Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: sophie_85    07/04/2011    7 recensioni
Ciao a tutti! Ho scritto questo piccolo racconto per partecipare ad un concorso letterario indetto dalla mia università, per esprimere la nostra esperienza durante l'erasmus. Purtroppo non ho vinto (lo sapevo :P) però mi farebbe piacere condividere con voi il mio racconto! Buona lettura ;)
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Four-o-seven





Ma chi me l’ha fatto fare…

Era questo che pensavo mentre mi trovavo all’aeroporto carica come un mulo, alle cinque del mattino, in fila per imbarcarmi sull’aereo che mi avrebbe portato a Cork, in Irlanda.  
Mentre salivo a bordo dell’aeroplano, l’hostess guardava sospettosa con gli occhi ridotti a fessure il mio bagaglio a mano, che chiaramente superava i dieci chili consentiti, mentre il mio stomaco in subbuglio, in un misto di ansia ed eccitazione, mi ricordava l’avventura che stavo per affrontare.
Una volta partiti, guardavo fuori dal finestrino le nuvole che si rincorrevano, bianche e soffici, senza in realtà vederle davvero, con il cervello impegnato in un mare di elucubrazioni sulla mia scelta, facendomi passare da stati di esaltazione a profonda depressione.
Pensavo al mio ragazzo che mi sarebbe mancato da morire, agli amici, alla mia famiglia; poi mi tornava in mente il momento in cui avevo fatto la domanda per l’erasmus, e una sorta di misteriosa decisione mi rinfrancava: quando finii di compilare quella domanda infatti, non ci credevo neanche io; ero euforica e spaventata allo stesso tempo, ma decisa. Era una sorta di sfida con me stessa.  
La ‘scusa’ ufficiale era andare in un paese straniero con la possibilità di parlare unicamente una lingua che, nonostante i numerosi anni in cui l’avevo studiata, continuava a rimanere per me una illustre sconosciuta: l’inglese. Ma la sfida reale sarebbe stata buttarmi in un mondo completamente ignoto, con persone nuove e, con buone probabilità, profondamente diverse da me. Io sono sempre stata una ragazza riservata e piuttosto timida, il tipo di persona che aspetta sempre che siano gli altri a fare la prima mossa. Volevo trovarmi in una situazione in cui fossi ‘costretta’ ad aprirmi e a socializzare, dove fosse tutto completamente nuovo.
Anche l’idea di vivere da sola mi affascinava alquanto, così come quella di avere dei coinquilini: essendo la mia famiglia di Roma, non avevo mai dovuto/potuto staccarmi da loro, ahimè.  

L’atterraggio un po’ brusco mi riportò alla realtà, e quando arrivai al cartello ‘ritiro bagagli’ scritto prima in gaelico e poi in inglese, un vago sorriso mi aleggiò sulla faccia: non c’era più niente su cui ragionare, ormai ero in ballo! Il sorriso però mi si spense sulle labbra quando riuscii a recuperare i miei bagagli: fu con non pochi problemi che riuscii a raggiungere il pullman che mi avrebbe portata a Tralee, trainando una pesante valigia per braccio, mentre la borsa a tracolla del portatile (che conteneva inoltre una quantità non ben definita di oggetti) tentava allegramente di strozzarmi. Fortunatamente un signore, alquanto divertito aggiungerei, mi aiutò a caricare tutto nel portabagagli e così potei salire, non senza aver cercato ovviamente e inutilmente la porta del pullman sul lato destro. E chi se lo ricordava che nel Regno Unito, Irlanda compresa, il posto del guidatore è a destra. All’inizio devo dire che è piuttosto sconcertante stare dal lato ‘sbagliato’ della strada: avevo sempre l’impressione di stare per fare un frontale o che la macchina davanti a me fosse guidata da un uomo invisibile; per non parlare poi delle volte che ho rischiato di venire investita perché prima di attraversare guardavo dal lato sbagliato.
Alla fine ci si abitua. Ho dovuto anche guidare lì: mamma mia le manate che diedi contro la portiera, cercando invano il cambio a destra!

Passai il viaggio guardando ammaliata il paesaggio fuori dal finestrino, con l’i-Pod che mi faceva da colonna sonora. Dopo aver ammirato la vastità e l’incredibile verde irlandese per quasi tre ore, finalmente arrivammo a destinazione: Tralee. Scesi dal pullman vagamente preoccupata per la quantità di strada che avrei dovuto fare, trascinando i miei immensi bagagli, chiedendomi dove fosse il residence, quando alzando lo sguardo tirai un gran sospiro di sollievo: l’enorme palazzo di fronte alla stazione che si stagliava contro il cielo azzurro recitava a chiare lettere “An sean mhuileann“, il mio residence appunto. Oltre a non dover fare tanta strada, non mi trovavo neanche costretta a pronunciare quel nome contorto (che non avrei imparato a pronunciare neanche dopo 5 mesi).
Sudata fradicia per aver portato su per una piccola rampa di scale le mie valigie con ostentata scioltezza nel tentativo di evitare figuracce, arrivai nell’ufficio del residence e cercai di spiegare che avevo mandato la caparra per l’affitto di una camera singola. Nonostante il mio inglese un po’ povero, grazie all’ampio utilizzo della gestualità per ovviare la mancanza di alcuni vocaboli, riuscimmo a capirci e, dopo vari “Can you repeat, please?”, capii anche che era necessario leggere il contratto e le norme di comportamento prima di firmare.
Leggendo il primo paragrafo, la pochezza del mio inglese mi si mostrò in tutto il suo splendore e, capendo che non avrei finito prima dell’ora di cena, finsi con disinvoltura di leggere il tutto e, con un gran sorriso, firmai.
Una ragazza bionda mi fece attraversare una seconda porta che non avevo notato, e sbucammo in quello che sembrava un cortile interno di un enorme carcere: An Sean infatti è un edificio che si sviluppa lungo tre corridoi, a formare un triangolo con al centro il cortile in cui eravamo. Mentre lei, parlando, mi indicava vari punti, che in seguito scoprii essere diverse uscite (lì per lì infatti non avevo capito assolutamente nulla), non potei fare a meno di alzare lo sguardo sui ballatoi dei piani superiori con le ringhiere in ferro. Superato lo strano effetto ‘prigione’ iniziale, iniziai ad intuire quanto potesse essere utile una costruzione del genere, ma non potevo ancora immaginare che affacciandomi dal corridoio del mio piano avrei visto gente spingere carrelli a tutta velocità lungo quei corridoi (ovviamente con un’altra persona all’interno), oppure che in un innocuo pomeriggio di inizio dicembre, in una giornata molto fredda, lì avrei visto un ragazzo correre nudo, con solo un cappello di babbo natale in testa.

Vedendo il sorriso incoraggiante della biondina, compresi che doveva aver finito le spiegazioni, e la seguii fino al mio appartamento: il 407. Ogni appartamento era contraddistinto da un diverso numero, e al ritorno dalle discoteche, che in Irlanda chiudono piuttosto presto, avrei sentito urlare i numeri degli appartamenti dove si sarebbe svolto il dopo serata. Così, per le strade di quella che prima del nostro arrivo doveva essere una tranquilla cittadina, si sentivano rimbombare cori che urlavano numeri, ad esempio “Two-five-one!”, a seconda di quale, quella sera, sarebbe stato il luogo distrutto nel post-discoteca, senza che l’infausto proprietario potesse fare niente per impedirlo. Quando sentivo la folla impietosa gridare “Four-o-seven!”, mi tremavano le ginocchia pensando a quello che sarebbe rimasto del mio appartamento il giorno dopo.

 Entrammo in casa e, mentre spiegava che avrei vissuto con una ragazza francese e una spagnola, aprì la stanza con la lettera ‘A’ impressa sulla porta.
“Here's your room, I hope you’ll enjoy it. Bye” mi diede la chiave della stanza, e mi lasciò sola. Ero emozionata. La mia camera non era grandissima, ma sicuramente superava le mie più rosee aspettative, ed era abbastanza spaziosa da farci entrare comodamente un armadio, un letto singolo con il comodino a lato e una scrivania. Soffermando lo sguardo sulla finestra, mi accorsi che era una di quelle che davano sul corridoio esterno. Proprio in quell’istante passò una ragazza che, notandomi, mi salutò con la mano. Risposi al saluto, ancora ignara di quanto quella finestra mi avrebbe fatta ridere. Ancora non sapevo infatti che mi sarebbero venuti a buttare giù dal letto all’alba (le tre del pomeriggio) dopo una serata particolarmente devastante, semplicemente bussando da quella finestra, e io ingenuamente avrei aperto per ritrovarmi una telecamera puntata sulla mia faccia sconvolta; non potevo sapere che un gruppetto di amici ubriachi sarebbe passato a salutarmi entrando da lì piuttosto che dalla porta, per evitare di svegliare le mie coinquiline, ovviamente cadendo più e più volte e facendo più baccano che altro; non potevo neanche immaginare che sarei stata svegliata nel cuore della notte da colpi forti e ripetuti, battuti sulla finestra della stanza di Marc, di fianco alla mia, e che sarei scoppiata a ridere di cuore sentendolo imprecare ripetutamente mentre apriva la finestra, e insultare pesantemente in spagnolo la mamma di Jose Luis, che intanto scappava, sghignazzando.

Sul letto il materasso era spoglio, così come lo scaffale e le pareti di un azzurro intenso, ma già sapevo che sarebbe bastato poco a farla diventare ‘mia’. In seguito avrei stampato una montagna di foto per tappezzare le pareti con i volti dei miei cari che avevo lasciato in Italia, e il caos dei miei vestiti buttati perennemente sulla sedia o ai piedi del letto a mo’ di secondo armadio, avrebbero creato quel non so che, che mi avrebbe permesso di chiamarla ‘casa’ senza troppi rimpianti.

Con un sorriso a trentasei denti mi avventurai per il corridoio dove in fondo a sinistra, superate altre due camere da letto, c’era la sala da pranzo: era una stanza rettangolare, spaziosa, con un tavolo disposto al centro con quattro sedie; lungo tutto il lato corto era posizionato un mobile con i fornelli, il lavandino, le credenze, un minuscolo frigorifero e altri elettrodomestici. Aprii una credenza per curiosità: dentro c’erano già molte cose, tra le quali notai, un pacco di pasta e un barattolo di sugo pronto alla bolognese (terribile, così pieno di spezie da sospettare la completa assenza del pomodoro). In seguito scoprii che ormai, almeno in Francia e in Spagna, mangiano abbastanza regolarmente la pasta, anche se con condimenti alquanto discutibili… mi chiesero come mai, essendo italiana, non conoscessi la pasta al pollo (apprezzato anche sulla pizza, preferibilmente accompagnato da ananas), e  Jose Luis una volta mi preparò una carbonara con gli spaghetti così appiccicati, grazie al panetto intero di burro che aveva usato per cucinare, il formaggio, il vino e non so cos’altro, che per mangiarla quasi quasi avevo pensato di tagliarla col coltello. Sempre meglio dei turchi che ci mettono lo yogurt nella pasta… fortunatamente quando ero presente, la pasta era compito mio!

Dall’altra parte della stanza invece c’erano due poltrone e un divano a due posti disposti attorno ad un tavolino e un piccolo televisore. Ancora non lo sapevo, ma quella sarebbe stata la stanza in cui avrei passato la maggior parte del mio tempo. Anche se non esattamente quella: dopo un paio di settimane infatti avrei cominciato a frequentare più l’appartamento accanto che il mio, tanto da tornare solo per dormire nella mia stanza. Io, Alice, Marc e Jose Luis saremmo diventati praticamente una famiglia, ognuno con i suoi compiti: io e Jose (che cucina veramente bene, nonostante la ‘pesantezza’ tipica della cucina spagnola e la sua carbonara) ci occupavamo dei pasti, Marc che si era portato da casa la Play Station e una valanga di film, cercava di curare la nostra educazione cinematografica a volte propinandoci film di una inaudita pesantezza, non dovuta soltanto alla visione in lingua originale (vedi: “Requiem for a dream”), e Alice… Alice apprezzava la buona cucina, e si preoccupava di farci arrivare con un dignitoso ritardo di un’ora in qualsiasi occasione!
Quante notti avremmo passato in quella stanza a guardare film in inglese, facendo ‘merenda’ con latte e cereali e pane e nutella verso le quattro del mattino. Nella cucina di Marc avremmo creato immensi hamburger con pancetta fritta, formaggio, pomodori, salse a iosa, patate fritte e qualsiasi altra cosa riuscisse a stare tra le due fette di pane. Ancora non lo sapevo, ma avrei mangiato le tortillas di patate più buone del mondo, preparate da Jose, a volte alle cinque o sei del mattino, rischiando di amputarci un dito pelando le patate da ubriachi. Durante feste iperaffollate, in quel salotto avrei conosciuto un sacco di gente, sempre lì avremmo organizzato un viaggio in macchina per tutta l’Irlanda, e spesso saremmo rimasti semplicemente a parlare e ridere come scemi fino alle dieci del mattino.

Tornai in camera, mi buttai sul materasso ancora spoglio, e guardai soddisfatta fuori dalla finestra. Il cielo era limpido, di un azzurro vibrante. Sapevo che forse quella sarebbe stata una delle ultime volte che avrei visto il sole, ed effettivamente in inverno inoltrato sarei dovuta tornare a Roma per ricordarmi che il cielo in realtà non rispecchia solo le tonalità del grigio, ma non mi importava. Stavo per iniziare un capitolo della mia vita che in un modo o nell’altro mi sarebbe rimasto dentro per sempre. Sapevo che avrei incontrato tante culture diverse e in cuor mio già sospettavo sarebbe stata un’esperienza unica. A volte, anzi, spesso l’erasmus viene visto come una perdita di tempo. In tanti mi avevano detto “Ma che ci vai a fare? E poi se non riesci a dare gli esami? Se ti trovi male?” e in parte queste domande rispecchiavano un po’ le paure che mi tormentavano all’inizio. Io non sono il tipo a cui piace solo far baldoria dalla mattina alla sera e in cuor mio avevo paura di sentirmi fuori luogo, di isolarmi e di tornare mestamente a casa dopo neanche due settimane con la coda tra le gambe. Ma in realtà l’erasmus non è solo ‘fare feste sempre e comunque’. Avrei scoperto che questa esperienza mi avrebbe fatto confrontare con culture diverse dalla nostra, per esempio avrei scoperto come anche all’interno dell’Europa si percepisca la differenza tra nord e sud. Avrei scoperto che gli stereotipi sono diffusi ovunque, su tutte le nazionalità e più o meno nelle stesse forme, e che a volte rispecchiano almeno in parte il mondo reale (vedi i tedeschi e la birra). Avrei scoperto che tra i ragazzi turchi è molto diffusa la cultura musicale e il canto, tanto da portarsi da casa chitarre e tastiere, e improvvisare piccoli ‘concerti’ la sera. Avrei scoperto che gli spagnoli sono caciaroni e indisciplinati quanto, se non più di noi italiani. Avrei sorriso al tentativo di una ragazza tedesca di capire quando diventa appropriato salutare una persona con il bacio sulla guancia. Per la prima volta in vita mia avrei imparato a cavarmela in maniera indipendente, dal fare il bucato, all’iniziare a viaggiare da sola senza problemi, prendendo l’aereo come fosse la metropolitana (e rimanendo anche bloccata all’aeroporto di Londra per due giorni consecutivi, in quello che si ricorderà come il più gelido inverno mai visto prima). Tutto questo e mille altre cose ancora rappresentano l’erasmus.

Non lo sapevo ancora, ma sarebbe stato indescrivibile, unico. L’erasmus lascia dentro di te alcune emozioni e alcune esperienze che solo chi l’ha fatto può capire appieno. E ogni volta che ci penso, ringrazio quel piccolo momento di follia che mi ha consentito di vivere una delle esperienze più belle della mia vita.






Fine









Sophie' space
Ciao a tutti :) Spero che questo mio piccolo resoconto sia riuscito almeno in parte a trasmettervi quanto per me è stato importante andare all'estero! Ho messo l'opzione 'round robin', così se a qualcun altro venisse voglia di raccontare la sua di esperienza erasmus, può farlo senza problema :)
Un ringraziamento speciale alla mia beta, Fabi_ , e un saluto affettuoso a tutti quelli che sono arrivati fin qui. Un bacio,

Sophie
   
 
Leggi le 7 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: sophie_85