Di
colpo spalancò gli occhi e si
ritrovò a fissare il soffitto della sua stanza.
Per l’ennesima volta era stato
sul punto di scoprire qualcosa e per l’ennesima volta aveva
finito con lo
svegliarsi improvvisamente.
Da quando aveva ripreso
conoscenza in quel maledetto letto d’ospedale gli accadeva
quasi ogni notte.
Sapeva che la chiave dei suoi
ricordi era da qualche parte nella sua testa, eppure dopo settimane non
era
ancora riuscito a trovarla, così, l’unica
reminiscenza che aveva degli ultimi
quattro anni rimaneva quello straordinario sogno.
Quello stesso sogno che aveva
raccontato fino a perdere la voce e che non sapeva più
quante persone tra
dottori, psicologi e colleghi aveva sviscerato alla ricerca di quella
molla che
avrebbe potuto liberare la sua mente
dall’oscurità. Fino ad allora, però,
non
erano giunti a nulla.
Sapeva che i protagonisti erano
gli squints con cui lavorava, a cui si erano aggiunti altre persone che
avevano
fatto parte della sua vita negli ultima quattro anni. Sapeva che
“Il
Laboratorio” non era un night club, ma un vero laboratorio
in cui si analizzavano le vittime di crimini violenti o
comunque coloro che necessitavano di un identificazione. Sapeva che la
dottoressa Brennan era solo la sua
collega.
O almeno era ciò che lei gli
continuava a ripetere quando cercava di trovare una spiegazione al
fatto che
nel suo sogno loro due erano innamorati, sposati e in attesa di un
figlio o di
una figlia.
Lei gli era accanto quasi in ogni
momento, faceva di tutto per aiutarlo, ma quando lui le chiedeva
delucidazioni
sul loro rapporto lei semplicemente spariva
e non intendeva solo fisicamente, ma anche emotivamente, era come se
sentisse
il bisogno di mettere una distanza tra di loro.
Ma non era quello a scoraggiarlo,
ogni volta, dall’insistere, quanto, piuttosto, il lampo di
dolore che le
attraversava lo sguardo come un fulmine nel pomeriggio estivo dei suoi
occhi.
La stessa sofferenza che aveva
letto in lei quando risvegliandosi dal coma le aveva chiesto chi fosse.
Lei aveva cercato di nasconderla e
gli aveva risposto di essere la sua partner lavorativa e che il suo
nome era
Temperance Brennan, ma che lui non la chiamava mai così.
Le aveva chiesto allora quale
soprannome le aveva dato, lei, però, si era rifiutata di
dirglielo, sostenendo
che non era importante. Lui, comunque, aveva capito che stava mentendo,
l’aveva
compreso anche da quella lieve traccia umida sulla sua guancia che
brillava
come una cicatrice.
Quella lacrima aveva scatenato in
lui un istinto di protezione talmente forte che per un attimo gli era
girata la
testa, l’unico da cui non sembrava, però, in grado
di farlo era lui stesso.
Leggeva nei suoi occhi una tristezza
persistente che si intensificava ogni volta che posava lo sguardo su di
lui,
come se la sua sola vista fosse in grado di amplificare il suo
supplizio.
Si odiava per quello, ma non
sapeva come evitarlo dato che lei si rifiutava cocciutamente di
lasciarlo solo.
Si sforzava in ogni momento di
ricordare, perché sperava che in quel modo avrebbe potuto
lenire la sofferenza
di lei.
Passava ogni singolo minuto del
suo tempo a cercare di rammentare: visitava suo figlio, andava nel suo
ufficio
o al laboratorio, aveva persino partecipato ad alcune indagini, ma i
suoi
ricordi restavano inafferrabili.
Lei si rifiutava di parlare di
loro al di là del lavoro, ma per quello c’era
Angela che era ben lieta di
raccontare, gli aveva fornito tutta una serie di indizi sul fatto che
ciò che
c’era tra lui e Brennan non era solo un rapporto di lavoro.
Loro erano amici,
confidenti, compagni: ogni volta che era successo qualcosa di
importante nella
vita di uno dei due l’altro era stato presente, ed ogni volta
che erano stati in
pericolo erano riusciti a salvarsi solo lavorando insieme.
La gente sa bene qual è il modo
migliore per fargli del male. Fare del
male a te.
Era una frase che l’Angela del
suo sogno aveva detto a Temperance, ma aveva la sensazione che fosse
perfetta
non solo per il suo alter-ego, ma anche per lui stesso,
perché, al di là
dell’oblio della sua mente, sapeva di essere pronto a dare la
vita per lei e
proprio per quello si odiava per la sua incapacità di
ricordarla.
Ma come diavolo era potuto
succedere, come aveva fatto a scordarsi di una donna tanto meravigliosa?
Sì, certo, aveva subito
un’operazione al cervello, ma non era una giustificazione
sufficiente.
Doveva ricordare. DOVEVA!
Era imperativo, era necessario
per lei, perché la vedeva ogni giorno chiudersi un
po’ di più e anche se non
sapeva come fosse possibile sapeva che lei stava tornando quella di prima . Un prima che non sapeva
collocare o esprimere, il ritorno di un passato che lui sapeva di dover
impedire.
Doveva ricordare ad ogni costo
perché vederla soffrire lo stava uccidendo.
Doveva ricordare perché l’amava.
Doveva ricordare perché le aveva
promesso che non l’avrebbe mai abbandonata.
Aveva trovato la chiave.
I ricordi lo travolsero, quattro
anni che improvvisamente tornavano alla luce.
I sorrisi, gli abbracci, le
lacrime, le chiacchierate e tutti gli altri singoli momenti della loro
amicizia
e partnership.
Gli ci volle più di un’ora per
riprendersi da quell’invasione, ma appena recuperata la
lucidità afferrò le
chiavi e corse alla macchina.
Guidò come un pazzo fino a casa
di lei, parcheggiò e salì i gradini di corsa per
poi attaccarsi al suo
campanello.
Dopo qualche minuto e un po’ di
trambusto la porta si aprì.
“Sono tornato... Bones”