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Autore: Soffiotta    13/03/2011    2 recensioni
Questa è la storia di Alex e Monique.
Lei, orfana che vive con la nonna.
E lui, ragazzo che frequenta “l’alta società della scuola”.
Due ragazzi che vivono ai giorni nostri.
Fin qui tutto normale. O no?
Alex e Monique non si conoscono, se non di vista. Il loro primo incontro avverrà in un luogo caratteristico: l’ospedale.
Perché?
Beh, perché Monique tre volte la settimana accompagna la nonna a fare la dialisi.
Ma Alex, lui per un incidente finisce in coma.
E chi l’ha detto che gli incidenti portano solo danni?
Potrebbero portare… amore?
Ma prima di arrivare al tanto agognato amore Alex e Monique dovranno superare parecchie avversità.
Una fra tante i loro caratteri.
Benvenuti nel mondo di Alex e Monique.
DAL PROLOGO
Tutti. Tutti siamo destinati ad arrivare al capolinea.
La nostra vita è un treno che non si ferma per niente e nessuno.
Ma possiamo controllare le fermate, e decidere chi far salire sul nostro vagone. O chi far scendere.
Solo così, possiamo ingannare il tempo, tenendo vicino a noi le persone che amiamo. Quelle che veramente sono essenziali per noi.
La vita, sì la vita, in realtà è solo un viaggio.
E io, Monique, vi racconterò il mio, di viaggio.
 
Genere: Comico, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 5 – CORRIDOIO





 
 
Il treno corre veloce, come se avesse bisogno di arrivare in fretta alla stazione. Nonna è seduta davanti a me, con il viso ormai rassegnato di una persona che sta per fare la dialisi. Lancio un’occhiata all’orologio che ho al polso. Le due e mezza del pomeriggio. Fra cinque minuti arriveremo a destinazione.
“Com’è andata oggi a scuola?” Mi chiede la nonna.
“Tutto bene, mi hanno solo chiesto perché ieri ero assente, ma per il resto tutto nella norma.”
“Ok.” Quando la nonna conclude con un “Ok” significa che non ha voglia di parlare. Magari è stanca, magari no, ma preferisce rimanere in silenzio a contemplare il mondo intorno a lei.
Il treno fa una frenata brusca. Guardo fuori dal finestrino. Arrivati.
Mi alzo velocemente e aiuto la nonna a fare lo stesso. Scendiamo dal treno e ci dirigiamo verso l’ingresso dell’ospedale.
Oggi non piove, fortunatamente. In cielo si vede un sole opaco, che cerca inutilmente di fare capolino tra le nuvole. Entriamo nell’atrio dell’ospedale e percorriamo il corridoio fino ad arrivare alla stanza con la dicitura “dialisi”.
“Ok, vai. Ci vediamo dopo.” Le dico sedendomi nella solita saletta. Nonna entra nella stanza e sparisce dalla mia visuale. Apro lo zainetto e prendo i compiti di Matematica. Rimango circa un quarto d’ora a svolgere esercizi, ma poi richiudo il quaderno. Non ho voglia di Matematica. La farò dopo. Abbandono la testa allo schienale della sedia e sbuffo: prima che la nonna finisca devono passare ancora quattro ore.
Di solito ho dei passatempi con me. Libri, iPod o altre cose. Ma oggi ero di fretta, e il mio zainetto non contiene nulla, a parte i compiti.
Ora che ci penso è due anni e mezzo che entro qui dentro tre volte alla settimana, ma escluso il tragitto ingresso-saletta non ho mai fatto un giro per vedere com’è l’ospedale. Beh, c’è sempre una prima volta.
Mi alzo e afferro lo zainetto che metto a spalle.
Entro in un corridoio con le pareti dipinte di arancione. Ci sono diverse infermiere sorridenti che escono ed entrano da stanze diverse. Alzo gli occhi e leggo un cartello. Pediatria. Ecco perché le pareti sono così colorate e le infermiere hanno quei bei sorrisi accesi. È tutto per aiutare i bambini a guarire, o perlomeno a non rattristirsi ancora di più.
Percorro i corridoi e sbircio di tanto in tanto nelle camere aperte.
In una vedo due bambine. Si abbracciano e sorridono. Sembriamo io e Clara da piccole, con la differenza che le loro braccia sono ricoperte da tubicini.
Nelle altre stanze lo scenario più o meno è sempre quello. Bambini, genitori disperati e infermiere sorridenti. È strano, di solito sono gli adulti, così forti ed invincibili, a consolare i bambini.
In questo reparto lo scenario è tutto l’inverso. Qui sono i bambini, adagiati su lettini d’ospedale e con le braccia massacrate dagli aghi, che sorridendo consolano i genitori disperati.
Proseguo e finisco in una sala d’attesa, assomiglia a quella dove mi siedo ad aspettare la nonna, ma è più grande. C’è una macchinetta per le bibite. Inserisco i soldi e prendo una bottiglietta d’acqua.
Entro in un altro corridoio, più cupo del precedente e dove le infermiere girano correndo. Come se le vite dei pazienti potessero spegnersi da un momento all’altro. Mi bastano pochi passi per capire che è realmente così.
Reparto Rianimazione. La differenza che c’è tra questo reparto e quello di pediatria è enorme. Le camere sono diverse: piccoli ritagli d’ospedale racchiusi fra le mura. Ogni stanza ha un vetro che dà sul corridoio. Qui non ci sono bambine che sorridono ma solo persone distese sui letti, con gli occhi chiusi e un’espressione sofferente dipinta sul volto. Attaccate a macchinari che contano il loro battito come se volessero scandire il secondo.
Penso a quanto debba essere brutto sapere che una persona a te cara sia chiusa in una stanza d’ospedale, ma la cosa più atroce è il fatto di non sapere se si risveglierà mai.
Smetto di guardare all’interno delle camere e proseguo. Questo reparto mi mette troppa tristezza.
In fondo al corridoio trovo un’altra saletta. Mi siedo e raccolgo le gambe al petto. Lo faccio sempre quando sono triste. Rimango lì a pensare per parecchio tempo, quando ad un certo punto vengo distratta da una voce.
“Ciao.” Mi giro alla ricerca della fonte di quel suono.
No. Non ci posso credere. È la signora che avevo visto l’altro giorno nel corridoio piangere. È la signora che mi è continuata a venire in mente. È la signora con cui non avrei mai pensato di parlare!
“Ehm. Buongiorno.” Rispondo perplessa.
“Piacere, Ada.” Il timbro della sua voce è triste, grave. Assomiglia al mio, quando avevo appena perso i genitori. Mi porge la mano, gliela stringo e rispondo.
“Monique.”
“Monique eh? Bel nome.” Mette su un falso sorriso. Uno di quelli che ormai sono abile a fare.
“Grazie.”
Rimaniamo un po’ in silenzio. Lei è seduta vicino a me. I capelli rossi e lisci le incorniciano il viso con un caschetto tagliato alla perfezione. Porta una gonna che le arriva al ginocchio e una camicia bianca con sopra un maglione nero.
“Sei qui per qualcuno?” Mi dice fissandomi.
“Sì, ma non è in questo reparto. Sono qui per mia nonna cha fa la dialisi.” Annuisce. Vorrei porle la stessa domanda, ma mi sembra scortese. Per fortuna ci pensa lei a cancellare il mio dubbio.
“Io invece sono qui per mio figlio. Alex.” Fa una pausa. “È in coma.”
 Mentre lo dice le scende una lacrima. Vorrei tanto dirle qualcosa per tirarle su il morale. Dirle che tutto si sistemerà. Ma so benissimo che quando si parla di salute niente è mai certo.
Cerco di dire comunque qualcosa. Per non fare la figura di quella che se ne frega del dolore altrui.
“Mi dispiace.” Un’altra lacrima le riga la guancia.
“Tu frequenti la scuola di ragioneria, giusto?” Annuisco stranita.
“Sì ma…” Vorrei chiederle come fa a saperlo, ma non mi lascia finire.
“Anche mio figlio frequenta quella scuola. A volte lo vado a prendere all’uscita e molto tempo fa mi aveva detto che tu eri la ragazza che aveva appena perso i genitori. Mi dispiace.”
Logico. Perché mai dovrebbe conoscermi? Solo perche sono “quella” che ha perso i genitori. È orribile il modo in cui poi gli altri ti etichettano. Le etichette rimangono attaccate per tutta la vita, indelebili sulla nostra pelle, anzi, sulla nostra anima.
Io, ad esempio, un’etichetta ce l’ho. L’orfana.
“Conosci mio figlio? Si chiama Alex Righi. Frequenta la Quarta D.”
“No, mi dispiace. La scuola è grande e poi io sono in Quarta A.” Annuisce.
Singhiozzando continua il suo discorso.
“Tu credi che mio figlio si risveglierà mai?” Ecco. La domanda a cui nessuno vorrebbe mai dare una disposta. È una domanda di una madre disperata, che vorrebbe solo sapere se rivedrà ancora gli occhi di suo figlio. Mi alzo dalla sedia e la fisso.
“Lo spero per lei. Lo spero davvero.” E con quelle parole mi incammino verso la stanza dove la nonna sta facendo la dialisi. Lasciando lì, su una sedia, una madre disperata.
Rimarrei volentieri con lei, ma ho già visto troppo dolore. Non riuscirei a sopportarne altro.





 

Ehilà (: Scusate per l'assenza ma ho avuto qualche problemino con EFP ma poi soprattutto mi è nato un fratellino (Mirco), quindi sono stata molto impegnata (:
Tornerò ad aggiornare una volta alla settimana, ogni domenica...
Un bacio..

Sofia.

   
 
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