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Autore: L_Fy    10/05/2011    37 recensioni
...Se lo disse anche a fior di labbra, sottovoce: "Veronica Alberice Scarlini della Torre, sei uno schianto."
Aveva diciotto splendidi anni, era raffinata, ricca, alla moda, trendy da morire, più fashion di Paris Hilton, più glamour di Anna Wintour, più sensuale di Monica Bellucci. Nessuno del centinaio abbondante di ragazzi della sua scuola poteva non sbavare mentre lei passava senza degnarli di un solo sguardo, nessuna delle 2000 oche della sua scuola poteva non morire d’invidia, nessuno del corpo insegnanti poteva non rimpiangere di non avere avuto un solo grammo del suo allure nella loro triste, patetica esistenza.
Quindi, non poteva essere altrimenti: lui finalmente l’avrebbe guardata.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Assolutamente perfetto.
Il suo viso, naturalmente: le ci erano volute ore ma l’abile uso del make up aveva fatto il suo dovere e persino lei stessa, il più impalcabile giudice sull’argomento, non riusciva a trovarsi un solo difetto.
L’incarnato era dorato e luminoso, come si addiceva alla pelle ancora abbronzata di inizio settembre: gli occhi cangianti sul verdino, sensuali, sottolineati dal trucco prugna e oro che faceva parte della nuova collezione autunno inverno di Shiseido: semplicemente perfetto.
La bocca delicatamente imbronciata era quella che aveva subito più metamorfosi prima di quella versione definitiva: prima era prugna, poi è passata a un dorato troppo vistoso per approdare all’attuale neutro lucido. Perfetta.
Capelli lunghi neri, sfilati, odorosi di lacca e più impalcati della Cappella Sistina. Perfetti.
Collo lungo e aggraziato da cigno altezzoso, seno col giusto sostegno ma ben posizionato in vista, vita sottile e sinuosa. Perfetto.
Vestito intero, corto ma non troppo, scollato il giusto, color malva abbinato al trucco e agli orecchini pendenti. Perfetto.
Gambe da urlo, depilate, lisce, abbronzate, con il polpaccio delineato e fatto risaltare dal tacco 10 dei sandali viola. Perfetto, perfetto, perfetto.
Avrebbe usato persino le munizioni pesanti profumandosi di Chopard. Un classico infallibile, la bomba a mano della seduzione.
Sarebbe stata uno schianto. Se lo disse anche a fior di labbra, sottovoce: Veronica Alberice Scarlini della Torre, sei uno schianto.
Aveva diciotto splendidi anni, era raffinata, ricca, alla moda, trendy da morire, più fashion di Paris Hilton, più glamour di Anna Wintour, più sensuale di Monica Bellucci. Nessuno del centinaio abbondante di ragazzi della sua scuola poteva non sbavare mentre lei passava senza degnarli di un solo sguardo, nessuna delle 2000 oche della sua scuola poteva non morire d’invidia, nessuno del corpo insegnanti poteva non rimpiangere di non avere avuto un solo grammo del suo allure nella loro triste, patetica esistenza.
E infine, non poteva essere altrimenti: lui finalmente l’avrebbe guardata.
*          *          *
L’avrebbe guardata e gli sarebbero caduti gli occhi dalle orbite, rimbalzando contro le lenti degli occhiali. L’avrebbe guardata così intensamente che gli sarebbero colati quei dannati bulbi celesti in mezzo alle pagine dei suoi stramaledettissimi libri mentre si sarebbe chiesto disperato come aveva fatto a non notarla prima. Sì, stavolta sarebbe successo. Doveva succedere.
Veronica respirò profondamente, alzando il mento e Byron, il suo Scottish Terrier abbaiò nel modo un po’ monco che gli era caratteristico come per darle man forte. Gli lanciò uno sguardo affettuoso e grato: Byron era l’unico che sapesse di lui. Figurarsi se ne avrebbe parlato con Maria Lucrezia, Maria Beatrice o Maria Vittoria: l’avrebbero guardata come se avesse ammesso di aver contratto una qualche esotica malattia tropicale… anzi, peggio: l’avrebbero guardata come se avesse una stramaledetta, banale, plebea, disgustosa psoriasi. D’altronde, come dar loro torto? Se non fosse successo a lei ma a una di loro, anche Veronica le avrebbe guardate così. E invece questa cosa stava proprio succedendo a lei, in modo del tutto inaspettato, con una rapidità così sconvolgente da non permetterle di correre ai ripari finché era in tempo, con una profondità elementare da disarmarla completamente: lei, proprio lei, Veronica Alberice Scarlini della Torre, si era innamorata di Paolo Bianchi.
*          *          *
Ecco, l’aveva definitivamente pensato, che Yves Saint Laurent la perdonasse. Avrebbe avuto meno difficoltà ad ammettere che aveva contratto la lebbra, ma tant’è, le tragedie vanno affrontate coraggiosamente di testa, nevvero? Persino quelle più aberranti e sconcertanti che la vita propina. E il fatto di essersi innamorata di Bianchi… beh, un tale cosmico sconvolgimento andava affrontato prima o poi, non solo con un interlocutore canino, ma così, faccia a faccia con se stessi davanti allo specchio.
Come fosse successo proprio non se lo spiegava. Conosceva Bianchi dalla prima elementare. Scuola privata, naturalmente: l’istituto comprensivo di Santa Maria delle Rocche, frequentato dai rampolli delle famiglie più in vista della città… nonché dai figli dei bidelli, tali Bianchi, Fagotto, Ratti, Caputo e Bortolotti, per concessione molto cristiana dei genitori Dei dell’Olimpo. Questi villici figuri erano gente che per gli otto anni di scuola dell’obbligo erano stati trattati come sterco bovino da Veronica stessa e dalla sua ristretta cerchia di amicizie (la famosa e spesso citata créme de la créme dell’alta società). Lei e le sue amiche non avevano mai fatto niente di fisicamente sconveniente per ribadire le reciproche, ovvie posizioni sociali; si erano limitate a qualche frecciata verbale, qualche velato commento….
*          *          *
Flashback
Prima elementare: un bimbetto smilzo e sottile, dai fini capelli biondi, gli occhiali a fondo di bottiglia e l’aria timidissima, era fermo impalato al centro dell’aula gremita di bambini accompagnati dalle tate di tante diverse nazionalità. Disorientato, si guardò intorno cercando occhi amici ma incontrò solo ostili sopracciglia alzate sul suo grembiule nero da poco prezzo. Non distante da lui, una ragazzina bellissima, dal volto ovale e dai lunghi capelli neri, lo guardava con un po’ meno indifferenza, diligentemente per mano alla sua governante inglese. Il bimbo, con uno sforzo sovrumano, tentò un sorriso stiracchiato.
“Ehm… c-ciao?” singhiozzò senza voce “Io s-sono… Paolo Bianchi?”
L’agitazione lo faceva parlare sempre in modo interrogativo e non era nella sua indole attaccare bottone, ma si sentiva così solo, aveva così disperatamente bisogno di un amico…
La bambina bellissima pressò le labbra e distolse in fretta lo sguardo, come se si fosse accorta d’un tratto che il bambino biondo era ricoperto di guano.
“Sparisci, scherzo della natura.” disse con voce cristallina e subito dopo si scordò di lui.
*          *          *
Altro flashback
La terza media è dura per tutti, ma mai come per un ragazzino tredicenne e complessato figlio del bidello in una scuola frequentata da semidei snob che minimo minimo hanno tre cognomi altisonanti e talmente tanta puzza sotto il naso da sembrare di avere appeso un tubo fognario alle narici. 
“Ehi, arrivano le Marie e Grimilde” disse Francesco con voce allarmata “Pasquale, Paolo, muovetevi.”
Pasquale Caputo e Paolo Bianchi si lanciarono un breve sguardo terrorizzato alle spalle e poi, contemporaneamente, tentarono di spostare freneticamente dal corridoio il loro progetto di geografia, ovvero il plastico in scala di Parigi preparato con tanta cura e imbullonato a un rettangolo di compensato.
Colpa di Bianchi, notoriamente più lento e lungo di un’era geologica, i tre non fecero in tempo a spostare completamente il lavoro dalla corsia prima che le quattro ragazze arrivassero davanti a loro, precedute da una ventata di profumo costosissimo e accompagnate dal suono perfettamente sincronizzato dei loro tacchi sul marmo del pavimento.
“Alla larga, sgorbi.” sentenziò la voce di Maria Lucrezia, attualmente colei che aveva il grado più basso nella gerarchia sociale del gruppetto e quindi addetta alle pubbliche relazioni con il volgo.
“Sì, su-subito?” balbettò Paolo lanciando un rapido sguardo al Divino Quartetto, perdendo tempo nello spingersi gli occhiali su per il dorso del naso sudato.
Maria Vittoria, spazientita, lo spinse di lato usando appena le unghie curatissime delle dita, ma quel semplice gesto riuscì a destabilizzare il plastico che cadde rovinosamente per terra tra i sospiri costernati di Francesco e Pasquale. Senza nemmeno rallentare l’andatura, Veronica Scarlini della Torre, la regina del gruppetto (ruolo chiaramente evidenziato dalla sua posizione centrale) avanzò oltre senza nemmeno guardare giù, sbriciolando graziosamente la Torre Eiffel in miniatura con il tacco dei sandali Versace.
 “Il mio plastico?” osò sfiatare Paolo sottovoce: ci aveva messo una settimana a prepararlo…
Veronica lo sfiorò appena con un’occhiata di gelida superbia.
“Sparisci, mollusco.” disse poi e di nuovo subito dopo si scordò di lui.
*          *          *
… e va bene: in otto anni di scuola dell’obbligo Veronica aveva trattato Bianchi e la sua combriccola di insetti parlanti con un filino di altezzoso snobismo. Ma si era informata sull’argomento e sapeva che questo succedeva persino alla gente comune nelle scuole comuni. In fondo, erano bambini, no?...
*          *          *
Flashback
Seconda liceo: compito in classe di latino. Paolo Bianchi rimirò soddisfatto la propria traduzione, felice di averla finita con tanto anticipo. Un dito gli pungolò la schiena.
“Ehi, scherzo della natura. Passa il compito.”
Grimilde in persona! Paolo sentì immediatamente le viscere liquefarsi in grembo. Il dito lo pungolò ancora, imperioso.
“Allora?”
Con un sospiro, Paolo accartocciò il compito e lo strinse nel pugno che si portò dietro la schiena: nemmeno a pensarci di disobbedire alla Regina Grimilde. L’ultima volta che ci aveva provato si era trovato un rapporto scritto sul diario e l’accusa di aver copiato pendente sulla testa come una spada di Damocle. Due dita fredde e asciutte gli rubarono in foglio senza nemmeno toccarlo. Paolo sbirciò alle sue spalle, depresso.
“Che ti guardi?” soffiò la voce artica di Grimilde  “Girati, obbrobrio.”
E Paolo si girò con un sospiro rassegnato.
*          *          *
… e si, bisognava ammettere che le cose non erano cambiate un gran che al liceo privato che, tra parentesi, Bianchi aveva potuto frequentare soltanto grazie alla borsa di studio che il padre di Veronica, direttore del gruppo farmaceutico SedLex, aveva istituito per gli studenti più meritevoli.
Era vero, lei non aveva mai valutato l’esistenza di Paolo Bianchi; era vero, per lei era sempre stato a malapena una figura antropomorfa intuibile ai margini del suo campo visivo; fino a quattordici giorni prima nemmeno si ricordavo il suo nome perché per lei era semplicemente lo “scherzo della natura” ed era vero, doveva averlo preso in giro e/o demolito almeno un miliardo di volte nel corso di quei complessivi tredici anni di convivenza scolastica; era vero tutto, si era comportata con lui come una perfetta stronza snob. Poi, cosa diavolo era successo…?
Che Dior la fulminasse se lo sapeva.
*          *          *
Due settimane prima…
Secondo giorno di scuola: in classe il professore di letteratura francese stava spiegando con molto sussiego il programma per il nuovo anno scolastico, in previsione del diploma. Maria Lucrezia Odescalchi, impegnatissima a limarsi le unghie con una lima di platino, nemmeno si degnava di alzare lo sguardo quando il professore le passava accanto. Maria Vittoria Degli Estensi, in compenso, stava svogliatamente appuntando qualcosa sul suo i-Phone ultimo modello; Veronica Scarlini della Torre, momentaneamente disoccupata, era casualmente attenta alle parole del professore. Più che un caso, un evento epocale: in fondo però l’argomento, i famosi poeti maledetti di fine ottocento, le era sempre piaciuto. Così elegantemente fané, con quel tocco di decadenza…
“…quindi” concluse il professore “Ci concentreremo su Corbière, Mallarmé, Rimbaud, Villiers de l’Isle Adam, Desbordes-Valmore e… qualcuno sa chi manca?”
Come no. I ragazzi della classe guardarono il professore come se avesse chiesto chi di loro era disposto a donare un rene.
“Allora? Nessuno sa chi era l’ultimo dei poètes maudits?”
“Verlaine?” mormorò una voce alla destra di Veronica.
Era lo scherzo della natura: figurarsi se quel secchione non lo sapeva.
“Bene, Bianchi” approvò il professore “Sapete, millenni fa, quando ero uno studente come voi, basai la mia tesi di laurea proprio su Verlaine. Naturalmente non mi faccio influenzare da nessuno, ma se ora qualcuno sapesse citare un’opera del mio poeta preferito il mio morale ne risentirebbe alquanto positivamente e ciò si ripercuoterebbe di sicuro nella mia prossima assegnazione dei compiti a casa…”
Purtroppo solo alcuni studenti avevano ascoltato il professore e di quelli che lo avevano ascoltato solo due avevano le capacità intellettive sufficienti per capire quello che aveva ironicamente proposto: una di questi era Veronica Scarlini della Torre, che non sapeva nemmeno che Verlaine fosse mai esistito.
“Peccato” pensò fuggevolmente rimirandosi l’unghia del pollice “Se qualcuno sapesse uno straccio di…”
“Poiché l'alba si accende, ed ecco l'aurora, poiché, dopo avermi a lungo fuggito, la speranza consente a ritornare a me che la chiamo e l'imploro, poiché questa felicità consente ad esser mia…”
Era di nuovo lo scherzo della natura. Si era levato quei due fondi di bottiglia che si ostinava a chiamare occhiali e fissava il soffitto con aria concentrata. Diamine, sapeva pure la poesia! Era decisamente un mostro, pensò Veronica girandosi a guardarlo. Il sole settembrino illuminava la stanza e i capelli del giovane, la cui voce gradevolmente bassa e pacata donava alle parole della poesia una malinconica sfumatura autunnale.
“… facciamola finita coi pensieri funesti, basta con i cattivi sogni, ah! Soprattutto basta con l'ironia e le labbra strette e parole in cui uno spirito senz'anima trionfava...”
Che capelli biondi che aveva lo scherzo della natura, notò Veronica fuggevolmente. Non se n’era mai accorta prima. Forse perché li aveva sempre tenuti con un taglio tattico cortissimo alla bersagliera e invece adesso erano lunghi sul collo e sulle orecchie, leggermente mossi. Belli, ammise con una punta di sorpresa. Un biondo Grace Kelly molto chic.
“.. E basta con quei pugni serrati e la collera per i malvagi e gli sciocchi che s'incontrano; basta con l'abominevole rancore! Basta con l'oblio ricercato in esecrate bevande!”
Anche le ciglia erano bionde. Lunghissime come frange di seta sugli occhi celesti alzati sognanti verso il soffitto. Veronica sbatté le palpebre e la luce subì uno strano effetto, concentrandosi sulla semplice camicia bianca che lo scherzo della natura indossava facendola risplendere. Quasi suo malgrado Veronica si trovò a fissare per la prima volta intensamente la figura alta e allampanata del compagno di classe mentre qualcosa dentro di lei iniziava a muoversi: qualcosa di antico, arrugginito dal tempo, solidificato dal lusso e dal cinismo, nascosto da strati di trucco e vestiti di seta. Qualcosa che pulsava, irradiandosi dal centro del petto al resto del corpo.
“… Perché io voglio, ora che un Essere di luce nella mia notte fonda ha portato il chiarore di un amore immortale che è anche il primo per la grazia, il sorriso e la bontà…”
Forse era il cuore. No, impossibile! Eppure sembrava proprio un battito quello che aumentava d’intensità e ostruiva la gola man mano che la voce di Bianchi (ecco come si chiamava! L’aveva ricordato!) arrivava a lei, carezzando dolcemente l’aria, entrandole dentro subdolamente senza nemmeno chiedere il permesso.
“… io voglio, da voi guidato, begli occhi dalle dolci fiamme, da voi condotto, o mano nella quale tremerà la mia, camminare diritto, sia per sentieri di muschio sia che ciottoli e pietre ingombrino il cammino…”
Forse era la poesia, pensò Veronica mentre un sottile vena di panico si insinuava nei suoi pensieri. Figurarsi se tutto quel po’ po’ di emozione era per Bianchi… eppure, per quanto fosse assurdo e alieno, non riusciva a staccare gli occhi dalle sue ciglia bionde e vibranti. Erano lì a un metro da lei, come sempre da 13 anni a quella parte, e lo stesso le sembrava di non aver visto mai niente di così perfettamente bello e puro in tutta la sua vita. Assurdo. Ridicolo!
“… sì, voglio incedere dritto e calmo nella Vita verso la meta a cui mi spingerà il destino, senza violenza, né rimorsi, né invidia: sarà questo il felice dovere in gaie lotte…”
Cos’era? Cos’era? Il panico diventò un fiume in piena nel quale Veronica rischiò di finire travolta. Stava forse avendo un problema al cuore? Infarto? Apoplessia? Trombosi? Quell’affare non poteva battere tanto forte ed essere ancora sano… Doveva forse far chiamare la guardia medica…?
“…E poiché, per cullare le lentezze della via, canterò arie ingenue, io mi dico che lei certo mi ascolterà senza fastidio; e non chiedo, davvero, altro Paradiso.”
Veronica Scarlini della Torre si alzò bruscamente in piedi scostando la sedia con un rumore forte e stonato: immediatamente lo sguardo di tutti si posò su di lei, compreso quello blandamente sorpreso del professore. E quello di Bianchi.
“Sì?” domandò educatamente il professore: anche lui sapeva chi era il padre di Veronica e il tono della sua voce era decisamente premuroso.
Lei però lo ignorò bellamente: stava guardando gli occhi di Bianchi. Erano celesti con sfumature blu pervinca, constatò con accademico interesse. Erano grandi, proporzionati; molto lucidi; di forma ovoidale tipicamente caucasica; sovrastati da sopracciglia ad ala di gabbiano leggermente più scure dei capelli; espressivi, ingenui, timidi; in quel momento erano ancora vagamente persi nell’aere, perplessi, tersi e puliti come laghi di montagna. La guardava dritto e Veronica si sentì trafitta da una lama incandescente. Il respiro le si incastrò in gola come un maledetto osso di pollo.
“Signorina Scarlini? Tutto bene?” osò il professore incerto.
Bene? Ma per un cavolo, pensò Veronica cadendo miseramente in un pessimo linguaggio triviale. Forse sto avendo un aneurisma. O forse no. Comunque era quasi nel pallone.
“Non mi sento bene.” disse con voce flebile.
Abbassò gli occhi e finalmente si accorse di aver trattenuto il fiato: il cuore o qualsiasi cosa fosse quella palla pulsante che le infuocava il petto, batteva ancora come un matto saldamente incastrato in gola.
“Vuole andare in infermeria? Sembra pallida.”
“No. Sì.”
Rettifica: era completamente nel pallone!! Però ora che aveva spezzato il contatto visivo con gli occhi di Bianchi andava meglio perché poteva finalmente respirare.
“Bene, vada pure. Bianchi, potrebbe accompagnarla?”
“Certo.” rispose Bianchi inforcando zelante gli occhiali che aveva ancora in mano.
Nessuna novità karmica: se serviva una persona per accompagnare qualcuno in infermeria, i professori chiedevano invariabilmente a Bianchi… tutti sapevano chi era il plebeo, lì dentro. Chissà quante volte Veronica stessa si era fatta scortare dallo scherzo della natura pur di schivare un compito in classe; magari affibbiandogli la borsa come se fosse un fattorino e liquidandolo alla fine con il solito “evapora, scherzo della natura”.
In silenzio si avviò verso l’uscita, sorpresa di riuscire a deambulare in linea retta. Alle sue spalle Bianchi urtò un banco con il fianco destro, mormorò una scusa, urtò la cattedra con il fianco sinistro, guaì dal dolore, ciabattò verso la porta e fece cadere i gessetti dal loro supporto; aveva decisamente la grazia di un branco di cinghiali allo stato brado, pensò Veronica senza girarsi a guardare. Il fatto che quel pensiero le risultasse orribilmente tenero avallò solo l’ipotesi di stare subendo una qualche lesione cerebrale e le fece allungare il passo. Giunta però a metà corridoio di colpo rallentò e Bianchi per poco non le finì addosso.
“Scusa?” le mormorò ristabilendo rapidamente le distanza.
Quando era agitato parlava ancora in forma interrogativa… anche questo sembrò vomitevolmente carino a Veronica che si girò a guardarlo con aria ostile. Quando se ne accorse, Bianchi sobbalzò penosamente.
“Ehm!” ragliò di colpo spaventato.
Grimilde lo stava guardando. Era ferma in corridoio e lo guardava: non era mai successo prima di allora! Evidentemente stava per accadere qualcosa di epocale: una tempesta magnetica… o forse stava male davvero… o lui aveva combinato qualche catastrofe senza ricordarsene?
“Cosa c’è?” chiese con improvviso affanno, arrovellandosi alla ricerca di una scusa per difendersi prima ancora di essere accusato.
“Niente” rispose Veronica soprappensiero: lo guardava ancora, fissamente. Doveva avere qualche strana macchia sulla faccia, pensò Paolo incerto… poi, sfidando qualsiasi legge fisica, Veronica proseguì: “Stavo andando troppo veloce e ti ho aspettato.”
No, cioè… Grimilde aveva risposto. A lui. Parlandogli direttamente. Senza insultarlo. Impossibile!
L’ipotesi della tempesta magnetica era sempre più plausibile.
“Stai male?” azzardò senza quasi sapere di parlare: era decisamente sotto shock.
Lei inclinò il capo, sbattendo le ciglia.
“Sto male?” chiese sottovoce, come se lui l’avesse contagiata con la sua perpetua forma interrogativa. Sì, Grimilde stava male: decisamente male!
“Speriamo che non svenga qui”, pensò affannosamente Paolo cercando una via di fuga con lo sguardo: se fosse caduta e avesse battuto la testa, avrebbero dato la colpa a lui?… E se si fosse rotta un tacco? Mica gli avrebbero fatto pagare le scarpe come nuove… avevano l’aria di costare di più di un monolocale!
“Vado a chiamare qualcuno?”
“No… non ce n’è bisogno. Credo.”
Sembrava perplessa e smarrita anche lei. Se non fosse stato che lei era Grimilde e  lui lo scherzo della natura, le avrebbe chiesto se voleva appoggiarsi, ma…
“Posso appoggiarmi?”
Paolo era così tramortito che quasi fu lui a svenire.
“Q-u?” gorgogliò completamente alla deriva.
“Appoggiarmi. Forma riflessiva del verbo appoggiare. Devo farti la richiesta bollata o preferisci che abbia un mancamento qui in corridoio?”
Inebetito come un automa, Paolo porse il braccio a Veronica e lei si appoggiò con garbo, riprendendo a camminare lentamente. Senza ucciderlo e senza tramutarlo in pietra con il tocco della mano. L’ipotesi della tempesta magnetica doveva lasciare la pole position alla molto più probabile possessione aliena, meditò Paolo remotamente. E poi era così in tensione che gli sembrava di avere una corona di spine velenose posata sulla spalla al posto della mano di Grimilde. La strada per l’infermeria sembrò più lunga del pellegrinaggio alla Mecca; per poco Paolo non si genuflesse quando arrivarono e la mano elegante di Veronica abbandonò la sua spalla. Trattenne un sospiro di sollievo e Veronica aprì la porta dell’infermeria.
“Grazie.” gli disse poi con voce neutra, chiudendo la porta sulla sua faccia di nuovo completamente basita di fronte a quella impossibile parolina.
*          *          *
Non aveva avuto un infarto: nemmeno un’ischemia né una trombosi. Aveva fatto gli esami del sangue per sicurezza e non era risultato niente di niente, il suo cuore era a posto così come il suo cervello. Solo che così, di colpo, senza nessuna ragione di essere, si era trovata innamorata di Bianchi.
Bianchi lo scherzo della natura. Bianchi il servo della gleba. Bianchi lo sgorbio.
Se lo venivano a sapere Maria Vittoria, Maria Lucrezia e Maria Beatrice l’avrebbero inchiodata alla croce sbattendo il video su You-Tube. D’altronde, lei per prima non si raccapezzava. Eppure era da due settimane che in classe non faceva altro che guardare lui, Paolo- scherzo della natura – Bianchi per cinque maledette ore al giorno senza mai stancarsi. Con suo enorme sconcerto aveva dovuto ammettere che era lui che non vedeva lei. La cosa aveva del fantascientifico e lei per prima faticava a crederci, ma aveva dovuto constatare che era davvero così. Lui non la vedeva nemmeno di striscio: il più delle volte la evitava come la peste, passando per vie secondarie pur di non incrociare Veronica e le sue amiche in corridoio, facendo il giro del perdono in classe pur di non sfiorare il suo banco e tenendosi sempre rigorosamente alle sue spalle. Era stata una autentica sorpresa dover ammettere che poteva guardarlo tutto il giorno a suo piacimento perché tanto lui non si girava mai dalla sua parte. Mai. A scuola seguiva le lezioni con snervante concentrazione e poi filava via a occhi bassi, sbatacchiando un aborto di borsa centenaria contro le ginocchia ossute. E invece di farla desistere da quell’insano interesse, ogni cosa nuova che notava di lui la attraeva sempre di più.
Subito non pensava fosse davvero interesse romantico quello che sentiva; pensava di essersi innamorata del suo colore di capelli e aveva considerato l’ipotesi di risolvere tutto facendosi i colpi di luce, ma poi aveva capito che non avrebbe risolto niente. Non erano i suoi capelli: erano i suoi capelli accessoriati da lui stesso quello che voleva. Vedere da vicino quelle tre ciocche a forma di virgola che gli comparivano sulla nuca quando chinava la testa… avrebbe voluto arrotolarle sulle dita, seguire la linea del suo collo, sfiorare la peluria bionda che certi giorni gli ombreggia le guance, togliergli dal naso quel quintale di silicio che aveva per occhiali e guardare di nuovo l’incredibile color pervinca dei suoi occhi…
E le sue mani. Che belle. Erano lunghe e un po’ goffe; le agitava spessissimo quando si infervorava in una discussione accademica. Era adorabile perché le guance gli diventano lucide e rosse come mele e iniziava a parlare balbettando leggermente. Ma non mollava e in effetti aveva quasi sempre ragione. Qualche giorno prima aveva disquisito per un’ora con la professoressa di latino su come andasse tradotto un passo di Cicerone e alla fine il poveretto sudava letteralmente. Ma l’aveva vinta lui. Aveva sorriso esultante come un bambino e Veronica avrebbe voluto scavalcare il banco, atterrargli tra le braccia e… e non lo sapeva nemmeno lei, l’aberrante visione si era interrotta lì. Per quella volta. Ma c’era il non trascurabile fatto che quando prendeva appunti si mangiava l’unghia dell’anulare: Veronica aveva perso qualche preziosa ora della sua vita a chiedersi imbambolata perché proprio quel dito e non gli altri e il quesito cosmico continua a destabilizzarla. Le sue difese a quel punto erano a un minimo storico e prima o poi avrebbe fatto qualche passo falso, uno scivolone di etichetta e per la Regina, al secolo Veronica Alberice Scarlini della Torre, sarebbe stata la fine.
La situazione era chiaramente gravissima: fino a quel momento era riuscita a tenerla sotto controllo, ma se continuava così prima o poi qualcuno se ne sarebbe accorto. La prima volta che Maria Beatrice le avrebbe detto che l’aveva colta in flagrante contemplazione degli anulari di Bianchi avrebbe anche potuto dirle che aveva avuto un attacco di strabismo (e Maria Beatrice sarebbe stata anche capace di crederci…), ma alla seconda? Alla terza…? Ecco perché aveva deciso di passare al contrattacco… quel giorno stesso.
Quel giorno, quando era assolutamente perfetta. Quel giorno, quando lui si sarebbe accorto finalmente di lei.
 

  
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