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Autore: Zackneifan    18/04/2011    5 recensioni
Cissnei, come sempre. Il suo passato, prima di tutto, e successivamente la congiunzione con un suo ipotetico futuro.
Non contava più che cosa fossimo stati in passato, se figli di un dirigente o orfani disadattati.
Non contava più l’orgoglio di chi aveva indossato la propria divisa per scelta, nè l’ansia di coloro che, come me, si erano trovati costretti a farlo.
Contava che eravamo bambini. Ed eravamo Turks.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Cissnei
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
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Premessa: questa fanfiction, ormai vecchia di qualche mese, era inizialmente destinata a partecipare all'Only Chance Contest indetto da Valy_Chan. Per vari problemi di tipo organizzativo nel concorso stesso, oltre che per una mia imminente partenza, ho preferito ritirarmi e postare la storia in ogni caso. Per chi non lo sapesse, il contest consisteva nel creare una fanfiction con prompt casuali di diverso tipo. Tanto per dare un minimo di senso alla fanfiction (che, comunque, spero risulti gradevole di per sè), ecco le basi da cui sono partito

Tracce seguite:

Citazioni:

Heinrich Himmler: (nella Parte I)

  • I giuristi sono ladri, truffatori e sfruttatori legalmente autorizzati.
  • Noi avevamo il diritto morale, noi avevamo il dovere verso il nostro popolo di eliminare quel popolo che voleva eliminare noi.
  • The best political weapon is the weapon of terror. Cruelty commands respect. Men may hate us. But, we don't ask for their love; only for their fear.
Musica:

Aphrodites Child - Rain and Tears (Parte I e Parte II)

Immagini:

Silent Reflection (http://www.flickr.com/photos/renej/4959770384/) (Parte II)



Shed no Rain

 
 
Part I - Gaiden
 
La pioggia, quella la ricordo; una pioggia gelida e implacabile, tanto violenta da far tremare i pilastri stessi della città. Precipitava in modo quasi innaturale, abbattendosi sul metallo, riempiendo il Piatto di sinfonie distorte e stonate.
Noi eravamo lì, al centro della piazza, nel tentativo disperato di nasconderci gli uni dietro gli altri. Ogni distinzione era svanita insieme alla luce del sole, strappando in un attimo le maschere che avevamo tentato di indossare. Non contava più che cosa fossimo stati in passato, se figli di un dirigente o orfani disadattati.
Non contava più l’orgoglio di chi aveva indossato la propria divisa per scelta, nè l’ansia di coloro che, come me, si erano trovati costretti a farlo.
Contava che eravamo bambini. Ed eravamo Turks.
 
Mi guardavo intorno, e non vedevo altro che volti identici al mio. Non ricordo quanti fossero, nè a chi appartenessero; in quella notte eravamo soli, troppo confusi e troppo spaventati per pensare ad altri che a noi stessi. Ricordo però il vento, e il modo in cui la massa umana mi si accalcava attorno.
Alcuni tremavano per la paura, altri per il freddo. Le folate di vento ci colpivano da ogni direzione, infiltrandosi attravero la stoffa bagnata delle nostre uniformi.
Frammenti di nozioni mi riaffioravano casualmente alla memoria, risalendo la voragine oscura nella quale avevo nascosto gli anni dell’addestramento.
 
Un bravo agente non deve mai curarsi delle casualità durante il lavoro, siano esse climatiche o di altro genere; è per questo motivo che i Turks non possiedono divise invernali.
 
Non avevo mai compreso appieno il significato di quelle parole. Mai, fino a quel giorno.
 
Un lieve tremore tutto intorno, e all’improvviso il tempo sembrò fermarsi.
Perfino la tempesta calò d’intensità, mentre un rumore di passi maniacalmente regolari echeggiava dal corridoio metallico alle nostre spalle.
Nessuno osò voltarsi, nemmeno per un istante. Restammo immobili, con il fiato sospeso, fino a quando gli spessi tacchi di legno non ebbero terminato il loro percorso circolare.
Il nuovo arrivato squadrò ognuno di noi con aria impassibile.
Ci superava solamente di pochi centimetri, e il suo volto dai tratti asiatici non mostrava molti più anni dei nostri.
Nei suoi occhi, tuttavia, l’ingenuità che è propria dell’infanzia sembrava scomparsa da anni.
 
Si avvicinò a un ragazzo tra i più grandi, intento a scrutare una pozzanghera per trattenere le lacrime.
Senza dire una parola, afferrò la sciarpa che portava al collo e la gettò nel fango.
Fu a quel punto che il suo volto si lasciò andare ad un’unica traccia di emozione non repressa. Il disgusto attraversò i suoi lineamenti per un istante, prima di annegare nuovamente nella piatta indifferenza.
 
“Ci divideremo in tre gruppi, tanti quanti sono gli obiettivi. In circostanze diverse sarebbero stati sufficienti tre operativi, ma il presidente ha voluto bilanciare la vostra scarsa esperienza con il numero. Non è mio compito discutere questa scelta, nè vostro.”
 
Iniziò a parlare lentamente, la voce libera da qualsivoglia accento o inflessione. Non aveva neppure perso tempo con una presentazione; sembrava perfettamente consapevole delle dicerie che circondavano la sua figura.
 
“Quei reporter hanno delle foto che non dovrebbero avere. Non vi è dato sapere altro che questo. L’incarico sarà considerato un successo se riporterete ogni foto alla sede centrale ShinRa. Se quelle foto dovessero cadere nelle sporche mani di qualche avvocato o giurista, l’intera responsabilità ricadrà su di voi. Non ci sono altre richieste.”
 
Sentii qualcuno deglutire, fuori dal mio campo visivo. Ognuno di noi conosceva il significato celato dietro quelle ultime parole.
 
Quando le uniche spiegazioni riguardano l’obiettivo, i mezzi utilizzati per raggiungerlo passano in secondo piano.
 
Quando fu sicuro che il messaggio fosse stato compreso da tutti, Tseng riprese a parlare.
“Avete donato le vostre vite alla compagnia, ed è tempo che la compagnia ne faccia uso. Non abbiate pietà per gli oppositori della ShinRa, poiché liberare il mondo da chi trama per la sua caduta è un onore ancora prima che un dovere.”
Capimmo presto che stava citando a memoria un discorso del presidente, pronunciato anni prima in occasione della nascita del reparto.
Nessuno si sorprese della cosa. Le leggende su Tseng erano uno stratagemma usato spesso per spaventare le nuove reclute, oltre che per fornire un esempio perfetto dell’essenza di un Turk.
Tutti conoscevano la sua storia, perfino le reclute giovani come noi. Era il ragazzo che aveva costretto sè stesso nei panni di un uomo, prima ancora che il suo corpo lo permettesse. Era l’unico Turk in grado di rispettare ogni regola, portando comunque a termine ogni cosa con successo. Era colui che aveva scelto di incutere paura prima che rispetto, preferendo essere temuto piuttosto che amato.
I più spavaldi, tra una risata e l’altra, sostenevano che trascorresse perfino la notte alla sede ShinRa. Quando scoprivano di essere stati assegnati a una missione da lui supervisionata, tuttavia, i loro sorrisi svanivano in fretta. Perfino tra i piani alti della compagnia, pochi si rivelavano disposti a trattare direttamente con Tseng; l’aura di inquietudine emanata da quel ragazzo li metteva a disagio, li rendeva dimentichi del proprio potere.
 
Il discorso terminò più in fretta di quanto avremmo desiderato, e iniziammo a muoverci.
Lo sguardo immobile di Tseng, più gelido e penetrante della pioggia stessa, ci seguì mentre ci dirigevamo verso gli obiettivi. La sua attenzione quasi irritata lo tradiva, palesando il suo profondo disprezzo verso la nostra inesperienza.  Continuammo a correre, lo sguardo basso, ignorando i brividi freddi che ci ricoprivano come una seconda pelle.
Più che l’ansia di raggiungere l’obiettivo, fu l’istinto di fuga a spronare le nostre gambe.
Ma quando svoltammo nel viale, neppure allora osammo fermarci. L’esito della missione aveva perso qualunque valore, ormai soppiantato dalla paura e dal desiderio di porre fine a quell’incubo.
La nostra ignoranza ci aveva protetto, giorni prima, quando non sapevamo cosa ci aspettasse. Fu solo sotto quella pioggia infernale, quando ne cogliemmo un breve spiraglio, che il terrore si fece strada dentro di noi. Dopotutto, eravamo bambini. E i bambini temono più la penombra che il buio completo.
 
Ricordo sagome di alberi, rese pallide e scheletriche dall’Inverno, tese verso di noi come le mani di un cadavere. Ricordo il rumore degli stivali, impregnati di pioggia, che affondavano in pozzanghere maleodoranti. Più di ogni cosa, ricordo il lampo improvviso che squarciò il cielo alla fine della nostra folle corsa.
 
L’uomo era inciampato ancora prima di vederci, si agitava sull’asfalto cercando di rialzarsi. Una frattura alla caviglia, pensai in uno dei miei ultimi momenti di lucidità.
Teneva la borsa stretta tra le braccia, in un vano tentativo di ripararla dalla pioggia e dal fango. Capimmo subito che le foto erano al suo interno.
Un ragazzo uscì dal gruppo e fece qualche passo verso di lui, muovendo goffamente una mano verso la fondina. Era il più grande del gruppo, e l’unico a sembrare almeno lontanamente un vero Turk. Il cranio rasato e la corporatura robusta non bastavano però a celare del tutto la sua preoccupazione. Camminava lentamente, la schiena curva e il volto segnato dalla preoccupazione.
Troppo lentamente.
Una porta si spalancò all’improvviso, gettando un fascio di luce arancione sulla strada. Ne emerse una figura gigantesca, resa ancora più minacciosa dalla lunga ombra proiettata sul cemento.
Prima che potessimo reagire, afferrò il fotografo per le spalle e iniziò a trascinarlo velocemente verso la porta.
Gli anni di addestramento mi urlavano nella mente, ma le regole che avevo imparato sotto i colpi del bastone divennero all’improvviso confuse e teoriche.
Rimanemmo tutti immobili, con la luce della casa a illuminarci fiocamente gli occhi sbarrati.
Il ragazzo rasato indietreggiò per un attimo, colto alla sprovvista dal rivolgimento improvviso della situazione.
I due arrancarono fino all’ingresso, aggrappandosi agli stipiti, allontanandosi ancora e ancora dalle nostre inutili uniformi.
 
Fu solo col rumore assordante di uno sparo che la lucidità tornò tra i miei pensieri.
Le mie dita rimasero disperatamente aggrappate al grilletto, i miei occhi osservarono i filamenti di fumo spazzati via dalla pioggia.
Tre corpi giacevano agonizzanti sulla strada, appena al di fuori del cono di luce. Osservai il loro sangue mescolarsi in un’unica corrente, per poi fluire lentamente verso le fessure nel Piatto.
Non capivo.
Mentre gli altri mi fissavano, la mia mano tremante abbandonò la presa sulla pistola. L’arma cadde, colpendo con un tonfo la superficie rossa di una pozzanghera.
 
Il proiettile aveva colpito al petto entrambi gli obiettivi, in un’unica inarrestabile traiettoria. Ma non erano solo loro a versare sangue sull’asfalto di Midgar.
Il giovane Turk rasato si stringeva una spalla, in silenzio, soffocando tra i denti i gemiti di dolore. La pallottola aveva perforato carne ed osso, deviando leggermente il proprio corso. Ancora oggi non riesco a spiegarmi per quale motivo si fosse gettato nella linea di fuoco.
Alcuni sostengono che sia stato un gesto cosciente, atto a trasformare il mio sparo in un’ultima possibilità di successo... Dubito di questo, sinceramente. Le sue azioni di quella notte, come quelle di tutti gli altri, furono dettate solo dalla paura e dal caso.
 
Tseng ci raggiunse poco dopo, con un’espressione indecifrabile sul volto. Fece qualche passo misurato, apparentemente incurante della pioggia e del vento. Nell’esaminare la situazione, parve per un attimo che le sue pupille si fossero dilatate per la sorpresa.
Quell’attimo finì in fretta.
 
Chiamò i soccorsi con una chiamata essenziale, poi si fermò davanti a me e mi fissò negli occhi.
“Perché hai sparato?”
“Io... Non lo so.”
Non potè vedere le mie lacrime, mentre rispondevo. La pioggia si mischiava al pianto sulle mie guance, rendendo impossibile distinguere l’una dall’altro.
L’unica cosa che vide, nella penombra invernale, fu una ragazzina dai capelli rossi che aveva appena sparato a sangue freddo a due uomini.
“Presentati domani alla sede centrale, chiedi di parlare con il signor M. Pick. Una volta che i paramedici avranno terminato, di’ a quel ragazzo di fare lo stesso.”
Mentre si allontanava in silenzio, un’ombra di stanchezza e di dolore gli attraversò il volto.
Un istante dopo era scomparsa, lavata via anch’essa dalla pioggia insistente.
 
Fu così che, tra tutti i partecipanti alla prima missione,  i Turks ottennero due nuove reclute effettive.
Nessuno si prese mai la briga di dirmi cosa accadde agli altri, nè mi interessò mai saperlo.
Fummo gli unici ad agire, e gli unici ad entrare a pieno titolo nella ShinRa.
 
 
 
 
Part II – By the Swamp
 
Il sole sta tramontando lentamente, al di là dei picchi frastagliati delle montagne. Profili lontani e irregolari, pieni di promesse e di libertà appena immaginate. Perfino il piatto superiore di Midgar, nella sua arrogante elevazione verso il cielo, non può sperare di competere con quelle cime.
Lungo i pendii scoscesi che dalla vetta conducono alla pianura, trova spazio qualche depressione del terreno, colma di acqua stagnante e di nebbia.
Queste paludi sono solamente un limbo, perennemente sospeso tra la servile sicurezza della città e la libertà suprema offerta dai monti. Forse è stato il caso a spingermi a sostare qui, o forse i miei pensieri cercavano il luogo più adatto a rievocare antichi dubbi.
Dunque è qui che dovrei ripensare un’ultima volta alla mia decisione? E’ in questo acquitrino che dovrei comprendere la follia della mia fuga, o la saggezza di un ipotetico ritorno?
Potrei ancora riprendermi la mia vita, il mio lavoro, la mia famiglia. Potrei dimenticare ogni cosa, e comportarmi come se nulla fosse successo. Potrei ricominciare a credere in un futuro migliore, e non più vago e torbido come queste acque.
La vecchia Cissnei non si sarebbe lasciata sfuggire quest’ultima occasione di salvezza; sarebbe corsa verso la città, senza farsi alcuno scrupolo. Prima dell’istinto, avrebbe seguito il buonsenso.
Eppure, dentro di me, la vecchia Cissnei è morta.
Tseng l’ha uccisa, comunicandole la morte di Zack con quella sua voce sommessa e disinteressata. La persona che ero ha cessato di esistere, lasciandosi dietro solamente un guscio vuoto, privo di identità.
La mia mente è diventata quella di un animale, incapace di razionalità e di consapevolezza. Ha sentito il richiamo di una libertà utopica, lontana dai carnefici dell’uomo che amavo. Alla fine mi ha spinto a lasciare Midgar, senza conoscere la destinazione della mia folle fuga.
Ora sono qui, a metà del mio percorso verso la morte certa, frenata in parte da una neonata coscienza di me. E finalmente capisco ciò che è davvero cambiato, in quell’istante.
A volte la vita ci porta a considerare gli eventi da punti di vista opposti, senza alcun preavviso. E’ stato questo a sconvolgere ciò in cui ho sempre creduto.
Dopo anni di omicidi e di crimini, non avrei mai immaginato che un’unica morte potesse essere in grado di privarmi di me stessa.
Ricordo il momento come se fosse ieri, nonostante ormai siano trascorsi diversi giorni. Ero sull’eliporto della sede centrale, quando Tseng mi disse ogni cosa. Lui mi guardava, impassibile ma attento, come un predatore pronto a cogliere una reazione nella preda.
Per qualche secondo ogni cosa mi sembrò irreale. Mi sentii una spettatrice, esterna alla rappresentazione della mia vita.
Quando tornai bruscamente in me, in un effimero attimo di lucidità, notai il pianto inarrestabile che sgorgava come veleno dai miei occhi arrossati.
In un istante, la mia mente tornò a quel giorno tempestoso di dieci anni prima. Guardai il sole che splendeva dietro la sede ShinRa, e capii che questa volta nulla avrebbe potuto celare il mio dolore.
Le mie lacrime erano lì, esposte allo sguardo penetrante di Tseng, e non avevo alcun motivo nè alcun modo di negarle.
 
Ricordo che la rividi in quel momento, mentre osservavo impotente il riflesso delle mie lacrime nei suoi occhi opachi. Era lei, quell’unica espressione di dolore  e di preoccupazione che non avrei mai pensato di cogliere ancora. La stessa che, anni prima, si era scolpita nella mia mente in maniera indelebile.
Questa volta Tseng non ebbe la prontezza di sopprimerla, nè la forza per voltarmi le spalle e nascondere il viso. Dopotutto, eravamo diventati una famiglia.
Forse, guardandomi, era già consapevole di cosa sarebbe successo nell’immediato futuro. Probabilmente sapeva di aver spezzato quell’instabile equilibrio che regola la vita di un Turk, e che separa prudentemente la vita privata dal lavoro.
Sapeva, in fondo, che quello sarebbe stato il mio ultimo giorno di servizio.
 
“E’ inutile versare lacrime. Da parte nostra, abbiamo fatto tutto il possibile.”
Si sforzava di mantenere una voce impassibile, ma i suoi lineamenti sconvolti erano sufficienti a vanificare ogni tentativo.
Le sue parole mi fecero male, per un semplice motivo. Sembrava convinto di avere la coscienza pulita.
Forse pensava addirittura che la colpa non fosse da imputare alla Shinra; allontanai quel pensiero in fretta. Sperai di non sentire mai Tseng esprimere quell’opinione in modo diretto.
 
Mentre se ne andava in silenzio, riuscii solo a sussurrare la domanda che avrei voluto rivolgergli.
“Che cosa abbiamo fatto?”
Per  il tempo di un unico passo sembrò indeciso, come se la sua proverbiale decisione avesse vacillato. Poi proseguì per la sua strada, senza voltarsi. Ancora adesso, a volte, mi assale il dubbio che il vento abbia portato le mie parole flebili fino al suo orecchio.
 
I miei ricordi iniziano già a scivolare via: la mia coscienza li confonde, come per autodifesa, scagliando pietre nello specchio della mia memoria. Ogni cosa sembra essere avvenuta secoli fa, in un’esistenza profondamente diversa da quella attuale.
La scomparsa di Zack ha portato con sè problemi che non avrei mai creduto di dover affrontare... Troppi, probabilmente, per essere sopportati tutti insieme.
Dentro di me, so di aver lasciato una traccia di morte lunga quanto un’intera vita. Per me non significava nulla, quando ancora lo consideravo solamente “un lavoro”... Ma ogni responsabilità è ricaduta su di me, quando ho sperimentato da vicino cosa sia la morte.
Con i Turks ho imparato a non temere troppo il rimorso, e di certo le vittime del mio passato non mi impediscono di dormire la notte. Eppure, ho deciso che il mio futuro sarà diverso.
Non esiterò a uccidere, se necessario, ma non sarà per insensati ordini superiori. Sarà per preservare la mia libertà.
Il valore della vita umana è ben più alto di quello che mi hanno insegnato; forse perfino Tseng potrebbe rendersene conto, un giorno.
 
Mentre il sole rende rossa la nebbia con i suoi ultimi raggi, capisco di aver raggiunto la risoluzione dell’enigma. Nonostante la mia coscienza sia rinata del tutto solamente adesso, credo che l’istinto mi abbia portato a imboccare la giusta via senza che me ne rendessi conto. Mi trovo già sulla soglia della strada che può portarmi alla libertà che desidero. Mi basterà solo percorrerla fino alla fine.
Penso che ci sia ancora un’ultima cosa, tuttavia, che ho bisogno di fare. Midgar merita il mio odio, ma in un certo senso merita anche il mio amore.
E’ tempo di dare il mio addio alle sue tentazioni ingannevoli.
Solo rivolgendo un ultimo saluto alla città delle utopie infrante,  potrò abbandonare per sempre il mio passato.
Credo di poter pensare a un posto adatto.
 
 
To be continued... Kinda
 
 
  
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