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Autore: My Pride    03/04/2011    3 recensioni
Volgi lo sguardo al cielo e osservi, attento;
torni poi a guardare la foglia, scoprendo che il bruco è divenuto farfalla.

In ginocchio su quella strada lastricata, dove la pioggia caduta ore addietro aveva reso lucida la pavimentazione, sentì anche i suoi occhi inumidirsi di lacrime.
Non di nuovo, pensò angustiato, non di nuovo, per l’amor del Cielo.
[ Prima classificata al contest «Competition for long-fic published» indetto da Insana e valutato da NonnaPapera ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Scena Drammatica al contest «The Thousand and One Nights» indetto da Prior.Incantatio ]
Genere: Drammatico, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Un oscuro angelo_5
ATTO V: LONDRA › INGHILTERRA, 1888
NIGHT IN GALE [1]

Piangi e ti disperi,
cancellando tutto il resto;
ma cadi e ti rialzi
ad un passo dalla fine.

    Le strade apparivano desolate, a quell’ora della notte.
    Non un suono si levava ad infrangere quel silenzio, rendendo la quiete quasi irreale. Camminando accanto a quei due giovani per quei distretti bui, sorpassando gente e persone che avevano un'aria più losca dei suoi accompagnatori, persino al signore di Beul an latha quel mondo appariva etereo, quasi distaccato dalla comune concretezza alla quale era abituato. Le poche luci lì presenti erano così offuscate e cupe da far sembrare ancor più fattibile quella sensazione, tanto che, mentre continuava ad avanzare, il gelo e l’angoscia avevano cominciato a farsi sempre più spazio nel suo animo.
    Avevano lasciato la ricca villa non più d’un’ora addietro, uscendo insieme a quegli altri ospiti. Non avevano preso strade simili, separandosi; lui era salito in carrozza con Sir William e il suo giovane fratello, osservando l’allontanarsi delle restanti creature per quanto gli era stato concesso. L’unica a degnarlo di una vera e propria attenzione era stata la ragazzina di nome Juliette, che gli aveva rivolto un sorriso e mostrato le zanne prima di scomparire. In religioso silenzio, poi, quella carrozza era partita; si erano fermanti non molto lontano dal East End
[2], un quartiere che il nobil uomo non aveva mai visitato per ovvi motivi. Era lì che si concentravano i più poveri fra i distretti di Londra, e sembrava, d’altronde, che fosse in quella zona che il serial killer agisse. Adesso si trovavano a vagare proprio da quelle parti, ma l’unico che temeva qualcosa era lui. Non lo dava a vedere a causa del suo orgoglio, anche se faceva continuamente guizzare gli occhi da una parte all’altra. Non aveva, inoltre, osato chiedere il perché di quella sosta e il loro andare a piedi, guardandosi da solo le spalle poiché sapeva che di quegli esseri non c’era da fidarsi.
    Si ritrovarono ben presto a svoltare in un vicolo, dove vaghi suoni e rumori gli giunsero alle orecchie: risate sguaiate, musica proveniente probabilmente da una tavernetta da quattro soldi; riuscì persino a distinguere l’odore del piscio e del liquore annacquato, storcendo il viso in una smorfia per il tanfo. Vide poi, qualche attimo dopo, i primi moribondi gettati ai cigli delle strade o adagiati contro i muri, sudici quanto il posto che li circondava se non di più. Bambini dai vestiti logori frugavano fra le vesti dei sicuri cadaveri, scappando poi veloci con il misero bottino ottenuto. Non più di qualche sterlina, molto probabilmente, ma che per loro sembrava equivalere anche a troppo.
    Lord Dellinton si perse negli occhi di un uomo  - stranamente distinto, dato il luogo in cui si trovavano - che gli passò accanto e distolse subito lo sguardo, adocchiando solo di sfuggita i volti marmorei dei suoi due accompagnatori: sembravano l’uno più indifferente dell’altro, come se quelle fossero cose che vedevano ogni singola notte. Fu a quel punto che capì il motivo per cui, forse, si trovavano lì. Dovevano sfamarsi e l’avevano portato a caccia. Si tenne per sé una nuova domanda, continuando a seguirli senza proferir parola. Non sembravano nemmeno molto propensi alla conversazione, in quel momento.
    Quando i due giovani si fermarono, trovando le loro vittime, lui guardò ancora una volta altrove per non vedere quello sfacelo; gli era bastata la scena a cui aveva assistito in casa per fargli comprendere quel perverso meccanismo. Un pensiero lo fulminò nel sentire comunque quel succhiare e deglutire e gli ultimi aneliti di vita di quel povero disgraziato: anche quando era lui a fare la parte del cibo quel vampiro aveva in volto quella stessa espressione? L’aveva vista solo di sfuggita, ma sul suo viso aveva letto un qualcosa paragonabile solo alla lussuria. Era questo ciò che provavano i vampiri nell’uccidere? Un qualcosa di simile alla sensazione che derivava dall’atto sessuale? Il solo rifletterci gli fece arricciare ancora una volta la punta del naso, cercando inoltre di resistere all’impulso d’allontanarsi per scappare via. Non aveva la benché minima idea di dove si trovasse; sarebbe stato solo preda di poco di buono, dato il ricco modo in cui era vestito.
    Trasalì quando sentì una mano su una spalla, ritrovandosi ad osservare gli occhi verde ambra che appartenevano al più giovane dei due. L’altro si stava ancora nutrendo, cingendo la sua vittima in un abbraccio letale e possessivo. «Sei ancora convinto che questo nostro modo d’agire sia sbagliato?» gli domandò con voce sicura, senza la benché minima traccia di quel sadico divertimento che sembrava caratterizzare invece il fratello maggiore.
    L’uomo non rispose, ma s’affrettò a non guardare oltre quelle iridi ferine. Nemmeno il giovane disse altro, come se non gli fosse mai interessata una vera e propria risposta; tornò invece accanto al fratello, lasciando il signore di Beul an latha ad attendere non molto distante. Fu solo quando lasciarono quei vicoli e salirono nuovamente sulla carrozza - il cocchiere li aveva attesi fin a quel momento - che il Lord riacquistò quel minimo di calma e razionalità che lo caratterizzavano.
    Si sedette su quel morbido sedile dopo che si furono accomodati gli altri due, attendendo ancora una volta che partissero alla volta della residenza che occupava lì a Londra. C’era un qualcosa che per lui non quadrava, nell’aria. Se fossero gli sguardi o il silenzio di William e Arthur non avrebbe saputo dirlo con certezza nemmeno lui. Fatto stava che, quando arrivarono - poco prima che scendesse per lasciarsi finalmente alle spalle quella notte -, le parole che il vampiro più grande gli rivolse lo raggelarono.
    Si fermò con una mano su uno sportello e si voltò, cercando di dare un’aria saccente e distaccata all’espressione dipinta sul suo viso. «Perdonami, cosa hai detto?» chiese, fingendosi il più cordiale possibile. Ma l’occhiata che gli venne rivolta fu ben diversa dalle solite a cui era abituato. Appariva fredda, inespressiva, come se ad osservarlo fosse una statua di marmo.
    «Prendi ciò che ti occorre senza farti vedere da nessuno e torna indietro», ripeté William, paziente nonostante l’espressione. «L’incontro che potresti fare in casa potrebbe non piacerti».
    «Che mucchio di sciocchezze», replicò Lord Dellinton, senza prestargli altra attenzione. Per quella sera ne aveva avuto abbastanza.
    «Non sono sciocchezze, te ne renderai conto tu stesso», parve protestare ancora una volta William, senza nessuna sfumatura nella voce. Il suo volto lasciava intendere solo una vaga cortesia: non c’era nient’altro che rivelasse ciò che lui, all’interno di quella casa, aveva avvertito.
    Il signore di Beul an latha scostò la mano dallo sportello e si voltò verso entrambi, osservando prima il minore per appuntare poi la sua totale attenzione sul viso del maggiore. «Voglio che tu mi lasci in pace», quasi ordinò, come se quello potesse servire ad essere ascoltato.
    «Non lo vuoi davvero, altrimenti non saresti venuto sin qui», ribatté immediatamente l’altro, accavallando disinvolto le gambe.
    «Sono venuto per dirti addio».
    «Quanto sei sciocco a convincerti che sia così», fece ancora il vampiro, gettando un rapido sguardo al fratello che sorrideva come se fosse divertito. «Sei venuto perché non sei riuscito a starmi lontano».
    Lord Dellinton scosse di poco il capo, rivolgendogli poi uno sguardo risoluto e ricco di mille emozioni. «Io rivoglio la mia vita», replicò solenne, riuscendo solo a strappare una piacevole risata ad entrambi. I lineamenti del viso di William si erano persino addolciti.
    «Ancora non ti sei reso conto che non hai più una vita da anni, ormai?» s’intromise nel discorso Arthur, alzandosi per scendere le scalette della carrozza e avvicinarsi al Lord. «Mo bhràthair te l’ha rubato tempo addietro, è inutile ostinarsi».
    Joseph scosse ancora una volta il capo, indietreggiando verso l’entrata mentre non perdeva di vista nessuno dei due. «State mentendo entrambi», dichiarò, forse più per convincere se stesso che accusare loro. Ma una nuova risata si fece sentire, prima che fosse William a parlare ancora una volta.
    «E che bisogno avremo di farlo?» chiese, scrollando di poco le spalle come se nulla fosse.
    «Perché siete vampiri».
    «Non tutti mentiamo, mio sciocco amante».
    «C’è persino chi dice che non siamo affatto bravi», soggiunse il minore, cominciando a girare intorno al moro come una tigre che si preparava a balzare sulla sua preda. Ben presto anche William scese dalla carrozza, raggiungendo gli altri due per guardarsi distrattamente intorno. Faceva vagare lo sguardo in ogni dove, quasi con svogliatezza, soffermandosi giusto per pochi attimi sul paesaggio che li circondava per tornare poi a guardare il giovane fratello e il nobil uomo.
    Il sorriso non aveva abbandonato il suo volto, anche se quello stesso sorriso rassomigliava ad uno derisorio o di scherno. «Continui ad aggrapparti ai tuoi ideali come se valessero ancora qualcosa», buttò lì, sbottando per la prima volta. Nonostante apparisse tranquillo, difatti, dalla voce sembrava quasi indispettito. Non aveva mai sentito quel tono, Lord Dellinton, tanto che si ritrovò a deglutire anche non volendo. Il suo viso però ostentava ancora quell’espressione spavalda e fiera, un’espressione che l’aveva sempre caratterizzato.
    «Anche tu avrai avuto i tuoi ideali, un tempo», replicò, ignorando la rapida occhiata che gli venne lanciata dal minore dei due. «Fatico a credere che un ragazzo come te fosse già così».
    Non ebbe nemmeno il tempo di accorgersene, subito dopo, che sentì le mani di William afferrarlo per il solino che aveva alla gola, venendo quasi issato da terra mentre lo sguardo chino si perdeva in quegli oscuri oblii che erano adesso gli occhi del castano. «Se tu fossi nato nell’epoca in cui sono nato io non parleresti affatto in questo modo», ribatté, forse rabbioso. «Ho veduto la prima alba del tuo paese
[3], la ribellione alla Corona [4] e persino la sconfitta dei giacobiti secoli dopo. Meglio tacere su cose che non conosci», disse ancora, mostrandogli senza remore le zanne. «Ora vai in casa, se proprio lo desideri. Ma ricorda che ti ho messo in guardia».
    Lasciò andare la presa solo quando sentì una mano del moro posarsi sul suo avambraccio, vedendo la sua bocca muoversi senza emettere suono, come se non avesse voce. Si accorse solo in quel momento d’essersi fatto guidare dalla rabbia e di aver stretto troppo, rischiando quasi di strozzarlo. Ma non fece una piega, limitandosi ad osservarlo mentre si massaggiava la gola e tossiva, indietreggiando. Senza perdere altro tempo, poi, Lord Dellinton diede loro le spalle e si precipitò dentro, lasciandoli lì ad osservare la sua figura che scompariva.
    Guardandolo ancora con la coda dell’occhio, Arthur si avvicinò al fratello maggiore, assumendo quasi un cipiglio bambinesco. «Pensavo che ti fossi deciso a porre fine a tutta questa pagliacciata», asserì, come se fosse vagamente irritato. «Quell’uomo ti ha rubato molto più tempo del previsto».
    Con lo sguardo ancora perso in direzione della casa, William arricciò appena le labbra per dar vita ad un’espressione contrariata. «Non c’era bisogno che fossi tu a ricordarmelo, Arthur», rispose, in tono quasi dolce nonostante il viso contratto in una specie di smorfia. «Ho intenzione di chiudere la questione stanotte stessa, non temere», soggiunse poi, voltandosi verso di lui per sorridergli in un lampeggiar di zanne. «Ma dovrai fare anche tu la tua parte».
    «Aspettavo soltanto che tu me lo dicessi, mo bhràthair», ribatté, tornando ad assumere quella vaga tranquillità che sembrava far da pilastro portante a tutto il suo essere.
    «Bada a non lasciarti sfuggire l’occasione», gli ricordò immediatamente il maggiore, serio. «Deve essere sul punto della disperazione, e io ho lavorato troppi anni per arrivare fino a questo momento».
    «Andrà tutto come stabilito, non temere».
    Nessuno dei due disse altro o aggiunse qualcosa, poi. Si limitarono solo ad avanzare in direzione della residenza dopo aver chiuso lo sportello e fatto un rapido cenno al cocchiere, che chinò brevemente il capo prima di spronare i cavalli a partire. Lo seguirono con lo sguardo finché la carrozza non sparì del tutto dalla loro vista, attraversando il piccolo giardino per giungere alla porta.
    Proprio all’interno di quella casa, frattanto, v’era chi si affaccendava in silenzio e frugava in ogni dove, quasi fosse alla ricerca di qualcosa. Sembrava agitato e frettoloso, anche se di tanto in tanto non mancava di gettare uno sguardo fuori dalla finestra posta a lato della stanza, quasi a ridosso del muro. Sospirò di sollievo quando trovò il tanto agognato oggetto della sua ricerca, infilandosi in tasca quella piccola ampolla prima d’attraversare l’ampio salone. Si sarebbe dapprima disfatto di quella una volta per tutte, ponendo così fine ad una parte della follia che lo stava lentamente consumando. Ma si fermò poco lontano dall’ingresso quando vide una figura accucciata accanto al camino, riconoscendola quando le fiamme guizzarono creando riflessi arancioni sui suoi capelli, illuminandogli anche il viso.
    «Jason?» chiamò sorpreso, quasi credendo d’essere impazzito. Suo figlio non sarebbe dovuto trovarsi lì, ma ad Inverness. Che ci faceva così lontano da casa? Quella doveva senz’altro essere una visione mostratagli dalla sua follia, non poteva essere altrimenti. Dovette però ricredersi quando lo vide voltarsi, incontrando quegli occhi azzurri nei quali danzavano, rispecchiandosi, le fiamme.
    Come un bambino colto sul fatto a compiere una marachella, Jason abbassò il capo
non appena incrociò lo sguardo del genitore, osservando il pavimento con fin troppo interesse. Non aveva il coraggio d’alzare il viso, forse per non vedere l’espressione sbigottita e al contempo infuriata che segnava il volto del tutore. Era la prima volta, in fondo, che s’allontanava così tanto da casa senza nessuno con sé; la residenza era riuscito a trovarla solo perché, negli anni passati, si erano recati a Londra per diversi eventi, altrimenti non avrebbe mai potuto arrischiarsi ad intraprendere quel viaggio. Montando in sella al suo cavallo, difatti, aveva lasciato a sua volta il vecchio maniero per seguire il padre, dovendo sostare più volte in locande o taverne per rifocillare sia se stesso che il suo destriero. Provare a raccontare quel suo vagabondare al tutore, però, non sarebbe servito a nulla; probabilmente avrebbe solo fatto valere la sua autorità paterna, ammonendolo per quell’atto tanto stupido quanto sconsiderato.
    «Che cosa ci fai qui?» gli venne chiesto infine, ma non osò comunque alzare lo sguardo.
    Il ragazzo si strinse solo un po’ nelle spalle, come se si vergognasse a rispondere. «Ecco, io...» provò ad articolare qualche parola, forse tentando nel contempo di metter su una scusa abbastanza plausibile. Ma nemmeno lui sarebbe stato in grado di spiegare ciò che lo aveva spinto a seguire il moro fin lì, quindi la scelta migliore fu quella di restare ancora una volta in silenzio. Sentì i passi del tutore giusto qualche attimo dopo, ritrovandosi a sussultare come poche sere addietro quando sentì entrambe le sue grandi mani sulle spalle.
    «Devi andartene da qui, Jason», asserì Lord Dellinton, accorato ed imperativo al tempo stesso. «Devi andartene subito».
    Forse fu proprio quel tono sparuto a dargli il coraggio d’alzare il viso, rispecchiandosi in quei pozzi d’onice che, forse anche a causa delle fiamme, sembravano rilucere sinistramente. Non capì il perché di quelle parole, sentendo però la stretta aumentare; che avesse avuto ragione nel credere che il padre stesse nascondendo qualcosa a tutti loro? Già l’esser partito senza dir nulla non lasciava spazio a fraintendimenti.
    «Perché dovrei farlo, m’Athair?» riuscì finalmente a domandare, sentendosi come se si fosse tolto un peso. «Cosa sta succedendo? Cosa vi sta succedendo?»
    Gli occhi di Lord Dellinton guizzarono serpentini ovunque, come se distogliendo lo sguardo avesse potuto eludere la domanda. Ma ben sapeva che non era così. Suo figlio non era affatto stupido. «Ti racconterò tutto, te lo giuro», esordì poi, aumentando la presa sulle sue spalle esili. «Ma per adesso lascia questa residenza, te ne prego». Detto ciò allontanò le mani, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi per avvicinarsi al caminetto acceso.
    Il ragazzo volse lo sguardo verso di lui e l’osservò fissare le fiamme, contemplarle con una luce di follia che quasi gli brillava negli occhi azzurri. Restò interdetto per quel modo di fare: mai come in quel momento, l’uomo che stava osservando non gli sembrava affatto il tutore con cui era cresciuto. «M’Athair, perché dite tali cose?» domandò insistente, provando ad avvicinarsi. Ma lo vide infilare una mano in tasca ed estrarre una piccola ampolla, facendo oscillare lentamente il liquido rossastro al suo interno.
    Joseph si voltò verso di lui, sorridendogli senza la benché minima traccia d’emozione. «Perché ho intenzione d’infrangere il patto stretto con un angelo delle tenebre, figlio mio», gli rispose semplicemente, senza che quella vena di pazzia avesse abbandonato quelle polle cerulee.
    Jason sbatté le palpebre con fare perplesso, tentando di dire qualcosa. Ciò che lo fermò non fu lo sguardo del genitore, bensì il gesto che fece subito dopo: chiuse la mano intorno all’ampolla dopo averla guardata un’ultima volta, gettandola poi fra le fiamme. Le stesse ebbero un guizzo e un fremito, come se avessero preso vita, ritraendosi poi all’interno del caminetto prima d’esplodere in lingue di fuoco, quasi d’un cobalto tendente al violaceo. Boccheggiò, il ragazzo, non credendo ai propri occhi. Contrariamente a Lord Dellinton, che aveva assistito alla scena senza battere ciglio. Proprio lui si voltò ancora una volta verso il giovane, facendogli rapidamente cenno di seguirlo.
    Vedendo che non rispondeva, fu lui stesso ad avvicinarsi, afferrandolo per un braccio per trascinarlo via con sé. «Se proprio non vuoi andartene da solo dobbiamo affrettarci», esordì di punto in bianco, in tono spiccio. «Non riusciremo ad andare troppo lontano, altrimenti».
    «M’Athair, cosa...?» provò a chiedere il ragazzo, ripresosi parzialmente, ma ottenne solo risposte vaghe mentre attraversavano il salotto e si dirigevano verso le cucine, passando per il corridoio secondario dov’erano situate le stanze dei domestici. La maggior parte erano vuote, per il momento, ma una era occupata dal vecchio cocchiere; dovettero quindi fare più silenzio possibile mentre passavano, affrettando il passo solo quando non furono a portata d’orecchio. Si ritrovarono ben presto ad uscire dalla porta delle cucine, collegata con il giardino che attraversarono immersi nella stessa quiete di poco prima.
    Il ragazzo continuava a non capire lo strano comportamento del tutore mentre si lasciavano alle spalle la residenza ma, d’un tratto, furono entrambi costretti a fermarsi. Dinanzi a loro si trovavano due figure, entrambe elegantemente vestite e d’aspetto aristocratico, differenti solo nei tratti del viso e poco altro. «Sir... Sir William?» chiamò dopo aver riconosciuto una delle due figure, ma una mano del padre l’afferrò per un braccio e lo fece indietreggiare di malo modo, come se volesse metterlo al sicuro da un qualche pericolo.
    «Vattene, Jason», gli sussurrò Joseph, in tono accorato e spaventato. E forse fu proprio quello a convincerlo, indietreggiando rapido mentre provava comunque a far vagare lo sguardo dall’uno all’altro senza comprendere la situazione.
    «Quasi stentavo a credere che mi avresti reso le cose difficili», si fece sentire la voce pacata del biondo, le cui parole erano rivolte a Lord Dellinton, che l’osservava con sfida. «Pensavo d’averti in pugno, ormai».
    «A quanto pare ti sbagliavi», ribatté prontamente con la medesima voce, indietreggiando a sua volta per raggiungere il ragazzo. «Se ti bruciassi, succederebbe la stessa cosa che è accaduta al tuo sangue?» domandò poi, quasi in tono sarcastico.
    William arricciò il naso in una smorfia, lasciando ben intravedere quanto l’esser venuto a conoscenza di ciò che aveva fatto lo irritasse profondamente. Senza parlare, gli si avvicinò, fermandosi solo quando fu a pochi passi da lui prima d’allargare di poco le braccia, quasi stesse invitando l’uomo a colpirlo. «Allora fallo, se è vero che vuoi liberarti di me», disse semplicemente, come se la cosa non lo sfiorasse minimamente nonostante l’espressione del viso. «Ma so per certo che non parleresti così, se ti privassi di ciò che ti è più caro», sussurrò sibillino, quasi in un tono velatamente minaccioso.
    «Di cosa diavolo stai...» cominciò l’uomo, ma un urlo di dolore interruppe le sue parole. Lord Dellinton si voltò di scatto, sgranando gli occhi esterrefatto quando le sue polle scure si posarono su quella scena: poco lontano da lui si trovava Jason, tenuto immobile per i fianchi dall’esile braccio di Arthur. Il volto di quest’ultimo era nascosto nell’incavo del collo del ragazzo, la cui bocca era ora spalancata in un grido senza voce; gli occhi, di solito d’un azzurro iridescente, erano vacui e inespressivi. Perdeva copiosamente sangue da un’arteria lacerata, dove ben si riuscivano a scorgere le zanne appuntite del vampiro, macchiate di vermiglio.
    «Jason!» esclamò Joseph, sconvolto, correndo verso di loro per scostare con un gesto brusco Arthur che, contrariamente a ciò che si sarebbe aspettato, non fece una piega. Fu invece lui stesso a scansarsi maggiormente, leccandosi le labbra mentre li osservava con un vago sorriso ad illuminargli il volto. Troppo agitato per badargli, Lord Dellinton non gli prestò la benché minima attenzione, chinandosi in terra per stringere a sé il corpo del figlio adottivo. I profondi occhi azzurri di lui erano nascosti dalle palpebre, abbassate e lievemente tremanti; la bocca, dalla quale scorreva all’angolo un finissimo rivoletto di sangue, era schiusa per dar vita a respiri irregolari e frammentati. Sembrava che anche il solo farlo gli provocasse dolore, data l’espressione dipinta sul suo viso.
    All’uomo tremarono le mani, a quella vista. In ginocchio su quella strada lastricata, dove la pioggia caduta ore addietro aveva reso lucida la pavimentazione, sentì anche i suoi occhi inumidirsi di lacrime.
    Non di nuovo, pensò angustiato, non di nuovo, per l’amor del Cielo.
    Non voleva vedere nuovamente suo figlio spegnersi fra le sue braccia. Avrebbe preferito morire con lui, piuttosto che continuare a vivere con quel nuovo dolore nel cuore. Con delicatezza, quasi temesse che anche il minimo tocco potesse fargli del male, sollevò piano il capo del ragazzo, adagiandolo attentamente sulle sue cosce. Spasmodico cominciò a passargli delicatamente le dita sulle guance, sulle labbra, fra i capelli mori quasi completamente fradici di sudore. Umidità e sangue. Questi gli unici odori che l’uomo sentiva. 
    «Jason, Jason», lo chiamò ancora, in un rauco sussurro spezzato. «Rispondimi, figlio mio». Ma il ragazzo non riusciva a parlargli, muoveva solo la bocca senza emettere suono. E ciò non fece altro che angustiare maggiormente l’uomo, che gli premette il palmo d’una mano sul collo per tentare d’arrestare l’emorragia. Sentì il calore del sangue contro la pelle, quello stesso liquido vermiglio scorrergli fra le dita; e i respiri del giovane erano sempre più irregolari, quasi gli mancasse il fiato. «Perché lo hai fatto!» strillò fuori di sé, rivolto al più giovane dei due vampiri. «Che ragione avevi di farlo!»
    William si strinse appena nelle spalle, come se l’asprezza delle sue parole per lui non avesse alcun peso o senso. Sembrava perfettamente tranquillo. «Perché forse in questo modo non farai cose stupide», rispose infine, con semplicità inaudita.
    «È mio figlio!» strepitò Joseph, accalorato. «Mio figlio, dannazione!» Non riusciva a credere che l’avesse lì, agonizzante fra le sue braccia, e che l’unica cosa che riuscissero a fare quei due fratelli fosse solo guardare. In un impeto d’ira si issò - dopo aver sdraiato in terra il ragazzo - quasi in un unico movimento, scattando verso Arthur per afferrargli senza riguardi il collo con una mano, come se quell’unico gesto potesse servire realmente a qualcosa. «Se lui muore», cominciò, in un sibilo rabbioso «non mi darò pace. Troverò il modo d’ammazzare entrambi».
    Il minore lo guardò pacato, a quelle parole. Non tentò di liberarsi dalla presa, bensì si limitò semplicemente a posare una mano sulla sua. «E se ti dicessi che non esiste nessun modo?» esordì calmo, distogliendo lo sguardo da quegli occhi scuri per puntarlo oltre la spalla del moro, precisamente dov’era riverso il ragazzo. «Se ti dicessi che, qualsiasi cosa tu faccia, ciò non comporterebbe alcun risultato?»
    La stretta aumentò, così come l’ardore in quelle polle d’onice. «Non siete immortali», ribatté Lord Dellinton, astioso. «Fingete di esserlo, ma non lo siete».
    Fu a quel punto che sentì anche la presa di Arthur divenire più salda, quasi volesse spezzargli le ossa della mano. Si limitò invece a scansargliela con facilità, quasi fosse appartenuta ad un bambino di cinque anni. «Mentre sei qui a minacciarci, lì c’è tuo figlio che muore. Te ne rendi conto, vero?» gli mormorò in tono soave, facendo qualche piccolo passo indietro. Ridacchiò, poi, nel vedere il volto dell’uomo tramutarsi da una maschera d’odio ad un’espressione di consapevolezza, prima che abbandonasse temporaneamente la sete di vendetta per tornare svelto accanto al figlio. Gli aveva preso delicatamente una mano e gliel’aveva stretta forte, sporcandola con il sangue che macchiava la sua. Cominciò poi a mormorargli qualche parola nella sua lingua, come se in quel modo potesse calmare anche il battito impazzito del proprio cuore.
    Lord Dellinton vide quegli occhi aprirsi di poco e cercarlo, ma sembrava che la scintilla della vita stesse scemando a poco a poco. Non riusciva a vederlo così, non poteva sopportarlo. Era tornato a premergli una mano sul collo, certo, ma non aveva idea di quanto sarebbe riuscito ancora a resistere. Se lo issò quindi in braccio, rimettendosi in piedi con lui; l’avrebbe portato via da lì, anche a costo di venir ostacolato da quelle due creature che lo stavano osservando.
    «M-M’Athair», la voce di Jason gli giunse in un bisbiglio stridulo e strascicato, quasi troppo basso per poter essere udito e compreso. Gli mormorò solo qualche altra parola di conforto per calmarlo, facendo poi in modo che reclinasse un po’ la testa verso il suo petto.
    «Andate già via?» domandò divertito Arthur quando lo vide, incrociando tranquillamente le braccia al petto per squadrare poi la postura dell’uomo. Proprio lui non gli rispose affatto, dandogli le spalle con tutto il coraggio che era riuscito a raccogliere. Non aveva tempo per i loro giochetti; doveva portare suo figlio da un medico, immediatamente. Affrettò quindi il passo con il cuore che gli batteva all’impazzata, meravigliandosi di non esser seguito quando s’azzardò a lanciare uno sguardo dietro. Ma dovette ricredersi prima di svoltare l’angolo, ritrovandoli entrambi dinnanzi a sé. Era in trappola e non poteva fuggire: qualsiasi strada provasse a prendere li ritrovava sempre lì, sempre davanti a lui ad attenderlo come spettrali presenze. Si arrese all’evidenza, crollando con tutto il proprio peso sulle ginocchia mentre stringeva convulsamente a sé il ragazzo. I suoi respiri ormai si erano ridotti al minimo, era già un miracolo che avesse resistito così a lungo; gli aveva stretto debolmente la mano, ma anche quel gesto sembrava divenir meno sicuro.
    Non si curò dei passi che udì subito dopo, restando con lo sguardo puntato sul volto pallido del figlio. Ma fu proprio nel guardarlo che un pensiero malsano gli balenò nella mente, facendogli alzare di scatto la testa. «Tu puoi salvarlo!», gridò d’un tratto, voltandosi verso William che, fino a quel momento, aveva osservato la scena come se si fosse estraniato dal mondo.
    Sentendo tali parole, sbatté più volte le palpebre, stirando poi le livide e sottili labbra in un ammaliante sorriso. Scoprì le zanne, senza avere l’accortezza d’occultarle alla vista del suo interlocutore. «Salvarlo?», domandò lui, sollevando finemente un sopracciglio. «Och, mo chridhe... sei sempre stato così ingenuo», mosse qualche passo verso di loro, abbassandosi alla loro stessa altezza per sorridere ancora. «Tutto ciò che io potrei fare sarebbe solo completare l’opera di mio fratello e condannarlo».
    «Ma vivrà!» insistette l’uomo, comportandosi quasi come un bambino capriccioso al quale era appena stato negato un gioco. Sapeva che, compiuto quel passo, non sarebbe potuto più tornare indietro. Tuttavia, ciò che maggiormente gli premeva era non perdere suo figlio. Un gesto egoistico, il suo, ne era ben consapevole.
    «Cosa ti da il diritto di decidere per lui?» si fece sentire la voce di William - interrompendo così i suoi pensieri -, con una tonalità così calda che quasi stentò a credere gli appartenesse. Non avrebbe voluto rispondere, né sentiva di avere abbastanza tempo per farlo. La stretta della mano del figlio diveniva sempre più debole, senza permettergli di ragionare con freddezza e lucidità. Ma di una cosa era certo: non voleva vederlo morire. In cuor suo, però, sapeva che ciò sarebbe accaduto lo stesso. Avrebbe salvato suo figlio solo per vederlo morire; l’avrebbe condannato all’Inferno, un Inferno dal quale non sarebbe più riuscito a fuggire. Ma, in quel caso, l’omicidio non appariva più come un errore, per lui. Appariva come un’ultima possibilità per il suo unico figlio. «Ti darò qualunque cosa tu chieda», provò l’uomo, sentendo quel groppo in gola aumentare mentre lo sguardo era chino sul pallido volto del moretto.
    L’ombra d’una risata giunse però in risposta, lieve come la pioggia che sarebbe presto tornata a lacrimare sul mondo. «Oh, ma io ho già tutto ciò che voglio», sussurrò ancora, quasi spietata e tagliente, quella voce al suo orecchio. «Io ho te».
    Lord Dellinton non distolse lo sguardo dal volto del giovane anche quando udì quelle parole, sebbene sentisse un peso opprimente nel petto. «Se hai me, non lasciare che io perda lui», insistette, come se quello potesse far maggiormente presa sul suo biondo interlocutore.
    Ci fu un silenzio carico d’attesa, subito dopo; non un suono o un respiro sembrava infrangerlo, tanto che l’uomo fu quasi certo che anche i battiti del suo cuore sarebbero stati perfettamente udibili. Sentì poi un lungo sospiro, poi gelide dita s’intrecciarono fra i suoi capelli scuri. «Pur di non volerlo perdere lo condanni dunque alla dannazione eterna?» gli venne chiesto, quasi nello stesso sussurro di pocanzi, e voltò di poco lo sguardo verso il vampiro per fondere i suoi occhi cerulei in quei pozzi d’oro.
    «Io non...» rispose, quasi colto alla sprovvista, ma ancora una volta quelle dita gli carezzarono la cute, reclinandogli poi la testa all’indietro.
    «Non sprecarti in parole inutili», fece immediatamente William, mostrandogli le zanne. «Dimmi solo se lo vuoi o no».
  Lord Dellinton si leccò le labbra, stringendo ancor più a sé il corpo del ragazzo. «Non voglio perdere un altro figlio», ribatté, riprendendo ad accarezzargli spasmodicamente le guance gelide.
    Gli giunse alle orecchie un altro sospiro, prima che con la coda dell’occhio vedesse il vampiro inginocchiarsi accanto a lui. «Implorami, allora», gli disse, quasi con sagacia. «Prostrati dinnanzi a me e implorami di salvarlo».
    L’uomo scosse la testa, autoritario; non si sarebbe abbassato a tanto. L’aveva umiliato anche troppo, durante quegli anni. «Nay, questo non lo farò».
    «Ciò significa che il tuo orgoglio vale più della vita di tuo figlio?» replicò William con fare saccente, inarcando un sopracciglio. «Eppure non mi sembrava che tu la pensassi così, pochi attimi prima».
    Come colpito in pieno da quella constatazione, il Lord chinò lo sguardo per osservare il volto del figlio, i cui respiri irregolari e spezzati gli giungevano lievi alle orecchie. Tremava fra le sue braccia, biascicando parole che non avevano alcun senso; le palpebre continuavano a tremare e il viso diveniva sempre più freddo. Aveva quasi smesso di lottare, lasciando che il soffio della vita abbandonasse il suo corpo. Il suo orgoglio valeva davvero più della vita del proprio figlio? La risposta a quella domanda era più che ovvia. «Ti prego... non potrei sopportare di perdere anche lui», sussurrò Joseph, voltandosi definitivamente verso il vampiro con le sopracciglia corrugate dalla preoccupazione.
    Fu a quel punto che William sollevò appena un angolo della bocca in un sorriso, assaporando quelle parole come se le stesse gustando sulla punta della lingua. «Allora chiudi gli occhi, mo chridhe», mormorò poi, ammaliante, alzando di poco una mano per fargli scorrere due dita sul viso. «Chiudi gli occhi e non pensare ad altro. Sarò io l’ultima cosa che ti sarà concessa di vedere».
    Forse inconsciamente, Lord Dellinton si ritrovò ad obbedire a quelle parole. Abbassò le palpebre, sentendo poi quel tocco gelido sfiorarle delicatamente per carezzarle con altrettanta accidia. Ebbe quasi la sensazione che, man mano che quella carezza si spostava, ogni preoccupazione, ogni angoscia o tormento venisse spazzato via, sepolto sotto uno spesso strato di ghiaccio. Quello stesso ghiaccio che gli percorreva adesso il corpo, facendogli correre brividi inspiegabili lungo la schiena. Udì vagamente una voce giungere alle sue orecchie, scoprendo in un secondo momento che quella voce sommessa e rauca apparteneva a suo figlio. Voltò subito il viso nella sua direzione per vedere come stesse, vedendo però intorno a sé solo tenebre ed ombre. Persino quando provò ad alzare le palpebre non distinse nulla, sentendo solo quella voce cominciare a chiamarlo e quelle gelide carezze riprendere, insistenti. S’agitò, tentando di parlare a sua volta, di rispondergli; ma non un suono uscì dalle sue labbra mentre quell’oblio s’intensificava e lo inghiottiva.
    Un sussurro si fece largo fra quelle tenebre, un sussurro che prometteva sangue e passione, dolore e morte: il sussurro d’un demonio. Ma quello che lo stringeva in quell’abbraccio di morte era il suo angelo. Un angelo oscuro che, nel corso degli anni, l’aveva inesorabilmente condotto all’Inferno.





~ END ~






[1] Titolo di una doujinshi di Idea (Rin Seina/Houseki Hime) uscita il 27 marzo del 2005, facente parte della serie “Precious Wonders”.
Tradotto, si rifà principalmente a tutto ciò che succede nel capitolo fino alle note di chiusura, visto ciò che accade durante quella notte.

[2] Prossimo al vecchio porto di Londra, proprio per tale motivo è il luogo in cui gli immigrati trovavano un posto in cui stare.
La sua storia, a volte vista in chiave romantica, è fatta di umorismo e valori della classe operaia, ma anche di delitti come quelli di Jack lo Squartatore a Whitechapel, crimine organizzato, gangsters come la Banda Kray, povertà affrontata e resa sopportabile dalla tenacia britannica.
La verità, forse un po’ cruda, è che nell’East End si concentrano alcuni dei quartieri più poveri del Regno Unito, con tutti i problemi che ciò comporta.

[3] Si riferisce ovviamente a quando venne fondato il Regno di Scozia, precisamente intorno l’843 dal re Cináed I.

[4] Qui ci si riferisce invece alle guerre d’indipendenza che scuotevano la Scozia, precisamente alla famosa battaglia di Stirling Bridge nel 1297 in cui gli scozzesi si ribellarono sotto la guida di William Wallace, e quella di Bannockburn in cui Robert Bruce, incoronato re di Scozia, ottenne una vittoria schiacciante contro l’antica rivale del suo regno.









_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Questa storia era stata originariamente scritta per un contest indetto da Selhin e Seiko, “Dalla Frase alla Storia”, ma ho poi pensato saggiamente di trasformarla in un'originale, giacché i personaggi che avevo utilizzato si discostavano un po' troppo dai loro caratteri e sarebbero apparsi così decisamente OOC.
Ecco perché, dunque, sono nati personaggi come Sir William, crudele vampiro per antonomasia, e Joseph, uomo che ha sempre avuto tutto grazie alla propria posizione ma che è stato più volte beffato da un destino crudele che ha colpito lui stesso e la sua famiglia. Il solo personaggio che ho lasciato è Jason, ragazzo creato nel lontano 2008 da me e Red Robin per gioco, e che ormai fa parte della nostra vita quotidiana, per così dire. Un po' come se fosse nostro figlio, se proprio vogliamo metterla in questi termini.
Comunque sia, la storia gioca più sugli aspetti psicologici di tutti i personaggi e sulla natura crudele degli esseri umani e dei mostri, sulla soggiogazione che essi possono provocare e sulla debolezza dell'animo, intersecando così realtà e immaginazione in un gioco di ombre e sguardi che conduce ad una drammatica conclusione. Ovviamente l'accenno a Jack lo Squartatore, dato il periodo, era d'obbligo, e lo si può benissimo notare, anche se solo accennato, quando Joseph gli passa vicino. Era una tale piccolezza per la trama che non ho ritenuto obbligatorio spiegarlo durante la stessa.
Spero che vi sia piaciuta e che l'abbiate in qualche modo apprezzata.
 
Alla prossima
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