poltrona di pelle Wellington aprì un occhio: Napoleone dormiva sul tappeto ai suoi piedi con la grossa testa poggiata tra le zampe anteriori. Di Garibaldi non c’era traccia. Il gatto s’inarcò stirando le zampe anteriori e delicatamente saltò giù dalla poltrona. Passeggiò per l’appartamento col musino all’aria in cerca dell’usta del corvo e si soffermò davanti alla porta chiusa della stanza del Professore con la bocca leggermente aperta: Garibaldi era lì dentro. Per qualche minuto Wellington restò seduto davanti alla porta fissandola intensamente con gli occhi splendenti simili a tormaline. Poi con un gniagnulio di frustrazione tornò nello studio. Per ciò che aveva in mente era costretto a chiedere l’aiuto di Napoleone. A forza di zampate sul muso e miagolii riuscì a destarlo dal suo torpore. Il cane sbadigliò rumorosamente osservando incuriosito il comportamento del compagno che intanto si era diretto verso la porta e lo stava guardando. Era davvero singolare che Wellington mostrasse una qualche considerazione per lui, così lo seguì lungo il corridoio. Wellington si era fermato di nuovo davanti alla porta e si voltò a guardare il compagno. Napoleone aveva capito: Wellington non aveva mai imparato ad abbassare le maniglie. A sua volta annusò l’aria e percepì l’odore di Garibaldi. Adesso le intenzioni di Wellington erano chiare, tuttavia Napoleone rimase per un momento incerto: il Professore aveva loro espressamente vietato di entrare nella sua camera quando non c’era. Ma Napoleone sentì ridestarsi un antico retaggio che lo rimescolò tutto, così abbassò la maniglia e la porta si aprì. L’interno della stanza era in penombra, Garibaldi dormiva ignaro sul posatoio con il capino infilato sotto un’ala. Napoleone emise un uggiolio eccitato ma fu zittito da un’occhiata d’avvertimento di Wellington. Ventre a terra il gatto si avvicinò silenziosamente al posatoio fino a che non valutò di essere giunto ad una distanza adatta per spiccare il balzo. Sculettò qualche istante e saltò. In quel momento Napoleone si lasciò scappare un latrato e Garibaldi si svegliò. D’istinto volò via in un frullio di penne nere gracchiando parole sconnesse. Ma Wellington non si diede per vinto e inseguì il corvo per la stanza battendo i denti in secchi schiocchi di frustrazione. L’eccitazione di Wellington aveva contagiato Napoleone che a sua volta saltava ed abbaiava contro il povero Garibaldi che continuava a volare sbatacchiando contro le pareti della stanza facendo cadere suppellettili e quadri nel suo sbandare disordinato.
    Se fossero riusciti a costringerlo contro un angolo avrebbero potuto sbarazzarsi definitivamente di quel seccatore, Wellington poteva quasi percepire il sapore dolce e caldo del sangue contro il palato. A Napoleone sembrava d’impazzire, il panico del corvo aveva risvegliato in lui un istinto sopito da lunghe generazioni, la saliva gocciolava dai lati delle sue labbra arricciate a mostrare le zanne. Tra il gracchiare del corvo, il latrare del cane, gli schiocchi e i sibili del gatto e il tonfo degli oggetti che cadevano a terra la confusione era indescrivibile. Al rumore si aggiunsero gli strepiti della Donna delle Scope che era sopraggiunta in quel momento e che per un breve attimo era rimasta annichilita da quello spettacolo. A forza di ramazzate e grida riuscì dopo parecchio tempo a calmare le bestie, poi imprecando tra i denti rinchiuse il corvo in bagno e il gatto e il cane fuori, sul balcone. I due compari rimasero in silenzio per parecchio tempo, mogi e sconfitti. Napoleone si sentiva mortificato, intere generazioni di adattamento ed anni di ubbidienza al Professore erano svaniti in pochi istanti: temeva che l’uomo non si sarebbe mai più fidato di lui e si accucciò sconsolato in un angolo. Wellington si stava leccando vigorosamente uno zampino posteriore come faceva sempre quando era in imbarazzo, infine si accoccolò al sole crogiolandosi nel suo calore. Non si sarebbe mai dato per vinto, un giorno sarebbe riuscito a catturare Garibaldi: quella battaglia era persa, ma la guerra era lungi dall'essere terminata.


   
 
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