Gli ultimi raggi di un sole caldo e, fino ad allora, abbagliante, dipingevano il cielo di riflessi rossastri, tendenti al viola negli spazi più lontani.
L’astro guida stava tramontando per noi e sorgendo per altri. Ma, mentre per altri si sarebbe passati da un piacevole fresco al calore di un nuovo giorno, il nostro tramonto non trascinava via con sé l’opprimente cappa di afa, che da giorni sembrava immobilizzare le cose e la natura, e fissare in lunghi e faticosi attimi lo scorrere delle azioni.
In questo scenario, con in lontananza la vista di un mare che sembrava rubare i colori al suo cielo, mentre questo si specchiava vanitosamente in esso, io e i miei compagni ci preparavamo all’azione. Il piano era preciso e ognuno di noi l’aveva fatto proprio, sapendolo più che ricordandolo, come si sa chi si è. Il momento era quasi giunto e un fremito ribollente ci percorreva, quando ecco il segnale: era giunto il momento di alzarsi in volo, di percorrere quel cielo smaltato e attaccare.
Il nemico era là dove doveva essere.
Fermo, ignaro, addormentato.
Forse nemmeno sospettava che era giunto il momento.
Era tutto facile. Troppo facile.
Arrivati nei pressi dell’obiettivo non riusciamo a mantenere la quota. Qualcuno precipita, la maggior parte effettua un atterraggio di fortuna. È un attimo, e siamo a terra, chi stordito, chi già morto. Qualcosa aveva rallentato, interrotto e arrestato il nostro volo. E qualcosa, lì a terra, attaccò il nostro apparato respiratorio, lentamente ma tenacemente, un acre senso di soffocamento, un freddo presentimento di morte si fece strada in noi. Si può sfuggire a ciò che si vede, ma non alle armi chimiche.
E noi non avevamo più scampo, solo a tre o quattro di noi fu concessa la fuga, tutti i nostri compagni sono rimasti là, freddi, avvelenati, morti.
(Diario di una zanzara sopravvissuta)