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Autore: Shichan    14/04/2011    2 recensioni
Odiava quelle parole pronunciate, che lo avevano incatenato e trascinato più in profondità delle catene di Vindice o di qualsiasi altra prigione, obbligandolo ad una fedeltà che stonava addosso ad uno come lui.
[Ambientazione AU e non, note nel capitolo]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Mukuro Rokudo, Tsunayoshi Sawada
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: i personaggi sono copyright di Amano Akira

Disclaimer: i personaggi sono copyright di Amano Akira.

Prompt: Indossa il tuo amore come se fosse odio (Syllables of Time)

Note: fan fiction che conterà in tutto sette capitoli, ognuno basato su un prompt della tabella per la community Syllables of Time. Pur trattandosi di un’AU, vi saranno anche accenni e scene dall’ambientazione originale: in quei casi, ho considerato TYL!Mukuro già libero da Vindice e presi per buoni gli avvenimenti narrati fino alla Future Arc (Shimon Arc esclusa).

Il rating è giallo, e tale dovrebbe rimanere: in caso di cambiamento, metterò l’avviso nelle note prima del capitolo in questione.

Alcune relazioni con i personaggi sono cambiate (senza l’ambientazione base, spiegare perché casa Sawada sia un asilo sarebbe stato ben difficile XD), ma molto a livello superficiale e ad interesse dei personaggi secondari, o di casi particolarmente assurdi (anche spiegare perché Mukuro si trasformi misticamente in donna sarebbe stato difficile senza l’ambientazione di mamma Amano LOL).

 

 

I

Come se fosse odio

 

 

Io di parole vere non ne ho.

 

 

 

Di studenti che lavoravano part-time alla sua età, ce ne erano a bizzeffe.

Tutti quelli con alle spalle famiglie modeste come la sua, ad esempio, o quelle particolarmente numerose.

Lui non aveva grossi problemi in famiglia: suo padre lavorava fuori sede, certo, e sua madre era effettivamente una casalinga, ma non è che se la passassero così male.

Solo che quando sei il fratello maggiore di tre figli – peraltro tutti e tre maschi – preferisci sempre non dover pesare su tua madre anche per i tuoi bisogni personali, e capisci di dover sopperire a quel tuo fabbisogno da solo.

Quello era stato esattamente il suo caso: Sawada Tsunayoshi, per gli amici “Tsuna” e per il resto del mondo “ImbranaTsuna”, era arrivato al suo ultimo anno delle medie con questa consapevolezza. I più piccoli – attualmente otto anni Fuuta e sette Lambo – erano ormai entrambi alle elementari, e la signora Sawada aveva già fin troppe cose di cui occuparsi.

Perciò al suo ingresso al liceo, Tsuna si era dato da fare per trovare un lavoro che anche uno senza particolari doti come lui potesse fare; si era guardato intorno per qualche tempo, e solo quando ormai si stava lentamente avvicinando alla disperazione era stato praticamente ingaggiato quasi senza che se ne accorgesse.

Un locale – un tale ristorante per famiglie, per di più italiano – cercava nuovo personale per orari part-time: e quale migliore occasione di quella? Dopotutto in casa era lui ad apparecchiare e sparecchiare, e supponeva che se provvisto di un taccuino anche uno con la sua scarsa memoria avrebbe potuto prendere delle ordinazioni. Di conseguenza, pieno di speranza si era presentato con il colorato volantino pubblicitario.

Il lavoro lo aveva avuto, per carità: certo, il capo aveva l’aria di uno che poteva farti pagare di tasca tua persino le bacchette spezzate oltre ai piatti rotti accidentalmente, e soprattutto sembrava sadicamente pronto a notare ogni tua imperfezione. Ma gli orari erano molto flessibili – c’erano altri studenti, così gli aveva detto all’inizio – e la paga era più che sufficiente per l’utilizzo che Tsuna voleva farne.

Dal suo primo giorno di lavoro era passato ormai quasi un anno.

Per il modo in cui erano sistemati i turni, aveva conosciuto più o meno tutti i colleghi studenti che lavoravano lì entro il primo mese: per una coincidenza assurda che non era riuscito ancora a spiegarsi, poi, alcuni di loro li conosceva o li aveva almeno incrociati anche a scuola.

«Benvenuti! …Oh, Sawada-san, ben arrivato!» sentì cambiare il saluto, notando Uni che aveva appena servito dei clienti ad un tavolo e che gli rivolgeva un sorriso in quel momento. Lo ricambiò, alzando una mano in risposta e dirigendosi verso l’ingresso all’area staff per potersi cambiare.

Il ristorante per famiglie – tralasciando l’allucinante nome italiano “Vongola”, che non importava da quanto ci lavoravi, suonava folle comunque – era un posto di media grandezza, ma molto accogliente.

Luminoso e spazioso nel modo in cui era stato arredato, era un ambiente sobrio e (per l’appunto) familiare: dalla porta d’ingresso bastavano pochi passi sia per raggiungere il bancone, sia per vedere i tavoli disponibili, sistemati nella parte della sala maggiormente illuminata dalle grandi finestre su un lato.

Proseguendo dritti lungo il bancone con la cassa, invece, si finiva per passare davanti alle cucine e in fondo – zona riservata allo staff – c’erano le due salette per cambiarsi.

Il bagno per i clienti, era invece dalla parte opposta a quell’area, per fa sì che gli odori della cucina non lo raggiungessero.

Passando davanti al bancone salutò uno dei colleghi più grandi: «Scusa il ritardo Dino-san, mi cambio subito!» esclamò, notando il – seppur breve – ritardo dall’orologio a muro alle spalle del biondo. Questi gli sorrise con fare allegro, blandendolo con un gesto della mano: «Stai tranquillo, Tsuna, fai con calma. Non c’è il pieno, e soprattutto non c’è il capo.» rivelò con una complice strizzatina d’occhio.

Dino era uno studente universitario, di origini italiane e conoscenza del capo: leggende del ristorante narravano che il suo ruolo fosse diventato quello di addetto alla cassa per due semplici motivi.

Il primo era che a tenerlo in cucina si rischiava di far saltare qualcosa per aria a causa della sua sbadataggine, e che da cameriere riuscisse a rovesciare più cose di quanto tutti gli altri messi insieme avessero mai fatto.

Secondo, l’altro ragazzo con la stessa mansione – anche lui liceale da quanto aveva capito Tsuna – aveva un carattere pessimo ed un ancor più pessimo rapporto con uno dei camerieri; per la salvaguardia del ristorante stesso era stato assolutamente necessario dividere i loro turni. E l’unico modo per far sì che quei due non si incontrassero mai, era servito un altro addetto alla cassa per quando il capo non c’era.

Dino era stato la soluzione ideale – visto che fermo in un angolo com’era, persino lui riusciva a non far danni.

Tsuna era estremamente felice che quel giorno non ci fosse l’altro ragazzo: non perché lo credesse una cattiva persona, ma era indubbio che se ad averlo beccato in ritardo fosse stato Hibari Kyouya, Tsuna non l’avrebbe raccontato senza rischiare la vita.

«Ah, Tsunayoshi-kun, eccoti qui.» si sentì salutare pacatamente, notando in un secondo momento uno dei cuochi affacciarsi dalla cucina; il castano si fermò, facendo un leggero inchino istintivamente, suscitando nell’altro una risata leggera e sommessa. Fong – amico del capo, e Tsuna non si capacitava di come fosse possibile – era una persona estremamente calma e pacata, che era riuscita a farlo sentire a suo agio anche quando commetteva i classici errori da principiante.

Ed era anche uno dei motivi principali della clientela fissa che visitava sempre il loro ristorante: era un cuoco eccellente, ed era probabilmente l’unico che riuscisse a far sì che Sasagawa Ryohei cucinasse senza distruggere la cucina per il suo eccessivo entusiasmo nello “spadellare” a destra e a manca neanche con le pentole dovesse farci un incontro di boxe.

Tsuna si mosse velocemente verso la stanza in cui cambiarsi, sgusciandovi dentro per sbrigarsi: posò la cartella a terra, aprendo l’armadietto con la targhetta “Sawada” e tirando fuori alla meno peggio la divisa da lavoro.

Tolse la giacca posandola sulla panchina alle proprie spalle, allentò velocemente la cravatta senza scioglierla del tutto e sbottonò la camicia – impicciandosi con i bottoni tanto per fare una cosa diversa dal solito, eh.

Posò anche quella alle proprie spalle, recuperando la camicia della divisa ed infilandola, chiudendola attento a non saltare qualche bottone; svolta l’operazione, tolse le scarpe e i pantaloni, indossando quelli da lavoro neri. Infine appese la propria divisa nell’armadietto, incastrandovi in qualche modo anche la cartella.

Lo richiuse, sedendosi quindi sulla panchina allungandosi ad aprire un armadietto più piccolo che ricordava più che altro quello della sua scuola e di qualsiasi comune liceo: tirò fuori le scarpe nere da lavoro e vi infilò quelle da ginnastica che aveva tolto.

Certo di aver sistemato tutto, prese ad allacciarsi il grembiule – anch’esso scuro e che copriva dalla vita in giù – camminando contemporaneamente verso l’uscita dello spogliatoio.

«Non che sia di mio particolare interesse al di fuori dell’ambito lavorativo, ma vorresti andare in sala smutandato come se ti fossi appena svegliato, Tsunayoshi-kun?» sentì pronunciare con tono piuttosto ironico alle proprie spalle. Avrebbe davvero voluto fingere di non aver sentito, o di non aver riconosciuto la voce e conseguentemente la persona a cui apparteneva, ma sarebbe stato impossibile.

Una sola persona lo chiamava “Tsunayoshi-kun” con il tono di chi è ormai rassegnato alla tua irrecuperabile stupidità interiore: ed era la stessa persona per la quale Dino aveva dovuto prendere il posto di Hibari-san per alcuni turni lavorativi in determinati giorni.

Tsuna si voltò, l’aria di chi non ha capito quale sia il problema ma al tempo stesso sa che c’è, e sa che è inutile negarlo a prescindere: inquadrare la figura del ragazzo ora di fronte a lui non fu certo un’impresa.

Braccia incrociate al petto, divisa da lavoro perfettamente in ordine, Rokudo Mukuro aveva un’espressione fra il rassegnato e il seccato, accentuata da un sopracciglio leggermente inarcato e dalle labbra sottili stirate in una smorfia non proprio simpatica.

«…Eh?» fece eco Tsuna alla domanda – retorica – posta dall’altro.

Mukuro sospirò, lasciando che le braccia tenute al petto scivolassero lungo i fianchi, e mosse qualche passo fino a raggiungere l’altro; Tsuna alzò appena lo sguardo, sopperendo alla leggera differenza di altezza fra loro.

A quel punto, Mukuro incurvò le labbra in un sorriso che sì, forse faceva sciogliere i cuori di molte ragazze e magari sì, abbindolava le clienti e ancora chissà, probabilmente avrebbe fatto pensare a chiunque che il peggio era passato.

Ma non a Tsuna; no, lui lo capì dall’inquietudine che quel sorriso gli trasmetteva ormai automaticamente.

Mukuro portò una mano su un fianco e l’altra al viso del castano.

No, niente scena romantica.

Pizzicò la guancia del più giovane con due dita e la tirò, mentre l’espressione rimaneva sorridente, ma al tempo stesso emanava un’aura poco rassicurante: «E’ mai possibile che dopo quasi un anno qui dentro tu non riesca ad infilarti una camicia dentro i pantaloni, Tsunayoshi-kun? Possibile che io debba farti le poste dentro uno spogliatoio per paura che prima o poi tu esca persino senza quegli stessi pantaloni?» domandò, senza alzare i toni e mantenendo ancora le labbra incurvate a quel modo, con nessun altro risultato che essere profondamente inquietante.

Tsuna – la guancia dolorante – assunse un’aria lamentosa: «M-Mi dishiace shenpai…» bofonchiò, le parole rese meno comprensibili da quella guancia maltrattata, che fu a quel punto lasciata da Mukuro con un ennesimo sospiro.

«Metti quella camicia a posto e poi sbrigati. Non voglio che ci si lamenti con me dei tuoi ritardi.» aggiunse, passandogli accanto ed uscendo per primo.

Imbronciandosi e portando una mano alla guancia tirata dal più grande, Tsuna sospirò.

Capiva l’ansia di Mukuro, che era il più grande dei camerieri che lavoravano part-time e quindi era in un certo senso il responsabile di tutti loro; ma da quando lavorava lì, l’altro sembrava averlo puntato decidendo si prendersela con lui a prescindere.

Era l’unico che, dopo tutto quel tempo, non era ancora riuscito a capire. L’unico con cui non riuscisse ad interagire, ad instaurare un dialogo che non fosse un rimprovero seguito da delle scuse.

Non che avesse un buon carattere con gli altri, ma almeno non li riprendeva su ogni minima cosa che veniva sbagliata.

Non faticava ad immaginare come mai avesse litigato o discusso al punto da non poter incrociare Hibari-san: Mukuro era – per quel che si era mostrato, chiaramente – la classica persona che amava profondamente sottolineare gli errori e le debolezze altrui. Hibari-san, neanche a dirlo, era una persona che odiava che gli si facessero notare proprio errori o debolezza e non sopportava di ricevere ordini da persone che reputava meno forti di lui o non degne del suo rispetto.

E il suo concetto di “degne” era personale e assai ristretto.

Era quasi facile immaginare perché non andassero minimamente d’accordo, né era difficile capire perché al contrario solo persone come Uni riuscissero a non giudicarlo insopportabile.

Tsuna si sistemò la camicia come indicato, uscendo infine per portarsi finalmente sul posto di lavoro: anche quella sarebbe stata una giornata da incubo, se lo sentiva.

 

 

«Ottimo lavoro, per oggi abbiamo finito.» annunciò Fong, rivolgendo un sorriso cordiale a tutti una volta fuori dalla cucina. Quando il capo non c’era, lui si occupava della chiusura e dei conti finali, in alcuni casi aiutato da Dino quando era di turno.

Tsuna sospirò sollevato, scambiandosi un’espressione soddisfatta con Uni che stava pulendo i tavoli con lui fino a quel momento; andarono insieme a mettere a posto i panni usati per le pulizie, dopodiché si diressero agli spogliatoi.

«Allora se finisco di cambiarmi prima ti aspetto.» assicurò Tsuna, per poi entrare nel proprio.

Quando Uni faceva il suo stesso turno, si assicurava sempre di accompagnarla: non abitava troppo distante dal suo quartiere ed era di strada, ma in ogni caso l’avrebbe fatto comunque. Uni era di un anno più piccola di lui e non era il caso che una ragazza girasse da sola. Nonostante i ristoranti come quello in cui lavoravano non chiudessero mai troppo tardi – essendo frequentati per lo più da famiglie, era ben difficile che qualcuno si presentasse a mangiare ad orari assurdi – avrebbe trovato irresponsabile non accompagnarla.

Si cambiò più celermente possibile, occhieggiando gli orari vicini alla porta prima di chiudere: il giorno dopo era libero.

Attese qualche minuto fuori dallo spogliatoio femminile, dal quale in breve tempo uscì Uni; si diressero insieme verso l’uscita secondaria per lo staff, passando davanti al bancone.

«Buonanotte.» salutarono all’unisono i presenti, uscendo dal ristorante.

«Grazie ancora, Sawada-san. Mi accompagni sempre.» pronunciò la ragazza una volta che furono in strada. Tsuna sorrise, scuotendo appena la testa: «Non c’è problema, e poi la strada è la stessa che farei anche da solo.» assicurò per l’ennesima volta.

«Non ho voglia di andare a scuola, fra il bagno e i compiti finirò di nuovo a dormire tardi e domani non mi alzerò.» soppesò ad alta voce il castano, il tono lamentoso, suscitando una risata divertita in Uni.

«Forza Sawada-san, domani è già venerdì.» lo tirò su di morale: «E oggi hai lavorato bene.» aggiunse fiduciosa.

Tsuna sospirò, cercando di pensare più all’imminente week-end che non alla giornata appena conclusasi: «Non tutti la pensano come te, ma grazie Uni-chan.» replicò cortese.

La ragazza lo osservò per un attimo perplessa, senza capire: «Ah» sembrò realizzare poi «parli di Rokudo-san?» azzardò.

Il sospiro rassegnato di Tsuna fu una risposta eloquente.

 

 

«Grazie dell’aiuto, Mukuro-kun, ma non serviva che rimanessi fino ad ora. Domani hai scuola, no?» fece notare Fong, lo sguardo sul ragazzo appena uscito dallo spogliatoio.

Questi si limitò ad un’alzata di spalle, alla quale il più grande ridacchiò sommessamente: «Allora posso rubarti qualche altro minuto?» domandò criptico, portando Mukuro ad assumere un’espressione perplessa mentre annuiva.

Fong si accomodò sullo sgabello dietro la cassa, vuoto dal momento che Dino era già andato via: «So che sei il più anziano dei liceali che lavorano qui part-time, giusto?» chiese, anche se Mukuro suppose che fosse una domanda volta solo a rompere il ghiaccio. Figurarsi se Fong, a cui quel pazzo del capo lasciava il negozio quando era assente, non sapeva certe cose.

Annuì comunque.

«Mh, allora è per questo che ti occupi dei più giovani?» aggiunse, come se fosse una logica conseguenza. Mukuro non inquadrò perfettamente a quale altra domanda avrebbe portato quella, ma seppe con certezza che stavano andando a parare da qualche parte.

«Non lo fanno tutti i senpai?» rilanciò retoricamente, mantenendo il contatto visivo senza sfumature particolari nello sguardo. Fong annuì, l’espressione (apparentemente) ammirata.

«Sì, assolutamente.» continuò infatti, tranquillo: «Mi chiedevo solo come mai sembrassi avere tante difficoltà di dialogo con Tsunayoshi-kun.» buttò lì come se fosse casuale e non l’esatto argomento a cui voleva arrivare fin dall’inizio.

Mukuro incurvò le labbra in un sorrisetto sardonico: ah, pensò, ecco il punto.

«Tsunayoshi-kun è un tipo di persona che assolutamente non apprezzo.» parlò altrettanto pacatamente almeno nei toni, usando parole crude e piuttosto taglienti: «Non metto in dubbio se si impegni o meno, ma è distratto nella maggior parte delle cose che fa. E sono felice che sia un cameriere, perché ho paura a pensare che cosa sarebbe stato in grado di fare in cucina. Fa dopo un anno errori che fanno le persone che si approcciano al suo lavoro i primi tempi, e alla lunga non sono più ammissibili.» parlò sempre con maggiore chiarezza, mentre Fong taceva senza interromperlo, quasi fosse particolarmente interessato a chissà quale storia che gli veniva raccontata.

«Tra l’altro, proprio perché sono il più grande vengo interpellato per gli errori altrui. E se c’è una cosa che odio è passare per un incapace incompetente per le mancanze degli altri. Non sono io a decidere chi lavora qui e chi non, ma trovo particolarmente snervante che Tsunayoshi-kun lavori senza porsi domande su chi viene messo di mezzo per i suoi errori.» concluse, fissando il proprio interlocutore.

E di nuovo quel sorriso assolutamente innaturale e falso – quello che sfoggiava con i clienti più irritanti ripetendosi mentalmente che no, non avrebbe giovato al suo lavoro e alla sua paga se avesse zittito quel dannato moccioso piagnucolante infilandogli il tubetto del ketchup in bocca.

«E in ogni caso io odio proprio la categoria di persona a cui appartiene Tsunayoshi-kun, al di fuori dell’ambiente di lavoro.» aggiunse candidamente come se avesse fatto notare accidentalmente “oibò, fuori ha iniziato a piovere, il mio bucato si bagnerà!

Fong proruppe a quel punto in un altro accenno di risata, stavolta subito soffocato: «Capisco. È bello che tu sia così schietto su quello che pensi, Mukuro-kun.» osservò.

Mukuro si chiese perché lavorava con della gente che vedeva il mondo bello, buono, rosa e fatto di unicorni volanti.

«Tuttavia» riprese Fong attirando la sua attenzione «non credo che Tsunayoshi-kun sia come lo dipingi. Penso sia un bravo ragazzo che si impegna nonostante i limiti che ha. Se provassi ad osservarlo senza decidere che lo odi già, sono sicuro che piacerebbe anche a te.» assicurò.

«Ne dubito fortemente, senza offesa.» liquidò la questione, occhieggiando l’ora sull’orologio a muro alle spalle del moro, il quale lo anticipò: «Hai ragione, si è fatto tardi. Buon rientro a casa, Mukuro-kun.» lo salutò cordiale, aggiungendo un cenno della mano.

Mukuro si limitò ad un sospiro, rispondendo al saluto e uscendo.

 

 

«Bentornato, niisan.» sentì pronunciare quando si richiuse la porta di casa alle spalle. L’attimo dopo Chrome si affacciava dal salotto, un sorriso sulle labbra nel vederlo rientrare, il pigiama già addosso.

Mukuro sospirò rassegnato, ricambiando il sorriso ed entrando definitivamente in casa lasciando le scarpe all’ingresso: «Sono tornato.» pronunciò come prima cosa, raggiungendola.

Le posò una mano sulla testa, scompigliandole affettuosamente i capelli: «Non ti avevo detto di non aspettarmi in piedi?» chiese, ma ormai aveva capito che quella era una delle cose che sua sorella minore non avrebbe mai fatto, nemmeno se gliel’avesse chiesta cento volte.

«Dovevo finire delle cose per scuola.» si giustificò – anche se Mukuro non sapeva se crederle o meno. Lasciava correre sempre, visto che sarebbe stata comunque una piccola bugia a fin di bene, senza cattive intenzioni.

«C’è qualcosa che non hai capito?» si informò. Tanto aveva cenato nella pausa al lavoro, perciò l’avrebbe aiutata in quel caso, ma Chrome scosse la testa: «Non erano compiti, stavo copiando degli appunti per un compagno vicino di banco che è stato assente qualche giorno.» spiegò brevemente la più piccola.

Mukuro si spostò con lei in salotto, affondando letteralmente nel divano.

«E’ fortunato ad avere una compagna di classe che si prende la briga di copiare per lui degli appunti allora. Com’è che si chiama?» indagò, ma più per istinto che per reale interesse. Chrome andava in una scuola diversa da quella che frequentava lui – non senza un certo disappunto da parte sua tra l’altro – quindi non aveva nemmeno idea di che tipo di compagni avesse.

«Sawada-kun.» replicò lei senza sospettare nulla.

«…Sawada? Tsunayoshi?» domandò incredulo Mukuro. D’altra parte Sawada era mancato per un paio di giorni anche dal lavoro – affari di famiglia da quanto aveva capito – quindi le coincidenze sarebbero state davvero troppe se non si fosse trattato di lui.

Ma lo sguardo stupito della sorella e il suo: «Come fai a saperlo? Lo conosci, niisan?» allontanarono ogni dubbio.

Per un attimo ebbe il serio istinto di schiaffarsi una mano in faccia: «Lavora con me.» spiegò brevemente, occhieggiando Chrome «Ma non perdere troppo tempo dietro a lui. Se è a scuola come è al lavoro, è uno che pesa sugli altri con gli errori che fa e il rendimento che ha.» giudicò impietoso e stizzito.

Chrome sembrò perplessa dal giudizio duro del fratello, ma si sciolse presto in un sorriso dolce prima e divertito poi che confuse il maggiore.

«Che c’è di divertente?» domandò senza capire.

«Tu sei sempre stato così anche quando eravamo piccoli, niisan. Tutto quello che criticavi ti piaceva, in realtà.» chiarì la ragazza, portando una mano a coprire la bocca mentre si lasciava sfuggire una risatina.

Mukuro la fissò incredulo: «Non è affatto così.» rimbeccò.

«Invece sì. Dicevi di odiare la frittata, ma mangiavi sempre due porzioni. Dicevi di odiare Ken e Chikusa della tua classe, ma giocavi sempre e solo con loro. Poi dicevi di non sopportare gli animali piccoli e carini, ma ti prendevi sempre cura dei conigli della scuola media. E dicevi di volermi rompere le bambole perché mi odiavi, ma se qualcuno mi dava fastidio lo minacciavi sempre. Quindi se dici che Sawada-kun non ti piace, probabilmente è il contrario… anche se non sei un po’ grande per dire l’opposto di quello che pensi, niisan?» azzardò timidamente, osservandolo.

Chrome non diceva né faceva mai nulla che potesse indispettire il fratello maggiore, ma a volte diceva delle cose in maniera così disarmante che anche se potevano sembrare delle provocazioni, arrabbiarsi non era fattibile. Come in quel caso.

Mukuro si schiaffò una mano in faccia sul serio stavolta, tacendo per una manciata di secondi.

«Beh» esordì infine come se avesse analizzato la cosa: «Tsunayoshi-kun è il primo caso differente dalla frittata, dagli animali piccoli e carini, da Ken e Chikusa e dalle tue bambole. Mi irrita, quindi non mi piace e basta.» decretò, direzionando quindi la sua attenzione alla tv che Chrome aveva probabilmente acceso per farle compagnia mentre copiava gli appunti.

Sono sicuro che piacerebbe anche a te.

Sicuro un corno.

Ah, Mukuro-kun. Sempre che Tsunayoshi-kun non ti piaccia già.

Cambiò canale: ma perché tutti dovevano decidere che a lui uno banale e insulso come Sawada Tsunayoshi doveva per forza piacere, poi?!

 

 

 

«Ohi.»

Ecco gli scocciatori, pensò istantaneamente sentendo quella voce, arrendendosi a rinunciare alla tranquillità di cui aveva goduto fino a quel momento.

Non si degnò comunque di alzare lo sguardo verso chi aveva parlato.

«Oya, oya… sei sempre portatore di scocciature, tu.» pronunciò, con la solita ironia sottile che di certo non le rendeva particolarmente simpatico.

Uno schiocco di labbra stizzito tolse ogni dubbio su chi fosse andato a cercarlo.

E soprattutto per conto di chi: perché Gokudera Hayato non sprecava tempo a rintracciarlo se non perché il Decimo glielo aveva chiesto.  

«Mi risparmierei di vederti, ti assicuro. Ma il Juudaime sta per partire e sei tu a dover andare in missione con lui, visto che servono le arti illusorie..» chiarì seccato l’altro, una sigaretta fra le labbra e lo sguardo di chi volendo ti prenderebbe più che volentieri a calci in culo anziché invitarti da qualsiasi parte, sia anche per lavoro.

Mukuro finalmente si alzò, dandosi un paio di pacche sui pantaloni per liberarsi dei fili d’erba e voltandosi infine verso il Guardiano della Tempesta: «In queste cose ufficiali non è Chrome a presenziare per il ruolo di Guardiano della Nebbia?» gli fece notare, quasi a ridicolizzare una sua stupida dimenticanza.

Gokudera fece mentalmente appello a tutta la sua (scarsa) pazienza: «Sì, signor ovvietà, quindi se sono qui a costringermi a vederti per più di dieci secondi ci sarà un motivo. Chrome è in missione.» dichiarò seccato dall’inutile protrarsi di quella conversazione.

A ben pensarci, Chrome era anche passata a salutarlo prima di andare.

Si accigliò appena, infastidito dal brusco e obbligato cambio di programma; portò entrambe le mani in tasca e si mosse quindi verso Gokudera, oltrepassandolo e puntando all’interno della magione.

«Quanto dovrebbe durare la cosa?» si informò.

«Dipende da quanto faranno cilecca le tue illusioni.» lo provocò l’altro, senza riuscire a resistere. Mukuro voltò lo sguardo il giusto per osservarlo, un sorrisetto arrogante sulle labbra.

«Magari potrei anche far cilecca. Sarebbe più facile lasciar uccidere Sawada Tsunayoshi da terze persone e appropriarmi poi del suo corpo.» fece presente, nel tono tutta la calma del mondo.

Differentemente da lui, Gokudera – sigaretta buttata a terra e spenta l’attimo prima – digrignò i denti rabbioso: «Non azzardarti nemmeno, bastardo. Non so perché il Juudaime si ostini a trattare uno come te come un componente della Famiglia, non ho voce in capitolo. Però stai pur certo» continuò, avvicinatosi a lui e l’aria di chi non è mai stato così serio in vita sua «che se gli succede qualcosa mentre è con te, ti ammazzo con le mie mani.» minacciò poco velatamente.

Mukuro si limitò ad un «Mpf» derisorio, segno che non lo aveva nemmeno preso sul serio.

«Non sarà questo il caso.» assicurò però: «Anche se prima o poi potrebbe succedere. E più che con me, dovreste prendervela proprio con lui, no? Non è colpa mia, se il suo testardo buonismo lo porterebbe a fidarsi anche dei sassi o di un uomo che gli punta la pistola alla tempia minacciando di ucciderlo.» fece notare sprezzante, allontanando lo sguardo da lui e riprendendo ad allontanarsi.

Avvertì chiaramente un’imprecazione e un insulto da parte dell’altro, e solo in un secondo momento i suoi passi muoversi dietro di lui nella stessa direzione.

 

Capiva che quella missione richiedesse tecniche illusorie, ma che addirittura avessero mandato solo lui con Sawada gli sembrava una cattiveria verso se stesso, ovviamente.

Al contrario, il Decimo dei Vongola non ne sembrava infastidito: non era esattamente a suo agio, quello no, e supponeva che non fosse possibile proprio a causa della sua presenza. Tuttavia non sembrava nemmeno particolarmente insofferente.

Mentre la macchina si muoveva veloce lungo la strada, seduti entrambi sui sedili posteriori guardavano ognuno fuori dal proprio finestrino e così era stato per l’ora di tragitto precedente; terribilmente noioso.

«Uhm» lo sentì mormorare, avvicinandosi appena al sedile del conducente: «potremmo fermarci un attimo?» domandò.

Una delle tante cose che Mukuro trovava snervanti di lui, era quel continuo chiedere per favore, come se non fosse il Boss e una sua parola non fosse sufficiente. O non fosse legge.

Il conducente fermò immediatamente la macchina nel primo punto in cui fu possibile accostare, senza fare la minima domanda naturalmente. Tsuna aprì lo sportello e scese: Mukuro ne approfittò per spostare lo sguardo indisturbato sul castano, o almeno la porzione di corpo che ne vedeva.

Poggiato con il gomito allo sportello, in una posa rilassata, sembrava stare sgranchendo le gambe o prendendo aria, semplicemente.

Sbuffò seccato. Perché non fare un pic-nic prolungando la loro coesistenza in quella macchina, no?

«Dovremmo sbrigarci, Decimo.» lo canzonò dopo essere sceso a sua volta, poggiandosi comodamente al tetto dalla macchina con lo sguardo verso il castano: «Il paesaggio possiamo ammirarlo dopo.» insinuò.

Tsuna si voltò, accigliandosi in qualcosa che era l’ombra di un broncio più che altro.

«Lamentati con te stesso. Siamo in macchina da un’ora e mi sembra di viaggiare con uno che sta meditando di suicidarsi dal finestrino piuttosto che passare altri cinque minuti a meno di dieci metri di distanza da me.» parlò schiettamente, fissandolo offeso.

Il Guardiano della Nebbia non poté non stupirsi almeno un minimo: per tutto quel tempo in cui l’altro era sembrato preoccupato per la missione, in realtà stava pensando…?

«Kufufu, non puoi biasimarmi, Tsunayoshi-kun.» gli fece presente, sibillino: «Dal momento che passare il mio tempo con te non era esattamente quel che avevo pianificato, né è la cosa che preferisco fare nel tempo libero.» replicò bastardo.

Tsuna sospirò rassegnato, rientrando in macchina e chiudendo seccamente lo sportello; Mukuro lo imitò, più calmo nei gesti.

Fu solo dopo dieci minuti che avevano ripreso ad avanzare con la macchina lungo la strada che il castano parlò di nuovo: «Mi dispiace per questa costrizione, non ti avrei obbligato se non fosse stato necessario. Me la sbrigherò più velocemente possibile.» disse solamente, lo sguardo davanti a sé che andò a rifugiarsi nuovamente nel panorama che sfrecciava fuori dal finestrino.

Non visto, Mukuro assunse un’espressione piuttosto irritata.

Eccolo lì, di nuovo a scusarsi quando si sarebbe dovuto arrabbiare, a subire quando avrebbe dovuto approfittare del potere e della posizione che aveva; invece lo perdonava senza nemmeno bisogno che lui – Mukuro – facesse o dicesse nulla per meritarlo, o lo chiedesse.

Non che lo desiderasse, o che si sarebbe scusato se Sawada Tsunayoshi gliene avesse lasciato il tempo.

Ma non lo sopportava. Odiava quel suo modo di fare così irritante.

«Mukuro?» si sentì chiamare, anche se l’altro non aveva portato lo sguardo su di lui.

Nonostante l’assenza di una risposta, Tsuna sembrò prendere il silenzio come un suo incalzarlo a parlare: «Gli altri erano già in missione, ma se avessi portato con me Gokudera-kun o Yamamoto… loro avrebbero senz’altro accettato. Soprattutto Gokudera-kun non avrebbe esitato un attimo. Ma io ho già chiesto troppe volte ai miei Guardiani di uccidere al posto mio. E Lambo ai miei occhi sarà sempre un bambino, e non vorrei renderlo un assassino… finché posso evitarlo. Per questo ho chiesto a te.» pronunciò, il tono basso ma udibile nel silenzio della macchina.

Mukuro sospirò: di nuovo parlava come se invece lui fosse uno capace di uccidere a sangue freddo senza sentirsi un assassino e avere sensi di colpa per i due anni seguenti come minimo.

Proteggere quando quello che aveva più bisogno di essere protetto era lui.

Era disgustoso, essere alle dipendenze di una persona del genere ed essergli persino debitore di averlo tirato fuori da Vindice.

Per un patto di alleanza e lealtà che lui non aveva nemmeno mai pronunciato.

Lo odiava, come non odiava nessun altro al mondo, ne era certo.

«Sei detestabile.» pronunciò crudelmente, mentre una mano si posava su un’altra che tremava appena – perché per quanto si sporcasse di sangue, non si sarebbe mai abituata alla vita di un uomo che scivolava fra le sue dita – abbandonata sul sedile con falsa casualità solo per essere afferrata piano, ed essere guidata.

Odiava quelle parole pronunciate, che lo avevano incatenato e trascinato più in profondità delle catene di Vindice o di qualsiasi altra prigione, obbligandolo ad una fedeltà che stonava addosso ad uno come lui.

Io mi fido di Mukuro, e tanto basta.

Lo odiava, come non odiava nessun altro al mondo, anche se ora intrecciava le dita alle sue, sostenendo quella sua fragilità che non lo avrebbe mai reso il Boss perfetto che molti pensavano fosse.

Di questo ne era certo.

 

 

 

Note e lamentele dell’autrice

Kotodama: “lo spirito insito nelle parole”. In Giappone si crede che le parole abbiano una forza spirituale che possa addirittura influenzare il futuro e il destino di una persona, nel momento in cui vengono pronunciate.

Niisan: fratellone, fratello maggiore.

Senpai: compagno più anziano a scuola o sul lavoro. L’anzianità può essere data da un fattore di età, così come dalla presenza da più tempo sul posto di lavoro.

 

La citazione in corsivo ad inizio capitolo è del manga Wild Adapter.

 

Odio quando il mio OTP include un personaggio che non so come gestire DD: *lamentela inutile*

Grazie a chi ha seguito fin qui <3

 

   
 
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