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Autore: 365feelings    19/03/2011    4 recensioni
Fu in quel momento, mentre la notizia passava rapida di bocca in bocca, che Penelope si chiese se più che un dispetto, il suo nome non fosse stato un presagio. Un presagio di solitudine e attesa.
[Terza vincitrice del contest Collapsing Night indetto dal Collection of Starlight]
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Collapsing Night' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Nickname sul forum: KumaCla
Nickname su Efp: KumaCla
Titolo della fanfiction: Quando ogni istante sembra infinito
Titolo del contest: Collapsing Night
Pairing: Penelope/Thomas
Personaggi: Penelope Woodhouse, Thomas Thorne, Maximilian e Caroline Woodhouse
Generi: Malinconico, Sentimentale
Warnings: OneShot
Credits: Boundary(icon), Daffy Duck -Warner Brothers-
Note personali: Penelope Woodhouse è innanzi tutto un omaggio. Alla moglie di Ulisse, che per ben vent’anni ha aspettato suo marito: la mia Penelope vuole essere una rivisitazione moderna di questo personaggio, che però vive con ansia e rifiuto questa sua condizione; e a Jane Austen: per chi avesse letto i suoi libri certamente ricorderà che l’eroina del racconto Emma è appunto Emma Woodhouse. Credo sia chiaro che io amo alla follia Jane Austen e i suoi personaggi.

Ho collegato la vita di Penelope a un avvenimento che, per quanto recente, ritengo storico: l’attentato avvenuto il 7 luglio 2005 a Londra e che ha causato una cinquantina di morti. Sebbene è poco descritta e solo accennata, il mio vuole essere un omaggio anche a Londra, città che amo con tutta me stessa.
Solo due delle date da me citate riguardano fatti realmente accaduti (11 settembre 2001-7luglio 2005), mentre le altre sono frutto della mia fantasia.

Non credo che in Inghilterra ci siano Collegi come li intendiamo noi e se ci sono non ne ho trovato traccia, per cui mi scuso di questa licenza poetica.
Escluso il titolo e questo schema la storia è di 4 pagine giuste giuste.

 

 

 

 

Le campane suonavano a lutto nel grigio cielo di metà luglio mentre il corteo funebre avanzava lento, col capo basso e il passo stanco. Il nero dei merletti e dei cappotti ondeggiava sui volti delle donne e attorno ai piedi degli uomini.
Un insolito vento freddo per quel triste 15 luglio si insinuava tra il grigiore dei palazzi, scivolava sul feretro e faceva rabbrividire i presenti.

 

Quando ogni istante sembra infinito

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Era il 1971 e quando Maximilian Woodhouse venne informato che da lì a nove mesi sarebbe divenuto padre, con innaturale calma aveva deposto sul tavolo di ciliegio il giornale che stava leggendo, si era lisciato i baffi e aveva chiesto che gli fosse portato dello Scotch.
Un figlio a quelletà era quasi un miracolo: a cinquantasette anni Maximilian aveva deciso di ritirarsi a vita privata in campagna e, dopo anni di insuccessi, aveva anche smesso di desiderare un erede; sua moglie daltro canto iniziava ad essere vecchia sebbene i suoi cinquant’anni fossero portati assai dignitosamente.
Quella notizia inattesa, in ritardo di un paio di decenni, allietò la vita coniugale e contribuì a rendere laria in casa Woodhouse più allegra.

 
« Signore, è nato, è una femmina.»
Lidea che suo figlio sarebbe potuto in realtà essere una lei aveva sfiorato la mente di Maximilian Woodhouse ancora tre mesi prima, durante un party per pochi intimi nel giardino della sua villa.
« Mio caro Max, hai mai pensato che potrebbe essere una bambina?» , gli aveva detto sua sorella Augusta con un bicchiere di punch tra le mani.
Da quel pomeriggio il pensiero di una figlia aveva occupato le sue meditazione: un maschio era augurabile se non preferibile, ma, per quanto ancorato ai principi e alle tradizioni del passato, si rendeva conto dei tempi che correvano. Erano nel ventesimo secolo ormai.
Per questo alla notizia, il calmo, riflessivo, severo Maximilian aveva abbracciato l’infermiera dimenticandosi per qualche istante del suo solito distaccato contegno.
Subito dopo era corso da sua moglie: distesa sul letto dell‘ospedale, la neomamma teneva in braccio la figlia e sorrideva con sorriso stanco ma felice.
Quando le grandi mani delluomo si avvolsero attorno allesile corpicino della neonata, questa sotto le coperte iniziò a piangere.
Caroline Woodhouse non poté fare a meno di ridere felice nel vedere quel primo intimo momento della loro nuova vita familiare.
« Come la chiamiamo?» , chiese la donna riprendendo la figlia e cullandola per calmarla.
« Starnazza come unanatra. Penelope.»
« Penelope Woodhouse. Non suona male.»
Quando si ritrovò nel silenzio del suo grande studio, Maximilian si fece portare dello Scotch e chiese che tutti i parenti e gli amici fossero avvertiti della nascita.
Penelope Woodhouse alle 20:10 del 17 Novembre 1971 si affacciò alla vita.

 

Laria frizzante della campagna inglese accompagnò i primi anni di Penelope, arrossandole le gote e scompigliandole i boccoli color del grano.
La piccola cresceva velocemente, dimostrando una mente vivace e una spiccata propensione per le arti.
Caroline Woodhouse assisteva con gioia materna e infinita preoccupazione allo sviluppo della figlia, che solo sei anni prima era venuta alla luce, conquistando subito, fin dalla sua primissima apparizione, parenti e amici. Era infatti difficile resistere alladorabile broncio che Penelope metteva quando voleva qualcosa che sapeva non avrebbe dovuto avere: aggrottava le sottili sopracciglia bionde e increspava le labbra, mentre gli occhi azzurri si scurivano leggermente e il mento veniva spinto in dentro.
« Ma petite.» , la chiamavano e la vezzeggiavano.
Solo Maximilian Woodhouse sembrava essere non immune ma decisamente più fermo nelle sue decisioni. Amava sua figlia e per lei avrebbe fatto tutto, la accontentava quasi in ogni cosa, ma sapeva quando dire no.
Per questo al compimento del suo settimo anno detà, prese la difficile ma irremovibile decisione di mandare la piccola in collegio, con sommo dispiacere e disperazione della moglie, dei familiari e degli amici.
Il giorno della partenza, il 10 Settembre 1977 -che poi sarebbe stato ricordato come il dì più triste di tutta linfanzia della piccola-, Penelope vide scomparire piano piano il profilo maestoso ed imponente della villa di suo padre.
Seduta sul sedile della macchina di famiglia, Penelope smise presto guardare la sua casa e si sedette composta.


Il Collegio in cui l’aveva iscritta suo padre era uno di quelli in vecchio stile, in cui venivano rinchiuse tutte le giovani di buona famiglia che potevano permettersi la retta.
Lì dentro non cera spazio per capricci e giochi e Penelope lo comprese fin da subito. Le bastò vedere ledificio e percepirne laria severa, prima ancora di incontrare gli insegnanti, per capire che era stata catapultata in un mondo completamente differente dal suo.
Penelope indossava già la divisa, uno scamiciato di cotone grigio sopra a una camicia bianca, come tutte le bambine che iniziavano a formare unordinata fila davanti lingresso del Collegio.
Le più grandi, giovani donne nel fiore della loro gioventù, aprivano la fila: erano così diverse dalle loro compagne più piccole e letà non centrava nulla. Si trattava del portamento, austero e composto, dello sguardo, freddo e distaccato, del modo anche di raccogliere i capelli e di indossare la divisa.
Non cerano più trecce, boccoli e nastri colorati: semplici e severi chignon troneggiavano sulla nuca delle ragazze.
Penelope si chiese: sarebbe diventata anche lei come loro, invecchiando avrebbe assunto quelle forme da cigno e indossato ancora abiti grigi, allesuberanza infantile avrebbe sostituito quel superbo contegno?
Ma fu solo un attimo, giusto il tempo di toccarsi i capelli e rendersi conto che i boccoli dorati erano ancora al loro posto e che nessun chignon li aveva sostituiti, poi quei pensieri scomparvero: ci avrebbe ripensato più tardi, si disse.

 
Amava suo marito e per questo gli permetteva di fare, ogni tanto, qualche battutina sul suo nome. Agli altri invece non era concesso paragonarla ad un‘anatra, odiava quegli animali così rumorosi e sgraziati.
Una cosa però non riuscì a perdonare a Thomas, il fatto di essere voluto partire per l’Afghanistan come corrispondente estero per l‘Independet. Non era nemmeno andata all’aeroporto per salutarlo il 7 febbraio del 2000 e quando lo vedeva in televisione cambiava canale.
Nel frattempo, l’11 settembre 2001, a New York le torri del World Trade Center crollavano e le tensioni con il Medio Oriente si inasprivano.
Fu in quel momento, mentre la notizia passava rapida di bocca in bocca, che Penelope si chiese se più che un dispetto, il suo nome non fosse stato un presagio. Un presagio di solitudine e attesa.

 
Avrebbe fatto di tutto pur di sfuggire a quella condizione.
Penelope dal crollo delle torri sembrava un animale, che chiuso in una gabbia, fiutava il pericolo: aveva i nervi a fior di pelle e lo sguardo inquieto. Si aggirava per il salotto di casa sua come la leonessa che aveva visto allo zoo quando era piccola: sbarre di ferro che, solo l’ ansia riusciva a vedere, la imprigionavano.
Voleva fuggire.
I suoi movimenti erano frenetici, non riusciva a stare ferma, si innervosiva alla vista di ago e filo.


Non era pentita di quello che aveva fatto nonostante fosse sposata e amasse suo marito.
« Quanto grave è ladulterio?» , si chiese senza voler davvero conoscerne la risposta, non le importava.
Con il torpore del sonno ancora padrone delle sue membra nude, si alzò dal letto senza nemmeno coprirsi e un sorriso amaro le increspò le labbra nel vedere il grande letto matrimoniale che troneggiava nella stanza occupato da un altro uomo: il corpo nudo di Fernando Rodrí guez riposava tra le lenzuola candide, ignaro di ogni pensiero della sua amante.
I vestiti del giovane e avvenente spagnolo, che la corteggiava ormai da mesi, giacevano scomposti su una sedia sotto la grande finestra; senza un vero interesse e senza sapere cosa stesse cercando, fece vagare le mani nelle tasche.
Portò alla luce delle sigarette e un accendino.
Non ci pensò neanche, assecondò gli istinti come spesso faceva in quellultimo periodo: accese uno di quei piccoli cilindri cartacei e si diresse in bagno, dove riempì la vasca.
Qualche istante dopo si ritrovò immersa nell’acqua calda con la sigaretta in bocca.
« Penelope, tu non sei Penelope.» , si disse.

 
Cos’erano quelle che solcavano il suo volto? Lacrime?
Infine cedeva la prode Penelope, la battagliera Penelope, la testarda e libertina Penelope?
Proprio lei, che vantava un freddo distacco dai mali della vita, che disquisiva di Freud, Nietzsche ed Hegel con così tanta sicurezza e proprietà di linguaggio, che incantava con i suoi modi e le sue forme, ora cedeva?
« Attendere è la più crudele attività e il più fastidioso verbo. Nellattesa la persona ciondola senza far nulla alternando noia, rabbia e delusione che il più delle volte terminano con un sonoro sbuffo depresso. E il verbo? Cosa cè di più fastidioso di qualcuno che ti dice aspetta? Davvero poche cose io credo. È così irritante quando qualcuno condiziona la tua vita con quella stupidissima parola. Aspetta? Aspetta cosa? Un secondo, unora, un anno, una vita? Aspettare è la condizione ideale per distruggere una persona, per sfibrarla, per farle perdere la condizione del tempo. È davvero terribile. Una volta che hai atteso anche solo per un secondo, attenderai per tutta la vita e la persona che ti ha chiesto di congelare per un breve lasso di tempo la tua esistenza, lo saprà e da allora sarai per sempre suo schiavo. Aspetta, ti dirà, e tu lo farai.»
Era questo il discorso con cui aveva, paradossalmente, conquistato Thomas.
Le era sembrata una scelta giusta sposarlo: lo amava e non l’aveva mai fatta aspettare.
Eppure in quel momento, distesa su quel grande letto dalle candide coperte, cosa stava facendo?
Per un solo brevissimo istante credette di aver sentito la porta di casa aprirsi, ma era solo un’illusione, figlia della vodka: Thomas non sarebbe tornato.
Senza nemmeno alzarsi si tolse la maglia macchiata dal distillato e rimase in reggiseno. La mente, annebbiata dai fumi dell’alcol, vagò e giunse al giorno in cui sua madre le comprò per la prima volta un reggiseno. Era color carne come quello che indossava ora e non le era piaciuto, perché lei preferiva il nero.
Poi però tornò al presente, a quel maledettissimo presente che sembrava volerla distruggere tant’era opprimente.
« Penelope è una figura della mitologia greca e significa “anatra“. Figlia di Icario e di Policaste, è la moglie fedele di Ulisse, con cui ebbe un figlio, Telemaco. Attese per vent'anni il ritorno del marito da Troia ingannando i proci che chiedevano la sua mano con lo stratagemma della tela: di giorno tesseva il sudario per Laerte, padre di Ulisse, e di notte lo disfaceva.»
La voce fredda di Miss Wright, l’insegnante dei tempi del Collegio, quando ancora non c‘erano le mura di Cambridge a rassicurarla, le risuonò nella mente seguita subito dopo da quella stridula e petulante della sua nemica giurata, che finita la lezione la prendeva in giro.
« Alla fine, se ti sposerai, Daffy Duck, tuo marito ti lascerà.»
Si era sempre rifiutata categoricamente, sin dall’adolescenza, di paragonarsi alla Penelope del mito.
Lei non sarebbe rimasta a casa, non avrebbe atteso, non sarebbe rimasta da sola.
Portò la decima sigaretta di quella notte che sembrava non voler finire mai alle labbra, aspirò e poi soffiò il fumo bianco fuori dalla sua bocca, in alto, verso il soffitto.
La matita nera iniziava sbavare, traditrice, verso le guance e a stento trattenne un singhiozzo mordendosi l’indice della mano sinistra, quella con cui non era mai riuscita a tenere le sigarette.
Alla fine cedeva, Penelope, con quel nodo che le stringeva la gola e quel pianto strozzato da rabbia e amarezza.
Straziante condizione.
« Penelope, questo è Thomas Thorne.»
Tessere.
« Ciao Penelope, ricordi? Sono Thomas Thorne, ci siamo incontrati in quel pub, a Soho.»
I fili.
« Ti va un caffè da Starbucks, ce n‘è uno qui vicino, molto carino.»
Del ricordo.
« Ti amo.»
Di una vita.
« Penelope, vuoi sposarmi?»
E disfarli.
« Penelope, ho deciso di partire. È un buon lavoro, mi permetterà di vivere da vicino gli eventi che, ne sono certo, sconvolgeranno l‘intera storia dell‘Occidente. Voglio essere un testimone e fare la mia parte, non mi accontento di una scrivania.»
Per non rivivere il dolore di un feroce addio.
« Vai, parti Thomas, prendi le tue cose e vola via lontano da me!»
Tessere e disfare.
Tessere e disfare.
Tessere e disfare.

 
Le luci al neon illuminavano il corridoio che portava alle rotaie e le persone che lo percorrevano con la fretta nelle gambe e l’impazienza negli sguardi; quella mattina la stazione di King's Cross St. Pancras era più affollata del solito.
I vagoni bianchi arrivarono puntuali preceduti da un sibilo e si arrestarono con uno sbuffo sulla banchina, aprendo le loro porte per permettere alla gente di scendere e salire.
Lo vide passare tra altri cento e posizionarsi alla fine del vagone.
Era straniero, un medio orientale; non avrebbe però saputo dire da dove provenisse, forse era Afghano. Regalò un fugace pensiero a Thomas.
Aveva degli occhietti neri, liquidi e inquieti che saettavano lungo le pareti del vagone, fissando ora lei, ora la famiglia di turisti italiani, ora il signore in giacca e cravatta che si stava recando in ufficio, ora il giovane africano con il capo abbassato e la musica nelle orecchie, ora la suora che in mano teneva un rosario e pregava a bassa voce.
La metropolitana partì, rapida, gettandosi nel tunnel della Piccadilly Circus che in baleno la inghiottì, pronta a rigettarla qualche metro più avanti nella prossima fermata.
L’uomo non parlò, non disse niente. Ma il suo sguardo divenne improvvisamente duro, feroce, folle.
Solo allora Penelope capì, ma era troppo tardi: la bomba esplose, lasciandole il tempo di un solo ultimo pensiero.
Erano le 8:50 del 7 luglio 2005 e la vita di Penelope Woodhouse finiva quel giorno.

« Attesa, dolente inclinazione nel desiderio di un risveglio.
Un cappio che solo la morte riesce a sfilare.»

 

 

 

 

 

N/A
Voglio solo ringraziare Alexluna per aver indetto il contest e complimentarmi con le altre partecipanti.
Un grazie va anche a _BlackRose_, la quale ha creduto in me quando io stessa non lo facevo.
Non è stato difficile far morire Penelope, arduo è stato non scrivere su di lei tutte quelle pagine che avrei voluto dedicarle, perché sì, mi sono davvero affezionata al mio personaggio. 

   
 
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