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Autore: Angeline Farewell    01/04/2011    1 recensioni
[...]haido si era accorto troppo tardi di quel che stava succedendo, peggio, di quello che era già successo, a sakura: il testo che si era ritrovato tra le mani lo aveva lasciato senza parole e senza emozioni.
Una volta eravamo felici sakura. Com’è potuto succedere le cose siano cambiate così?
La risposta non gli era piaciuta, perché era stata anche il titolo di quella lirica velenosa ed ingiusta.
Good morning, hide. Buongiorno, haido: sei tornato dal mondo dei sogni, finalmente.
Ed era stato decisamente un brusco risveglio per tutti.[...]
Genere: Introspettivo, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: hyde, Ken, Sakura, Tetsuya
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Jugband Blues

Il disordinato ordine che vigeva nell’angusto monolocale del suo ospite non lo aiutava a sciogliere il mistero di una personalità che definire bizzarra era poco.

Yasunori Sakurazawa nei suoi – ancora da compiere. Questione di pochi giorni - ventitré anni di vita ne aveva viste (e fatte) di tutti i colori, ma uno come quel suo coetaneo collega ora leader probabilmente non l’aveva mai incontrato. Così come, anche a scavare nella sua sempre affollatissima memoria, non aveva mai conosciuto qualcuno come quel Kitamura o come… Hyde? Haido? Hide? Il piccoletto che cantava con i polmoni di BAKI e Morrie insieme, insomma. Presi singolarmente non avrebbe scommesso un solo yen su nessuno dei tre, ma era bastata una sola prova in studio a dimostrargli la sua inadeguatezza come giocatore d’azzardo.

“Ma da quanto suonate insieme?” “Un anno. Più o meno.” “Un anno…?” “Beh, forse è un anno e mezzo… Perché?”

Perché lui aveva suonato per decine di band, ma un trio del genere non gli era decisamente mai capitato. Perché in un-anno-più-o-meno avevano creato un affiatamento difficilmente riscontrato altrove. Perché in un anno-forse-un-anno-e-mezzo già completavano e affinavano il talento l’uno dell’altro. Anche se quel “-chan” periodico li faceva somigliare a tratti ad una comune gay in cui, per altro, l’apice dominante non era nemmeno l’unico tra loro potesse essere guardato senza farsi domande imbarazzanti, ma quello scricciolo impossibile ed iperattivo che gli aveva spiegato dove teneva la carta igienica. Nel ripiano sotto il lavabo, così se finisce quando serve, ti basta allungare il braccio ed è fatta.

Perfetto.

Aveva sistemato il suo borsone al lato del divanetto che occupava quasi completamente il piccolo soggiorno rimediandosi la prima di quelle che avrebbe imparato a riconoscere fin troppo bene – e poi persino a procurare per divertimento - come occhiate di riprovazione. Ma quel primo giorno riuscì ad evitarsi il pistolotto educativo di contorno che di solito seguiva.

“La camera da letto non è enorme, ma avremo spazio a sufficienza entrambi. Ti ho fatto posto nell’armadio, così puoi sistemare le tue cose.”

Ottimo.

L’appartamento di tetsu era un buco, anche più piccolo di quello che fingeva – giacché, di fatto, continuava a vivere a Narita tra le amorevoli braccia di mamma. Nel suo loculo ci dormiva solo quando i programmi prevedevano attività diverse e quando la musica pretendeva il suo obolo da pagare in sveglie antelucane - di occupare a Tokyo da quattro anni, ma mille volte più… organizzato? Non riusciva a capire se poteva davvero parlare di ordine, ma tutto gli era sembrato predisposto in modo fin troppo ponderato.

“Puoi usare il futon che ti ho lasciato nell’armadio. Ah, io dormo a sinistra, più vicino alla finestra. Dovrai sistemarti sulla destra.”

Era cominciata così quella strana convivenza che aveva creduto a due. Quando il telefono aveva squillato la prima volta, però, aveva capito che al più si sarebbero dovuti stringere per far spazio agli altri due inquilini più o meno saltuari, inaugurando così il periodo più felice, ma meno spensierato della sua vita.

Ed il controsenso era solo apparente.

 

Osaka era una città caotica quasi quanto Tokyo, forse appena un po’ meno dispersiva ed alienante. E quasi speculare: il sole tramontava sul mare quando a Tokyo s’immergeva tra le frastagliate colline del Kanto, un mare altrettanto inquinato ed inospitale, ma che si avvolgeva ogni sera nei colori della festa.

Ma a Sakura non piacevano le immagini poetiche. O meglio, non sentiva propri i colori che le ammantavano: viveva in bianco e nero esattamente come vestiva, poco spazio per le sfumature.

E dunque, come aveva fatto a finire nell'appartamento di un tipo che sembrava vestirsi al buio in un negozio dell’usato degli anni ’60?

Conoscendo tetsu – e poi soprattutto ken e haido - aveva avuto la prima delle tante lezioni sulle apparenze che avrebbe ricevuto negli anni successivi. tetsu vestiva come una idol minorenne e minorata, ma aveva praticamente i suoi stessi gusti musicali. ken sembrava si fosse avvicinato alla chitarra ed alla musica per rimorchiare, poi aveva scoperto che per il gruppo aveva rinunciato a ben più di un sicuro impiego e di una laurea in architettura: aveva dovuto rinunciare alla sua famiglia. haido sembrava un sempliciotto svagato fin troppo facile da raggirare, ma la sua penna dipingeva versi da galleria d’arte. O da biblioteca nazionale, se al posto dell’eleganza dei segni avesse usato la rigidità delle lettere romane. E ascoltava heavy metal. E i suoi genitori l’avevano cresciuto ascoltando i Beatles, esattamente come quelli di Sakura avevano, a loro tempo, ballato sulle canzoni del Re.

Yasunori, fino alla telefonata di tetsu, era stato un felicissimo roadie, un tecnico esperto e coscienzioso, un ambito batterista cresciuto alla corte del più grande avesse nutrito il metal giapponese. Pensava gli bastasse.

Poi però aveva ricevuto quella telefonata, aveva sentito quel nome impronunciabile e si era detto perché no? Tanto da Osaka doveva passarci comunque.

Non aveva previsto d’innamorarsi di una voce, di un’idea e di una storia. Non aveva previsto di voler accompagnare quella voce, fare propria quell’idea, far parte di quella storia.

Eppure era successo in poche ore, nemmeno il tempo di suonare due o tre brani ed aveva in pratica già deciso.

Mi unisco a loro, lo faccio, è la volta buona.

Con il tempo non si sarebbe mai pentito di quella scelta, non avrebbe mai rinnegato una sola nota suonata o foto scattata. Nonostante la storia si sarebbe poi svolta in modo diametralmente opposto alle sue aspettative, Sakura non avrebbe pianto lacrime di coccodrillo, né scaricato la colpa sulle persone che fino al giorno prima dell’addio erano stati i suoi compagni ed amici.

E che lo sarebbero rimasti per sempre.

Ma mentre si preparava ad occupare la sua nuova casa inaugurando anche la sua nuova vita, il futuro non lo impensieriva più di tanto, e comunque gli era precluso conoscerlo.

Gironzolava per casa facendo domande su domande, senza accorgersi di rispondersi anche da solo però.

“Ehi, sicuro di stare bene? L’altra sera non eri così silenzioso!”

In effetti, no. Anzi, alla cena di qualche sera prima quasi non avevano fatto aprir bocca a nessuno, avevano chiacchierato e chiacchierato e chiacchierato fino a notte inoltrata, insensibili al buon odore del sukiyaki, alle occhiate divertite di ken e Kodoma-san ed a quelle meno amichevoli di haido.

Avevano parlato di musica, ovviamente, e delle tante conoscenze che – strano ma vero- avevano in comune, non solo tra i Dead End ed i roadie che li accompagnavano.

Sakura era rimasto piacevolmente stupito nel rendersi conto di quanto aveva in comune con quei ragazzi, nonostante all’apparenza fossero diversissimi da lui; e non era solo l’amore per la musica ad avvicinarli, ma la concezione stessa che ne avevano, il rispetto con cui la trattavano … O forse, semplicemente, era rimasto folgorato da quello strano misto di orgoglio ed umiltà che li vedeva sforzarsi fino allo stremo per raggiungere la perfezione compositiva senza per questo smaniare per diventare professionisti: più che di “successo” parlavano di “visibilità” della loro musica, più che di soldi della possibilità di avere attrezzature e registrazioni migliori. Non gl’importava nulla nemmeno di scambiare Osaka per la capitale, ed era per quell’esatto motivo che si era dovuto trasferire lui; in fondo era anche giusto.

Ma il suo compagno sembrava aver esaurito le parole.

Avrebbe scoperto solo in seguito quanto tetsu fosse in realtà di carattere naturalmente laconico, di una timidezza schiva e maldestra radicalmente opposta a quella ansiosa e bambinesca di haido, che gli era sembrato di primo acchito anche il meno ben disposto nei suoi confronti.

Apparenze appunto.

Avevano vissuto insieme quasi tre mesi, solo loro due, prima di dover decidere per un’altra sistemazione, perché lo studio della Danger Crue – benedetta Danger Crue - era a Tokyo e quello non poteva spostarsi come un batterista compiacente.

E dunque il grande salto.

Ma torniamo ai quei tre mesi: prima d’allora Sakura non aveva mai fatto veramente caso a molti piccoli aspetti del quotidiano che sembravano impensierire tanto soprattutto tetsu e haido. Forse perché l’appartamento in cui viveva a Tokyo era comunque dei suoi genitori e quindi non pagava l’affitto. E c’era anche il piccolo assegno per le spese impreviste che gli passava sua madre ad integrare i suoi guadagni comunque tutt’altro che modesti, senza sapere che faceva altrettanto anche Hidetaka. Caro il suo fratellone adorato.

Lui le bollette era sempre riuscito a pagarle senza problemi, insomma, le scadenze di fine mese non gli avevano mai messo paura.

Non si aspettava le cose non fossero così per tutti i suoi amici.

Com’era possibile non riuscire a mantenersi con la musica per Sakura era un mistero, lui non aveva mai davvero fatto altro nella sua breve vita, né aveva mai pensato di dedicarsi ad altro d’altronde.

Nondimeno haido sembrava sempre stravolto, il che lo rendeva semplicemente più lamentoso che veramente loquace. E dunque postulava attenzioni e asilo politico nel loro – di tetsu insomma - appartamento, perché quando gli girava male nemmeno sua madre o la sua ragazza riuscivano davvero a tirarlo su.

Non come sentirsi la bambola il burattinaio il genio la musa del leader, comunque.

Quell’aspetto del complicato rapporto tra il bassista ed il cantante gli era subito balzato agli occhi, ma guai a prenderli in giro in tal senso: se haido si chiudeva a riccio in un ostinato silenzio accusatorio, le rappresaglie di tetchan erano sempre puntualissime e fantasiose.

E non era piacevole ritrovarsi le sigarette tagliate quando non c’era un distributore in giro nemmeno a pagarlo a peso d’oro.

Per il resto la convivenza non si era rivelata spiacevole, tutt’altro.

Era persino divertente veder girare tetsu come una trottola cercando di star dietro a tutto – dalle prenotazioni per lo studio di registrazione alle pulizie - senza che gli venisse in mente di chiedere aiuto a qualcuno di loro.

Le chiacchierate da pausa sigaretta in veranda – che fumare in casa avrebbe innescato una reazione a catena da fissione nucleare- con ken e haido, poi, erano servite parecchio a rompere ulteriormente il ghiaccio e a conoscersi meglio: e haido, una volta avviato, risultava persino difficile da arginare.

Fu solo una la ragione per la quale Sakura decise di trasferirsi comunque in un altro appartamento, nonostante sapesse benissimo lo avrebbe abitato al massimo per un paio di settimane: continuava a sentirsi un ospite.

Non che tetsu lo trattasse male o con fastidio, quello no. Avevano deciso di dividere equamente le spese, certo, ma era rimasta l’unica concessione, se vogliamo fatta per cause di forza maggiore. Mancanza di liquidità, insomma, che fare il commesso in un negozio di dischi poteva risultare divertente, ma non certo molto renumerativo.

tetsu continuava a stressarsi per cercare di far tutto prima che lui potesse anche solo alzare un dito, si sforzava di prevenire ogni problema, di fargli quanto più spazio possibile.

Senza perciò farlo davvero entrare nei propri.

Benché soffrissero entrambi di una fastidiosa insonnia, era capitato raramente avessero riempito insieme le lunghe ore di veglia notturna; finiva spesso per ritrovarsi in salotto a suonare la chitarra da solo mentre tetsu guardava qualche anime in camera o fingeva di dormire. Perché sapeva benissimo fingesse, ci provasse almeno. I primi tempi era stato quasi divertente, ma ben presto era rimasta solo la frustrazione di una solitudine imposta che non capiva e non voleva per lo stesso motivo.

Eppure aveva creduto di piacergli, insomma, non si passano otto ore al telefono con chiunque, no? Non sapeva onestamente cosa pensare e non riuscire a capire lo stressava. Il doverci pensare tanto, soprattutto, lo turbava.

Probabilmente era stato quell’impasse scoraggiante e persino vagamente sentimentale a dargli un’impressione di distanza che invece non provava mai con ken o con haido, che era talmente schietto da avergli persino detto che, quando si erano conosciuti, si era sentito in soggezione, perché sembrava un tipo tanto figo e freddo, lui.

Aveva riso talmente tanto da farlo vergognare anche più di quanto non si fosse procurato per conto proprio con quel pensiero semplicemente ridicolo. Ma appunto, le apparenze avevano ingannato un po’ tutti.

sakura non era un figo, gli piaceva troppo divertirsi per poter davvero pensare di perdere tempo a darsi un tono. Non si rendeva conto di esserlo per quello stesso motivo.

Così come non si rendeva conto quanto entrava dentro alle persone, perché aveva solo ventidue anni ed il suo mondo interiore era a tratti di una prosaicità persino imbarazzante.

Da solo, comunque, non ci era rimasto troppo a lungo. Perché con il nuovo anno, causa registrazioni e prove, avevano preso ad abitare a Tokyo anche per diverse settimane di fila in Weekly Mansion di dubbio gusto e dalla dubbia fama, anche. Insieme, ovviamente, che spendere per quattro appartamenti –soprattutto per archi di tempo tanto brevi e con la possibilità di affittare un loft arredato- sarebbe stato troppo dispendioso e francamente da stupidi.

Se mai sakura aveva benedetto la sua scelta di unirsi ai tre ragazzi di Osaka già dalla prima settimana di rodaggio passata in un Kenkou Land – e di chi diavolo era stata l’idea? Probabilmente la proposta era stata fatta mentre erano ubriachi e da ubriachi la mozione era stata accolta - a fare il bagno e a cazzeggiare come bambini dell’asilo in vasche di acqua bollente, aveva ulteriormente rafforzato la sua decisione in quelle settimane di convivenza a quattro.

Perché si era divertito. Tanto.

Anche quando il televisore di una di quelle stanzette – dove? A Ota? O in quella specie di bettola di Shinjuku in cui, quando gironzolavano nei dintorni dopo il coprifuoco, persino Ken veniva abbordato e non solo da ubriachi? - era finito in frantumi per uno stupido gioco organizzato per spezzare la noia, di quelli che nascono spontaneamente quando quattro ventenni vengono tenuti troppo a lungo tra quattro mura.

Ma fuori pioveva, dovevano pur fare qualcosa.

Dopo si erano sentiti dei deficienti. O meglio, tetsu si era sentito un deficiente, come se quello schermo l’avesse fatto a pezzi da solo. Aveva dato dell’idiota a chiunque, ma era anche abbastanza evidente l’unica persona con cui ce l’avesse era allo stesso tempo quella che stava parlando.

Quante complicazioni.

A sakura non piacevano le complicazioni, per lui tutto doveva rimanere semplice come la musica, perché non c’è arpeggio che tenga, non c’è virtuosismo di sorta: la musica la si possiede come una donna, come l’immagine di se stessi. Non è un’eco e non è un’idea, la musica è l’Io che esplode dentro, è la messa per iscritto di una parte dell’anima del musicista.

Ma proprio per quello, sakura, non aveva capito che la musica poteva anche diventare pericolosa. Per lui avrebbe rischiato di diventare fatale, ma allora neppure lo immaginava.

 

Nessuno in realtà avrebbe potuto immaginare cosa sarebbe successo da lì a tre anni – solo tre anni -, nessuno si sarebbe aspettato di veder crescere tanto in fretta l’arco colorato teso da Osaka e nessuno avrebbe potuto anticipare a cosa quella crescita repentina avrebbe portato.

Perché non tutti crescono allo stesso modo ed allo stesso ritmo, non tutti soprattutto vogliono farlo.

Se tetsu e haido, in fondo, grandi lo erano diventati molto presto sia pure per motivi diversi e ken ci era stato costretto persino in modo piuttosto brusco all’alba dei suoi ventitré anni, sakura quel bisogno non l’aveva mai sentito. Peggio, credeva di esserlo con la spocchia di tutti gli adolescenti troppo amati e viziati per la stessa ragione.

E dunque quei tre anni erano scivolati via come un sogno ed un incubo insieme, perché all’eccitazione della musica, dell’aver trovato finalmente delle anime affini, si era accompagnata per sakura la paura di vedersi scivolar via tutto dalle mani in nome di una puttana chiamata fama.

Quella che sul finire del dicembre 1995 sembrava la chiusa di un’annata da incorniciare nei fatti, per qualcuno era diventato l’inizio di speculazioni tutt’altro che piacevoli.

Il Budokan, avevano suonato in un Budokan stracolmo lasciando tutti senza fiato. Era stato bellissimo per tutti, anche per sakura, quello era il tempio della musica giapponese, riuscire a riempire l’Arena voleva dire 15.000 volti e voci e cuori a battere tutti insieme.

Voleva dire aver espugnato la vetta.

Ma, per quanto l’adrenalina avesse reso sakura euforico al pari degli altri per quel traguardo, subito dopo il concerto subito dopo i festeggiamenti subito dopo la sbronza colossale che l’aveva messo knock out, erano venuti i cattivi pensieri.

Che cosa stiamo facendo? Che senso ha tutto questo? La gente grida e io non sento più la musica.

Il ventisette dicembre 1995, nella memoria di sakura, qualcosa si era spezzato, e mesi dopo tutti ne avrebbero pagato le conseguenze.

“Sei in ritardo.” “Lo so.” “Dovevamo registrare la parte ritmica.” “Lo so.” “Mi hai lasciato da solo e…” “Oh, andiamo! Sei grande e sei il leader, piantala di parlare come una ragazzina. Ti ho detto che lo so, mi dispiace, va bene? Scusa Tetsuya, sono in ritardo.” “…”.

sakura non riusciva a sopportare più il viso di tetsu. Era un bel po’ che non riusciva quasi più a guardarlo in faccia, così come non riusciva a stare troppo a lungo con gli altri due.

Ma il nuovo anno era cominciato, le scalette erano state predisposte, le registrazioni programmate: non si era ancora spento l’eco di Heavenly che già stava prendendo forma qualcosa di nuovo. Sembravano una catena di montaggio.

Appena tre anni prima sembravano fidanzatini felici, quattro idioti che ballavano su un Arcobaleno dai colori ancora incerti ed un po’ opachi.

Che però lui preferiva.

Perché le cose erano cambiate in quel modo? Perché avevano preferito la tranquillità di un contratto matrimoniale ad una festosa convivenza?

Le cose non dovevano andare in quel modo, non era per quello che si era unito al gruppo, non era quello che aveva immaginato quel freddo autunno del 1992.

Lo avevano raggirato, si sentiva raggirato.

tetsu aveva preso a suonare il suo basso senza troppa partecipazione, gli altri in studio nemmeno avevano aperto bocca sulla questione.

Era in ritardo, e allora?

Nemmeno haido aveva detto nulla, ma nel suo caso era scontato, perché haido sapeva.

O meglio, l’aveva intuito, perché non passi ore giorni settimane con una persona senza conoscerla almeno un po’. E haido era uno che osservava parecchio nonostante fosse una mezza talpa, quindi sapeva eccome perché era sempre in ritardo, più in ritardo del solito, e sapeva che non c’entrava una donna quella volta.

Non era una donna a tenerlo lontano dallo studio e dal lavoro in quel periodo, era il lavoro stesso.

sakura aveva cominciato a bere più del dovuto e del normale, ma quello era solo un bene perché diventava anche più allegro e non si notavano più di tanto gli sbalzi di umore che lo coglievano invece in studio.

E in studio ci erano tornati da nemmeno due mesi, come avrebbe retto l’intero processo creativo per terminare il nuovo album?

Si era avvicinato alla batteria cercando macchinalmente l’astuccio delle sue bacchette nella tracolla, senza ovviamente trovarle. Le aveva dimenticate. Di nuovo.

Maledizione.

Non si era accorto di come lo guardavano i suoi compagni di band, di come lo guardava chiunque in studio.

tetsu non gli aveva risposto per quell’unica ragione, in effetti: troppi testimoni.

E quando hai un certo tipo di consapevolezza che ti martella il cervello non puoi esternarla al diretto interessato davanti a tutti senza darti anche la zappa sui piedi. Ci sarebbero stati il tempo e il luogo adatti.

Almeno tetsu lo credeva.

In realtà non ci sarebbe stato tempo per un bel niente, perché il loro tempo l’avrebbe mangiato un’impasse infinita. Un’impasse in cui sarebbero caduti i loro cuori e le loro menti, mentre i loro corpi sarebbero stati sballottati in giro per il Giappone e per il mondo.

Divertente.

Comunque tetsu non aveva detto niente limitandosi a rimuginare sul da farsi in silenzio, perché urlare con sakura non sarebbe servito a niente, men che meno quando non aveva nessuna voglia di scherzare e dunque di rispondergli con un ghigno ed una battuta stupida delle sue.

Eppure avrebbe dovuto fare qualcosa per punirlo svegliarlo riaverlo tra loro, perché non riusciva a sopportare quel silenzio ostinato e accusatorio che lo assordava: tetsu non accettava accuse di cui non capiva e non vedeva il fondamento.

Accuse, tra l’altro, che sakura non aveva ancora ben chiare in mente, allora, che forse aveva paura di formulare finanche nella propria testa.

Di chi è la colpa di tutto questo? Non voglio annegare tra i colori del mare di Osaka, rivoglio la tranquilla oscurità notturna della mia baia di Tokyo. Perché tentate di illuminarla a giorno, doveva essere un fatto privato, doveva essere la nostra musica. Solo nostra e basta. Andate via tutti…

“sakura…” “Che vuoi haido?”

Non si era accorto di quando il cantante gli si era avvicinato, l’aveva sorpreso alle spalle come uno stupido.

“Che diavolo stai combinando?” “Sto cercando le bacchette.” “Non fare lo scemo, hai capito quel che voglio dire. Questa storia non mi piace, non mi piace quel che stai facendo e…” “Abbassa la voce. E non deve piacere a te quel che faccio o non faccio, d’accordo?” “D’accordo un corno sakura, non provare nemmeno a tenermi fuori, non te lo permetto, chiaro? Se c’è un problema parla, mi rintroni di chiacchiere a vanvera, fallo per qualcosa di sensato una volta tanto.”

Yasunori l’aveva fissato senza guardarlo davvero per un lungo istante, soppesandolo, cercando forse una risposta appropriata per evitare di offenderlo. Allora aveva ancora di queste delicatezze.

Ma non aveva fatto in tempo ad aprir bocca che un terzo interlocutore si era unito al loro bisbigliare stizzoso.

“Che state facendo, siamo già in ritardo.” “Maledizione tetsu, lo sappiamo, l’hai già detto!” “Datti una calmata sakura, ora come ora non sei nemmeno nelle condizioni di fingerti offeso perché è colpa tua. Comunque lasciamo perdere, ormai il danno è fatto. Stavo pensando ad un’altra cosa, piuttosto.”

Era stata quell’affermazione l’inizio della fine?

Per quel che riguardava tetsu, probabilmente sì, perché mille volte si sarebbe maledetto in futuro per aver dato quell’ingiunzione mascherata da suggerimento. Il fatto avesse avuto solo buone intenzioni non contava nulla, la prima tessera del domino era stata toccata e fatta cadere: sarebbero seguite tutte le altre, dritte fino al cuore.

Scrivi una canzone. Scrivi una canzone, sakura.

Ecco cosa gli aveva proposto. Di musica ne avevano abbozzata parecchia, ma c’era uno spartito di haido che sarebbe stato adattissimo al suo stile. Non era stata quella la ragione principale per la quale aveva proposto la musica scritta da haido in realtà, ma gli stava offrendo un pretesto, stava tacitamente chiedendo ad haido – a haido l’amico, non il cantante - di fare qualcosa, di parlargli, di approfittare della musica per arrivare al nocciolo del problema.

E ce l’avrebbe fatta eccome, haido avrebbe svelato il mistero ed avrebbe costretto sakura a scrivere la sua confessione.

E la loro condanna.

Perché in fondo quella canzone sarebbe stata la presa di coscienza di Yasunori, che per un po’ avrebbe smesso di essere sakura e, soprattutto, avrebbe smesso di essere yacchan.

Specialmente per qualcuno.

Gennaio era arrivato se n’era andato con la stessa velocità, ma senza portare via il freddo di un inverno che sembrava durare da troppo tempo: sakura aveva freddo e non aveva nemmeno voglia di suonare, figurasi di scrivere qualsiasi cosa. Ma haido prendeva sempre fin troppo sul serio ogni parola di tetsu, talmente tanto da non raccogliere nemmeno le battute ostili mascherate da scherzo del batterista. O forse fingeva solo di non capire, con haido non c’era mai nulla di sicuro.

Comunque sia l’aveva costretto ad una ulteriore sessione di lavoro, aveva persino prenotato uno studio vicino casa di sakura, aveva portato spartiti e blocchi e l’aveva persino tempestato di chiamate per ricordargli di essere puntuale.

La puntualità era un miracolo per il quale Dio – o chi per lui - ancora non si era attivato, ma si premurò di esserci comunque in orario umano. In fondo era lavoro ed il lavoro andava fatto. Piacesse o meno.

Il calvario durò meno del previsto, per sakura come per haido.

Il cantante era maledettamente bravo con le parole quando metteva da parte la sua timidezza, ed a quel punto della loro amicizia, con il batterista aveva reciso decisamente ogni filtro comunicativo, quindi non gli fu difficile entrare subito in argomento.

Peccato nemmeno lui avesse intuito quanto profonda fosse la ferita che si scorgeva sotto la patina di quel liquido giallino e tiepido cui il suo migliore amico aveva delegato un equilibrio che non riusciva più a trovare altrove.

Altrimenti forse avrebbe disobbedito a tetsu ed avrebbe impedito a sakura di prendere in mano la penna.

Purtroppo o per fortuna, haido, ma anche tetsu e ken, erano cresciuti in un mondo diverso da quello di sakura, avevano sempre vissuto la musica in modo diverso. Soprattutto, non si prendevano così tanto sul serio, mentre avevano del mondo esterno una visione completa e disincantata.

Avevano quasi tutti ventisette anni, erano cresciuti ed erano uomini, loro.

haido credeva lo fosse anche sakura.

haido si sbagliava.

Perché chiedendogli di scrivere una pagina di diario aveva costretto sakura a mettere per iscritto qualcosa che non aveva avuto fino a quel momento il coraggio di pensare coerentemente. Chiedendogli di mettere in versi la sua frustrazione gli aveva chiesto anche di visualizzarne le cause.

haido si era accorto troppo tardi di quel che stava succedendo, peggio, di quello che era già successo, a sakura: il testo che si era ritrovato tra le mani lo aveva lasciato senza parole e senza emozioni.

Una volta eravamo felici sakura. Com’è potuto succedere le cose siano cambiate così?

La risposta non gli era piaciuta, perché era stata anche il titolo di quella lirica velenosa ed ingiusta.

Good morning, hide. Buongiorno, haido: sei tornato dal mondo dei sogni, finalmente.

Ed era stato decisamente un brusco risveglio per tutti.

Nessuno in studio era tanto stupido da non capire a chi fossero riferiti quei versi; non lo erano i vari collaboratori occasionali così come non lo era Okano che li aveva anche, e senza mezzi termini, sconsigliati di prendere in considerazione quella canzone per il nuovo album.

“Ci sono altre tracce, questa al massimo la si può arrangiare per un b-side, ma deve essere limata: un testo del genere è un autogol che ancora non potete permettervi. E se continua così, difficilmente potrete mai.”

A quelle parole nessuno aveva osato fiatare, nemmeno sakura che pure era la pietra dello scandalo. Da parte sua, haido non aveva nemmeno alzato la testa, ma aveva continuavo a fissarsi le unghie. Solo tetsu non guardava Okano, ma sakura. Se era arrabbiato, non lo si notava, se stesse provando qualsiasi altro sentimento nei confronti del batterista, della situazione, della vita in generale, nessuno avrebbe potuto dirlo. E quell’apparente calma risultava per sakura peggiore di un trip riuscito male.

Voleva una reazione, una qualunque semplice reazione da parte degli altri. Non gl’importava davvero averla suscitata in Okano o in Jack, loro nonostante tutto erano pedine marginali: era i suoi compagni di band che aveva inteso scuotere.

Ma non stava succedendo niente. haido non fiatava, ken non fiatava, tetsu non fiatava.

tetsu continuava solo a fissarlo senza espressione: tentava forse d’intimidirlo?

Non sono pentito di quello che ho scritto, leggete maledizione, leggete! Perché non riuscite a capire? Non era questo che volevamo, loro ci stanno imbrogliando! Aprite gli occhi, datemi retta, non ascoltateli, torniamo a fare quel che facevamo prima, torniamo ai vecchi tempi, torniamo alle live house, torniamo alle lettere che riuscivamo a leggere, torniamo indietro finchè possiamo…

“No, va bene così. Dobbiamo lavorarci ancora ovviamente, ma a me piace. È dentro.”

L’orgoglio era sempre stato il miglior pregio di tetsu: quando alle medie i ragazzini più grandi – ma anche i suoi coetanei – lo prendevano in giro per i suoi capelli troppo lunghi o la camicia della divisa che portava fuori dai jeans, per quel suo atteggiamento impassibile da eroe d’altri tempi così in contrasto con le braccine scheletriche e le orecchie a sventola, tetsu non aveva mai pianto, mai recriminato, mai nemmeno abbassato gli occhi. Non si era mai piegato alle prepotenze degli altri arroccato nella convinzione di essere nel giusto e che alla fine sarebbe stato lui a guardare tutti dall’alto, e aveva avuto ragione. Allora.

L’orgoglio si trasformò nel suo peggior difetto mentre posava gli occhi sulla canzone di sakura: davanti a quelle accuse evidenti era tornato il tredicenne ossuto con le orecchie a sventola che s’impuntava contro il sistema per difendere il suo sacrosanto diritto di vivere diversamente dagli altri ed emergere dalla massa.

Fu l’orgoglio – peggio: il suo orgoglio ferito – a non fargli notare il velo di paura che si nascondeva dietro l’apparente durezza dello sguardo di sakura, se l’avesse anche solo intravisto, forse la storia sarebbe andata diversamente, perché tetsu non era senza cuore come sarebbe piaciuto credere a tutti, tetsu a sakura voleva bene, gliene voleva tanto da non avere il coraggio di affrontare direttamente il problema ed affidarsi ad un altro, proprio lui che non delegava mai nulla a nessuno.

O forse no, perché il fato trova sempre nuove strade per compiersi, le deviazioni possono solo rallentare il suo corso, mai davvero interromperlo. La polverina bianca che sakura scioglieva su un cucchiaino ormai nero come la pece non era altro che una piccola spinta ad una ruota che girava sempre più velocemente verso quel ventiquattro febbraio millenovecentonovantasette: la musica del caos seguiva la sua partitura, era jazz dalle armonie inestricabili.

Quella data, però, era ancora lontana, in quel momento non riuscivano a concepire un futuro più lontano dell’uscita del prossimo album, tetsu era sempre stato fermamente convinto che, per camminare dritti senza inciampare, ci si dovesse concentrare su un passo alla volta.

Ma non si può camminare dritti con un corpo mutilato, l’arcobaleno non è tale se un colore si perde tra le nuvole.

E dunque Good morning, hide fu inserita tra le candidate per il nuovo album, fu scelta per il nuovo album che haido, con una smorfia triste, propose di chiamare True: la verità, in fondo, era tutta lì dentro.

Verità e bugie, però.

Perché, insomma, sakura non odiava i suoi amici, non i avrebbe mai odiati, non odiava neppure tetsu che pure non gli aveva mai concesso quell’intimità implicitamente promessagli una tiepida sera d’autunno davanti ad un sukiyaki ed agli sguardi dei loro compagni. Non odiava tetsu per averlo illuso con il miraggio di un’amicizia che gli era invece stata offerta da ken e haido, non lo odiava per le decisioni che prendeva per il gruppo, per il suo essere sempre così inutilmente irreprensibile, quasi marziale, non lo odiava perché l’aveva anche visto piangere e ridere e giocare come un bambino. Non lo odiava, come non odiava ken o haido, perché sapeva in fondo non fosse colpa loro, quella era solo una prova del destino e l’avrebbero superata. Era sicuro l’avrebbero superata, avrebbero capito che lui aveva ragione.

Quella granitica – ed irrazionale – convinzione vacillò appena un po’ solo l’undici aprile millenovecentonovantasei, quando tetsu gli crollò davanti come un frutto che si stacca dall’albero. E l’impressione che ebbe in un primo momento fu proprio quella, di un frutto – o di un fiore – che cade dal ramo più alto: un fruscìo lento di colori smorti, una metafora tetra.

Era stato un collasso da stress a costringere tetsu a letto con la febbre altissima proprio nel bel mezzo di un tour da tutto esaurito. Iperlavoro. Perché in fondo tetsu non svolgeva solo i compiti che gli spettavano, tetsu faceva tutto, tetsu non dormiva la notte per controllare le scalette, i siti dei concerti, per parlare con la casa discografica e i manager, spuntare per tutti loro le condizioni migliori. Non era stato un frutto maturo a cadere, ma una foglia vizza.

sakura era buddista, credeva fermamente nei precetti di quella filosofia antica che somigliava in alcuni punti – e sinistramente – a quel cristianesimo che aveva un po’ rovinato la vita anche a tetsu. La colpa, il peccato, l’espiazione, erano concetti radicati in entrambi come un’orchidea parassita ed asfissiante che ad ogni tentativo di liberarsene stringeva ancora di più le tentacolari radici attorno all’ospite.

L’undici aprile del millenovecentonovantasei sakura si pentì di aver esternato il suo rancore, tetsu di averlo costretto: fu un senso di colpa di breve durata, una pace illusoria, ma forse proprio per quel motivo, estremamente ricca e piacevole.

Perché il resto del tour andò benissimo, si divertirono come matti e ripresero a giocare e a prendersi in giro, quasi come un tempo. Per un po’, ma sakura aveva addirittura pensato che forse – solo forse – era lui a sbagliarsi, che in fondo quel carnevale poteva anche andare bene se tutti erano tanto felici. Poi però li avevano spediti per l’ennesima volta in tv nell’ennesimo programma musicale in cui non si parlava mai di musica e la mano era corsa di nuovo a cercare l’accendino. E non per accendersi una sigaretta.

Del ventiquattro febbraio millenovecentonovantasette sakura ricorda tutto, dato che – stranamente: in quegli ultimi mesi aveva le braccia sottili e bucherellate, più che ai rami di un ciliegio somigliava ad un foglio scarabocchiato – era anche estremamente lucido. Ed era lucido perché l’ultima dose aveva quasi completamente cessato il suo effetto, ma non era passato ancora abbastanza tempo perché la rota si facesse sentire. Era lucido ed era nel suo appartamento e stava litigando con haido che ormai da settimane aveva smesso di pregarlo o far finta di girarsi dall’altra parte, ma aveva preso apertamente ad insultarlo.

Ma che ne sapeva lui? Lui non aveva mai avuto bisogno della siringa, per placare le sue ansie gli bastavano le carezzine di una puttana a caso – che, andiamo, non si accorgeva gli andassero dietro solo perché era hyde? – o di tetsu, ma dov’era la differenza? Probabilmente lui era la più puttana di tutte, no? Tutti loro erano diventati puttane, ma lui era un uomo, un uomo, cazzo, e non se lo faceva mettere nel culo per poi sorridere e ringraziare, non lui, non sakura.

E non sapeva cosa altro fare se non aggrapparsi alla pace lattiginosa che solo quel paradiso chimico riusciva a dargli, perché aveva anche troppa paura di guardarsi allo specchio e dirsi che sì, in fondo l’ago era un buon compromesso, le palle per mandare tutti al diavolo per davvero, in fondo, non le aveva. Non riusciva a decidersi a perdere tutto.

Perché quella sarebbe stata l’unica scelta plausibile, l’unica che l’avrebbe liberato, ma come fare? Lasciare il gruppo avrebbe significato arrendersi, darla vinta a loro. Lasciare il gruppo avrebbe significato abbandonare haido e ken, persino tetsu. E non ne aveva per niente voglia.

In realtà sakura non riusciva a formulare un pensiero coerente da diversi mesi, ma anche di quello non era cosciente. Pensando di avere tutto perfettamente sotto controllo, si lasciava vivere come i petali di un fiore nel vento.

La ruota del suo destino non girava più ritmo cadenzato del rock, niente più dissonanze jazz: la triste melodia di un blues mascherava la sua schiavitù e la sua impotenza.

Quindi, quel ventiquattro febbraio millenovecentonovantasette, sakura era presente a se stesso e all’ira di haido, o forse era semplicemente la sua preoccupazione. Non lo stava nemmeno chiamando yacchan o saku-chan o con uno di quei nomignoli che avevano preso ad usare: lo insultava e lo chiamava Sakurazawa. Aveva giusto cominciato ad alzare la voce esasperato quando avevano sentito bussare alla porta.

La polizia in casa gli aveva trovato poca roba – uso personale – ma tanto era bastato a fregarlo: ed era purtroppo abbastanza lucido da registrare tutto, da capire tutto.

Yasunori Sakurazawa era buddista e quello lo aiutò nei tre mesi di riabilitazione cui lo costrinse la corte che lo condannò anche a sei mesi di carcere per possesso di eroina.

Yasunori Sakurazawa non dimenticherà mai lo sguardo fermo di sua madre che lo saluta sull’uscio della cella, occhi che lo incitano a resistere a non cedere a nulla, lupa fiera ed orgogliosa.

Yacchan non dimenticherà mai le lacrime di haido al telefono che, in pieno crollo nervoso, gli dice che la Sony ha vietato a tutti loro di avere contatti con lui, che non possono più chiamarlo, che devono cancellarlo, ma che lui non lo farà mai.

Yacchan non dimenticherà mai gli ultimi regali di ken, un pacchetto di sigarette e un libro di Murakami ripienato di ritagli di Playboy e rimproveri giocosi.

Yacchan non dimenticherà mai l’ultimo incontro di lavoro con Tetsuya Ogawa, perché non aveva più il coraggio – né, forse, il permesso - di chiamarlo tetchan.

La ruota aveva terminato il primo spartito e sakura riusciva di nuovo a sentire la musica, un blues malinconico che intonava la perdita della sua innocenza o, chissà, solo della sua ingenuità. Ma ai vibrati tristi del sassofono si stavano unendo pian piano anche gli scricchiolii cadenzati dei cimbali. O forse era solo il rumore delle sue ossa che si stiravano, era la musica della sua crescita.

 

   
 
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