Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: AliceL    16/03/2011    0 recensioni
C’è un tempo dell’anno in cui tutto è caos, in cui il tempo è fermo, in cui il buono diventa malvagio, il filosofo burlone, in cui lo sguattero può essere il padrone e la dama un cavaliere, in cui i morti tornano in vita…
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Ringrazio chiunque si appresti a leggere questa mia storia... Ok no, sono troppo formale!

Vorrei dire comunque che questo è il mio primo lavoro (o almeno il primo che non consideri una completa cavolata), quindi mi farebbe piacere se commentaste, anche solo per dirmi che fa schifo (si lo so, ho tanta stima di me! u.u)

Comunque vorrei ringrazio una certa mia amica (di cui purtroppo in questo sito non so il nickname, ma sono sicura che se legge capirà che parlo di lei xD) che ha avuto la santa pazienza di rileggere ogni riga di questo capitolo, aiutandomi anche nella correzione... ok, questa roba mi sembra tanto "notte degli oscar", direi che è meglio che la smetto. xD

Vabbè buona lettura!^^


 C’è un tempo dell’anno in cui tutto è caos, in cui il tempo è fermo, in cui il buono diventa malvagio, il filosofo burlone, in cui lo sguattero può essere il padrone e la dama  un cavaliere, in cui i morti tornano in vita…

 

<< Raffaele allontanati dalla finestra, o ti prenderai qualcosa! >>

Disse la serva poggiando il cesto di panni a terra per correre a chiudere la finestra.

Il bambino si limitò a guardarla per un secondo con sguardo vacuo attraverso i suoi grandi occhi blu, per poi sporgere di nuovo la testa fuori dalla finestra, bagnandosi il viso con la pioggia battente.

La donna lo prese per un braccio e lo strattonò lontano dalla finestra, che poi chiuse con forza.

Il bimbo seguì la cameriera che si allontanava per il corridoio con sguardo inespressivo, come se non avesse ancora capito cosa fosse successo.

Poi, in silenzio, come se fosse un fantasma, attraversò il corridoio e appoggiò delicatamente la sua manina pallida sul vetro freddo e appannato dall’umidità, lasciando una piccola impronta.

<<toppo silenzio.>> disse un po’ dispiaciuto.

Raffaele era un bambino di appena quattro anni, abitava in un grande palazzo, ma passava la maggioranza del suo tempo da solo; era di salute cagionevole e si ammalava facilmente e quindi erano rare le volte in cui i suoi genitori, mercanti arricchiti con il commercio delle spezie, lo facevano uscire di casa.

Quelli stessi genitori che lo lasciavano spesso solo a casa durante i loro viaggi di lavoro e d’affari, con come unica compagnia qualche domestica bisbetica e un cane un po’ obeso.

Solo in una casa immensa, il piccolo Raffaele era cresciuto chiuso al mondo.

Come un uccello esotico costretto in una gabbia, quasi il mondo esterno potesse ucciderlo se lasciato libero di volare.

Ai balli e nei salotti della borghesia e degli aristocratici si parlava spesso “ di quel bambino dal volto angelico”, con quegli occhi che alcuni dicevano “guardassero sempre in alto per tentare di scorgere il Paradiso da cui provenivano”.

Ma solo in pochi l’avevano incontrato.

Il bimbo, dal canto suo, non desiderava altro che  compagnia. Per questo ogni anno, da quanto i domestici riuscivano a ricordare, si sedeva sempre davanti a quella finestra nell’ala est del palazzo, che sporgeva sulla strada principale.

Sempre quel giorno, quando sentiva le campane della chiesa alla fine della strada suonare a festa.

Carnevale.

Per chi pensava che il piccolo Raffaele aspettasse quel momento per un prematuro e puro spirito religioso, di certo non aveva capito i sogni e i desideri che si trovavano nel suo animo.

Le luci, le danze, i colori e le sfilate di carri che il bambino poteva ammirare sotto di sé dall’ampia finestra, lo facevano sentire diverso.

Un adulto, per descrivere quel sentimento, avrebbe sicuramente usato paroloni come “euforico”, “entusiasmato”, “eccitato”.

Parole che per quanto comuni, a un bambino di quattro anni non sarebbero mai passate per la testa, figuriamoci capite.

No, Raffaele avvertiva solo un sentimento riempirgli il petto, quando guardava quello spettacolo: felicità.

Tutto quello che vedeva, anche lanci di uova, farina e, chi sa, magari anche qualche battibecco e litigata fra i partecipanti ( che lui non comprendeva) lo facevano sentire completo, come se quelli la giù fossero i suoi amici, i colorati costumi i suoi vestiti e come se la musica la stesse suonando lui.

Ma c’era un giorno di quella lunga festa, che il piccolo aspettava più degli altri.

In quel giorno la gente per strada era più rumorosa, allegra e sì, anche più selvaggia.

Stranamente, però, il bambino era più affascinato da loro che dai soliti, se pur bellissimi, manifestanti.

Avvertiva in essi una semplicità e una spensieratezza così autentica, che provava il fortissimo desiderio di correre giù per strada, purtroppo era sempre stato fermato da qualche domestico che l’aveva agguantato, spesso anche a pochi passi dal portone.

Quel giorno però era diverso. C’era silenzio.

Niente urla, risate o schiamazzi. Niente.

Si aggrappò alla gonna, di un’altra cameriera che passava di lì.

<< Perché oggi non c’è dente?>> chiese preoccupato.

La domestica si chinò e gli scarmigliò delicatamente i capelli.

<< Tesoro, ma non hai visto che tempo? Oggi non si farà probabilmente niente.>>

Raffaele sgranò gli occhi incredulo e una lacrima gli cadde sulla guancia.

<< Oh cielo! Non piangere.>>  disse la cameriera asciugandogli gli occhi con un fazzoletto che aveva tirato fuori da una tasca. <> e abbozzò un sorriso amorevole e colmo di pietà.

Quando anche quella cameriera se ne fu andata il bambino tornò alla finestra.

Era così sconsolato e annoiato che la stanchezza ebbe il sopravvento e si addormentò sul suo sgabello, con la testa sul davanzale…

 

Quando si svegliò il sole non era tramontato da molto e il cielo era tinto di quel rosso fuoco che precede il blu della notte.

Raffaele sbadigliò e si stropiccio gli occhi, ancora assonnato.

Improvvisamente un rumore attirò la sua attenzione.

Si arrampicò sul davanzale e afferrò con le manine la maniglia della finestra appoggiando la guancia sul vetro freddo e un po’ appannato.

Quello che aveva creduto il rumore della pioggia scrosciante contro il vetro era in realtà il rumore di passi.

Decine e decine di passi.

Una folla di persone si precipitava giù per la strada e, man mano che si avvicinavano, le loro voci, da un lontano brusio diventavano più distinte.

Presto la strada fu piena di urla, risate e canti, ma anche del frastuono di vetri rotti e carrozze rovesciate, e della luce brillante del fuco.

Raffaele vide un’anziana mendicante che sgranava gli occhi e correva nell’oscurità del vicoletto.

I pianti si mescolarono alle risate.

Agli occhi del bambino però quello scenario non rappresentava niente, sentiva solo una grande agitazione crescergli dentro che attribuì a un desiderio che aveva avuto sempre nascosto nel suo animo e a cui non aveva mai voluto dar voce.

Si guardò intorno per il corridoio buio.

Nessuno.

Saltò con grazia giù dal davanzale e cominciò a correre per i corridoi del palazzo, in cui l’unico suono era il rumore dei suoi passi sul marmo.

Scese lo scalone principale e corse verso il portone. Lo strattonò con forza.

Il bambino, però, era troppo piccolo e debole anche solo per muoverlo di un centimetro.

In sottofondo le risate e le urla si facevano sempre più tenui.

Preso dal panico Raffaele corse verso le cucine.

Fin da quando riusciva a ricordare aveva sempre amato andare  in cucina. Non di certo perché amasse mangiare, malato e magro com’era, ma perché amava la compagnia, almeno quella dei domestici.

Erano sempre così gentili con lui, almeno in buona parte, lo riempivano di coccole e carezze e gli facevano compagnia da appena sveglio fino a quando non si addormentava.

Forse era per questo che lo faceva?

Per provare un nuovo genere di compagnia, per trovare dei nuovi amici?

Stava di fatto che aveva sempre passato così tanto tempo in cucina da conoscerne ogni singolo angolo.

Si ricordava che nella dispensa si trovava una porta che dava sul cortile, l’aveva usata qualche volta in passato per correre fuori con delle carote in mano per i cavalli delle carrozze.

Attraversò la cucina e quasi sbattè sulla porticina che dava sul cortile.

La spalancò e si precipitò fuori.

L’aria ghiacciata della sera lo colpì come una frusta e non poté evitare tossire con forza.

Ma non poteva fermarsi, non ora.

Sentiva già le voci della folla diventare di nuovo distinguibili e vicine.

Corse verso il cancello di legno battuto, terrorizzato all’idea di trovare chiuso anche quello.

Ma, oltre ogni sua più rosea aspettativa, il pesante cancello era socchiuso.

Probabilmente qualche domestico si era dimenticato di chiuderlo a dovere quando, quella mattina, i genitori di Raffaele erano partiti per il loro ennesimo viaggio d’affari.

Puntò i piedi a terra e tirò. Il cancello si schiuse quel tanto che bastava a far passare una figurina esile come la sua.

Si precipitò in strada e solo lì, finalmente, poté tirare un sospiro affannato.

Questo prima che una forte fitta di dolore alla schiene lo spedisse con la faccia contro i ciottoli della strada.

Per metà coperta dalle urla, sentì una voce profonda e minacciosa che inveiva con insulti che Raffaele non comprendeva ma, ne era sicuro erano diretti a lui.

Tentò di girarsi ma un altro colpo gli impedì di alzarsi.

Riuscì a spostare la testa quel tanto che bastava da vedere un uomo alto con il volto incorniciato dalle fiamme che si innalzavano alte verso il cielo da un palazzo in fiamme. Brandiva un lungo pezzo di legno che, sicuramente, fino a pochi minuti prima era stata parte di una trave del pavimento di una casa.

Il terrore si impossessò del bambino, paralizzandolo.

Sentiva i polmoni bruciargli per l’aria gelida della sera e il dolore acuto nel punto in cui il folle l’aveva colpito.

Non sapeva neanche chi fosse quell’uomo ne perché ce l’avesse con lui, nella sua mente di bambino rimbombava una sola domanda: perché si comportava così?

Perché quella gente che lui aveva sempre desiderato conoscere, con cui aveva sognato più e più volte di cantare e ballare in mezzo alla strada, che aveva sentito come una parte di se anche se a dividerli c’era sempre stato un muro di vetro lo trattava così?

Il profondo terrore si mescolò al forte senso di delusione e smarrimento, sfogandosi nell’unico modo possibile: scoppiò a piangere, di quel pianto disperato di cui sono capaci solo i bambini, con le lacrime che si mescolavano al fango sulla strada.

I singhiozzi gli scuotevano il petto alternandosi a forti attacchi di tosse che gli rendevano impossibile respirare.

Si accasciò a terra, con il volto contro la dura pietra, resosi conto che, anche se avesse pianto e strepitato per ore, era sicuro che nessuna delle cameriere della villa sarebbe corsa fuori con una coperta pronta e un ombrello ammonendolo con foga.

Per la prima volta si rendeva conto di come tutti gli sarebbero mancati, forse anche più dei suoi genitori, perché erano loro che si erano sempre presi cura di lui, perché forse erano loro la sua famiglia.

Rimase lì sdraiato a rimuginare per un periodo che gli parve eterno ma, ne era convinto, probabilmente non era passato neanche un istante, vedeva il fuoco che brillava vivido anche da dietro le palpebre.

Aspettava, scosso dai singhiozzi, aspettava il dolore, l’odore del sangue… Sensazioni che stranamente non arrivavano.

Finalmente si decise ad aprire gli occhi:

Non se ne era accorto ma la strada si era svuotata di colpo, solo dei brusii lontani indicavano che non era sempre stata vuota e che quello che Raffaele aveva visto non era stato solo l’incubo di un bimbo.

Lentamente si mise a sedere respirando faticosamente, il viso ancora rigato dalle lacrime e sporco di fango e polvere.

Osservò la strada distrutta, le vetrine infrante e poi la casa in fiamme.

Il fuoco brillava sempre più alto e luminoso come se desiderasse altro da bruciare, ancora affamato.

Il loro calore e il loro crepitare ad ogni soffio di vento ipnotizzarono il bambino, il quale non si accorse che, in verità, non era il solo nella strada.

Solo un forte scricchiolio di vetri rotti lo fece destare dal suo torpore.

Si girò di scatto verso la fonte del rumore con il cuore che batteva a mille, nella mente ancora vivido il ricordo dell’uomo con l’asse di legno.

Ma non si trattava del folle, bensì di una ragazza accovacciata fra le schegge della vetrina infranta di un negozio.

La corsa del cuore di Raffaele rallentò di colpo, così velocemente che per un momento pensò si fosse fermato.

Quello sicuramente doveva essere un sogno, quella ragazza non poteva essere umana, era sicuramente una fata, si! Una fata di una di quelle fiabe che i domestici erano soliti raccontargli la sera per farlo addormentare.

Ne era certo, anche se era vestita di stracci e non di fiori di primavera appena sbocciati.

I lunghi capelli rossi le ricadevano lisci sulle spalle, in contrasto con la carnagione pallida.

Gli occhi, dello stesso colore della corteccia degli alberi, avevano un che di smarrito mentre analizzavano curiosi ad una ad una le schegge di vetro che aveva in mano, come alla ricerca di qualcosa.

Raffaele fece per alzarsi ma le forze erano quasi scomparse per la paura e crollò di nuovo a sedere con un tonfo.

Lei si girò di scatto, quel senso di smarrimento che prima era stato appena percettibile si era trasformato in vero terrore.

Anche il bimbo aveva paura ma, per una volta, la mise da parte. Perché altri desideri superavano la paura: desiderava accarezzargli i capelli e cancellargli il terrore da quel volto infantile con un sorriso, non aveva mai sorriso a una fata.

Tentò di rialzarsi ma le gambe cedettero di nuovo, questa volta, però, braccia sottili ma forti lo strinsero a sé e lunghe dita affusolate gli accarezzavano i capelli.

Che buffo! Eppure avrebbe dovuto essere il contrario.

Rimasero così per un po’, non avrebbe saputo dire quanto, riscaldati dal reciproco calore.

Sentiva il battito del cuore della ragazza e per un momento il volto di lei si trasformò nel volto della madre,  lo cullava dolcemente fra le sue braccia, sussurrandogli una ninna nanna.

Ormai era da tempo che non lo trattava con tanto sincero affetto e che il suo volto non si illuminava della luce di un sorriso.

Improvvisamente la sensazione di calore cessò, la fata sciolse l’abbraccio e corse via, i piedi scalzi che saltavano agili fra una pozzanghera e l’altra.

I suoi capelli rilucevano nel tetro scenario della strada devastata mentre correva via, come quando, nelle braci spente di un camino, si può ancora vedere una gagliarda fiammella che non vuole morire.

Ma presto anche quelli scomparvero inghiottiti dalla nebbia e il bimbo rimase solo.

Si rese conto solo allora che aveva iniziato a piovere, l’incendio si era spento e ora solo un’alta colonna di fumo candido si alzava dalla casa.

Sentì dei passi che si dirigevano veloci verso di lui, ma non si mosse, rimase immobile con lo sguardo ancora fisso nel punto in cui la fata era scomparsa.

Delle mani lo presero per la vita e lo aiutarono ad alzarsi, sostenendolo, altre che invece lo coprivano con delle coperte.

Così, ancora scombussolato e, sicuramente, più malato di prima, i domestici lo riportarono  a casa.

 

Negli anni che seguirono gli abitanti della villa ricordarono l’episodio sempre e solo come una scappatella del loro signorino in un giorno particolarmente noioso.

Ovviamente nessuno si scomodò a chiedere a Raffaele cosa fosse esattamente successo e quindi si finì per dare una spiegazione all’accaduto senza interrogare neanche il diretto interessato.

Lui invece conservò sempre quel ricordo con cura, come il ricordo del suo incontro con una fata, e con il desiderio segreto, forse un giorno, di rincontrarla…

  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: AliceL