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Autore: morrigan89    25/05/2011    6 recensioni
Era stato un bambino di strada, un rifiuto della società, una vita senza futuro. Gli avevano promesso cose che non avrebbe mai potuto avere. Lui aveva cercato di prendersele lo stesso.
La storia di Xanxus.
{Capitolo VII: Alleanza. "Sì, Squalo era completamente fuori di testa, Xanxus non ne aveva alcun dubbio. E la cosa, doveva ammetterlo, gli piaceva."}
Genere: Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Superbi Squalo, Xanxus
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Titolo: Wrathchild
Personaggi: Xanxus, Timoteo Vongola, Superbi Squalo, Sawada Iemitsu e altri
Generi: Azione, Drammatico
Rating: Giallo
Nota autore: Vorrei dedicare una bicchierata colma d'affetto al mio braccio destro nonché beta-reader Somecoffee <3


Capitolo I. Rifiuti





I was born into a scene of angriness and greed, dominance and persecution.
My mother was a queen, my dad I've never seen, I was never meant to be.
And now I spend my time looking all around,
For a man that's nowhere to be found.
Until I find him I'm never gonna stop searching,
I'm gonna find my old man, gonna travel around.
[Iron Maiden - Wrathchild]






Era un luogo squallido, insignificante, un seminterrato costantemente buio e umido, con il pavimento di cemento e i muri scrostati e ammuffiti. Dalle finestre, strette e alte come quelle di una prigione, non entrava mai abbastanza luce e il sistema di riscaldamento, una vecchia stufa scassata, non produceva mai abbastanza calore per riscaldare le nottate invernali.
Era quel genere di luogo che una tipica famiglia benestante usa per stiparci cumuli di roba inutile: biciclette arrugginite, giocattoli usati, giornali vecchi, alberi di natale impolverati, cianfrusaglie dimenticate da tutti.

In parole povere: rifiuti.

Nessuno avrebbe vissuto lì, nessuno, eppure c’era chi chiamava “casa” un posto come questo. Lo testimoniavano gli avanzi di cibo su un tavolo, i piatti impilati in un lavandino gocciolante, alcuni vestiti appesi in un angolo ad asciugare, ma soprattutto le coperte che si alzavano e si abbassavano al ritmo lento e regolare del respiro di un bambino addormentato su una branda.
Nessuno avrebbe vissuto lì volontariamente, ma quella madre non aveva scelta e, anzi, benediceva la fortuna che con lei non era mai stata benevola, ma aveva avuto almeno la compiacenza di dare a lei e suo figlio un tetto sotto cui dormire, delle mura per separarli da quello schifo di mondo là fuori.
Oltre a questo però non avevano mai avuto molto. Lei lavorava giorno e notte in una fabbrica e quel che guadagnava, ovviamente in nero, non bastava neanche a pagare l’affitto di quel tugurio e a comprare da mangiare per entrambi. Ma non si lamentava. Come avrebbe potuto? L’unica cosa importante per lei era suo figlio e il lavoro non era poi così duro se lui andava a trovarla durante la sue brevissime pause.
Era un bambino serio e silenzioso eppure anche senza fare niente di speciale riusciva sempre a farla sorridere, le bastava guardare i suoi occhi di un colore curioso, quasi vermiglio, per non sentirsi più sola e perduta come era stata un tempo. La sua nascita, per quanto inaspettata, per lei era stata una benedizione: la realtà è meno grigia quando la si affronta insieme, quando si possono condividere le proprie speranze con qualcuno, benché nel loro caso fossero solo sogni ad occhi aperti.
Spesso quando era l’ora di andare a dormire madre e figlio si accoccolavano insieme fra le coperte, e allora lei, invece di raccontargli favole e narrargli di regni e cavalieri, lo abbracciava e parlava a lungo di come sarebbe stato il loro futuro. Perché quando senti di non averne uno, e lei lo sentiva, tutto quello che puoi fare è fingere di averlo e fingere che sia meraviglioso.
Col tempo era diventata incredibilmente brava a creare speranze dal niente, così brava che un giorno non molto lontano cominciò a crederci sul serio anche lei.

Un giorno sarà diverso, vedrai. Un giorno avremo tanti soldi e vivremo in una casa bella come quelle che si vedono in tv, con le finestre grandi e luminose e i pavimenti di marmo così lucidi che ti ci potrai specchiare dentro. E ci sarà anche un giardino pieno di alberi e altalene e altri giochi per bambini. Sarà bello, no?

Lui in quei momenti la guardava con occhi pieni di stupore, immaginando con la sua fantasia di bambino quello che le parole suggerivano, credeva a tutto quello che gli diceva e quando si addormentava contro la sua spalla non sognava altro che quel giorno e quella grande casa dove avrebbe vissuto insieme a sua madre. Allora sarebbero stati felici e contenti, come fanno i principi nelle favole che lei non gli raccontava, e forse, chissà, suo padre sarebbe stato con loro, dovunque egli fosse, chiunque egli fosse. Lei di certo non lo nominava mai.



*****



Ormai è mattino inoltrato e anche in quel buio seminterrato entra sufficiente luce da svegliare chi dorme e sogna. Il bambino si stropiccia gli occhi, si alza, mangia i resti della colazione che sua madre ha lasciato apposta per lui, rimette tutto in ordine ed esce di casa. Lei è già al lavoro da ore e lui andrà a trovarla come ogni mattina, ma non prima di fermarsi a racimolare qualche soldo davanti alla chiesa vicina alla fabbrica, perché i soldi non sono mai abbastanza.
Quindi corre, perché è già tardi e perché il quartiere è pericoloso e lui lo sa bene perché lo ha visto con i suoi stessi occhi; corre così veloce che girando l’angolo urta qualcuno, ma non si ferma nemmeno a chiedere scusa, tanto sa che di rado la gente dà retta a bambini come lui.

Ehi! Guarda dove vai!
Chi era?
Oh, nessuno. Il figlio della puttana.

Eppure sua madre non è una puttana. O almeno, non lo è più dal giorno in cui scoprì di aspettare un figlio. Quel giorno scappò dalla sua vecchia vita, cambiò quartiere, si trovò un tetto sulla testa e un lavoro rispettabile, per quanto sfiancante, sperando di cominciare da capo e che nessuno ricordasse il suo passato. Però le persone non dimenticano mai ciò che hai fatto quando lo ritengono una macchia e c’è ancora qualcuno che ogni tanto bussa alla sua porta nel cuore della notte, urlando oscenità con una voce strascicata da ubriaco, e allora lei deve alzarsi dal letto e coprire le orecchie del suo bambino, pregando che non senta, che non capisca; e soprattutto che in futuro non ricordi.
Non vuole che il suo bambino rimanga per sempre il figlio della puttana.


Intanto lui ha finito di correre ed è arrivato a destinazione: di fronte a lui ci sono i muri bianchi e scrostati della chiesa, rovinati dal tempo e dallo smog. Eppure oggi c’è qualcosa di diverso dal solito: una lunga auto nera, lucida e lussuosa è parcheggiata davanti, un genere di macchina che non si vede mai da quelle parti.
Lui ci passa accanto cercando in punta di piedi di sbirciare nei finestrini, curioso com’è, ma sono troppo alti e scuri perché si possa capire cosa c’è dentro, quindi va a sedersi come al solito sui gradini e resta lì, in attesa, aspettando che si faccia l’ora di pranzo e che i passanti si accorgano di lui: quando sono abbastanza gentili riesce a racimolare abbastanza spiccioli da guadagnarsi un “bravo” da sua madre, oltre al solito abbraccio, ma ciò capita più raramente di quanto entrambi vorrebbero.
Sta guardando la strada con aria assente quando sente una voce allegra e squillante proprio accanto a lui.

Ciao! Vuoi giocare?

Si gira. Accanto a lui ora c’è una bambina sorridente, dal viso pulito e dai bei vestiti, e il bambino capisce subito che deve essere sgattaiolata fuori dall’elegante vettura parcheggiata in attesa davanti alla chiesa. Quando le risponde con un “sì” lei tira fuori i suoi giocattoli: bei giocattoli costosi, animaletti di plastica dipinti a mano con colori sgargianti, ben diversi da quelli a cui è abituato lui.
I due giocano a lungo, lei ride e scherza con voce argentina, lui è serio e parla poco, ma ogni tanto sorride, e quando sorride non sono poi così diversi, anche se lei ha un vestito pulito e fresco di negozio e lui un maglione sgualcito e troppo grande per la sua corporatura; quasi non sembra che solo uno di loro abbia un futuro brillante ad attenderlo.
Mentre giocano la bambina gli spiega che suo padre è un uomo ricco e buono, un personaggio importante, e che ora si trova in chiesa per fare del bene, per dare i soldi ai poveri. È un “filantropo”, così dice, e anche se non sa cosa vuol dire pronuncia questa parola con orgoglio e il bambino pensa che anche a lui piacerebbe avere un padre di cui parlare con orgoglio.
I due si sono ormai stancati degli animaletti dipinti e sono passati a giocare a rincorrersi quando il padre esce dalla Casa di Dio. È un signore alto e distinto, in giacca e cravatta, e non appena si accorge del bambino che insegue sua figlia la sua espressione si tinge di disgusto: lo afferra per una spalla e lo scosta bruscamente, allontanandolo dalla sua compagna di giochi.
L’uomo è pronto a fare del bene se può dimostrarlo alla società che lo guarda e lo acclama, ma se nessuno lo guarda il bambino col maglione sgualcito è semplice feccia che non deve osare avvicinarsi a sua figlia, nemmeno per gioco; quando parla la sua voce è brusca e minacciosa.

Leva le tue luride manacce da mia figlia, hai capito? Ora va a giocare da un'altra parte!

Il bambino non sa cosa dire, il vocione dell’uomo gli rimbomba nella testa, il suo sguardo sdegnoso lo squadra dall’alto in basso, facendolo sentire insignificante. Ha paura e vorrebbe andarsene, eppure resta fermo immobile, perché sua madre sa che lui l’aspetta lì e teme che se al suo arrivo non lo troverà si preoccuperà a morte; e poi, se non la incontra, dovrà aspettare fino a tarda sera per vederla.

Sei sordo? Torna a giocare nella spazzatura da cui sei venuto, moccioso!

Ma prima che possa reagire in qualunque modo, o più probabilmente non reagire affatto, eccolo che lo sente: il peso caldo e familiare di una mano sulla sua spalla. Alza lo sguardo e sua madre è lì, con lo scialle sbrindellato e la fronte corrugata, che contrasta lo sguardo dell’uomo con tutta la calma e la dignità di una regina in trono.

Come ti permetti di parlare così a mio figlio? Ti credi di essere tanto superiore solo perché hai un bel vestito, una bella macchina e soldi da regalare per sentirti la coscienza a posto? Ma sparisci tu, vecchio!

L’uomo la guarda a lungo, guarda il bambino, guarda sua figlia che vorrebbe soltanto tornare a giocare col suo nuovo amico, ma soprattutto guarda i fedeli che si avviano alla messa e lanciano occhiate curiose; vorrebbe dare una lezione a quella sfrontata vestita come una zingara, ma lui è un membro insigne della società e non può permettersi che la sua reputazione venga rovinata da un rifiuto dei sobborghi, quindi afferra anche lui la figlia per le spalle e la conduce via, mentre lei si volge indietro per vedere il suo compagno di giochi farsi sempre più piccolo e lontano, senza capire il perché di tutto questo.

Promettimi una cosa.

Quando la macchina si allontana sua madre è ancora immobile, con una mano sulla sua spalla e lo sguardo perso nel nulla. Quasi non si accorge, lei, delle lacrime che danzano sulle sue palpebre senza cadere, ma lui le vede fin troppo bene e bruciano più di quanto brucerebbero le sue.

Promettimi che non ti farai più trattare così da nessuno.

*

Il sole è appena tramontato e i colori dei sobborghi si spengono, appiattiti su una scala di grigi, quando madre e figlio possono finalmente dirigersi verso quel seminterrato che chiamano casa. Camminano fianco a fianco, mano nella mano, senza parlare, perché quando lei esce dalla fabbrica è troppo stanca perfino per pensare; ma a nessuno dei due importa di quel silenzio quando c’è la consapevolezza di non essere più soli in quel deserto.
A quell’ora anche le strade dei sobborghi si sono già svuotate: le persone tornano a casa a consumare la loro magra cena prima che cominci la notte, che da quelle parti pare essere ancora più lunga e buia che nel resto della città.
A madre e figlio sembra quasi di essere le ultime due persone sulla faccia della terra e in fondo non è una sensazione tanto spiacevole, quando si conosce il resto del mondo.
Ma l’incantesimo si rompe fin troppo presto, a solo pochi metri dall’uscio di casa: al loro arrivo una sagoma scura si stacca dalla zona d’ombra dello stipite e avanza di qualche passo verso di loro.

Eccoli qua, la puttana e il suo marmocchio.

Lei sussulta immediatamente. Lui no, perché non ha mai visto quell’uomo prima d’ora. Se lo riconosce è solo per via della sua voce: quella voce sghignazzante e volgare, impastata dall’alcool, che per troppe notti ha sentito urlare cose orribili di cui solo in parte coglieva il significato.

Lo sai, moccioso, cosa faceva la tua mammina prima che tu nascessi? Si vendeva per qualche spicciolo, te lo dico io. Le davi qualche soldo per accattarsi un pezzo di pane e non si faceva problemi. Mezza città s’è fatta, tua madre! Ora invece siccome ha un lavoro e uno straccio di topaia in cui vivere si crede di poter fare la schizzinosa!

Il bambino non si accorge della disperazione con cui la madre guarda l’uscio di casa, così vicino eppure così lontano, né del suono velato che esce dalle sue labbra, uno “scappa” appena sussurrato. No, lui guarda l’uomo che adesso si avvicina a loro, un passo dopo l’altro, con la lentezza e la sicumera di un gatto che gioca con la sua preda, lo sguardo fisso su sua madre.

Ridicolo, no? Però una puttana sotto sotto resta sempre una puttana. Ha solo bisogno di qualcuno che glielo ricordi!

È veloce, l’uomo: con uno scatto lo afferra per il braccio e lo trascina lontano dalla madre, quasi sollevandolo da terra. È la donna il suo obbiettivo e quel moscerino non gli sarà d’intralcio; anzi, può anche assistere allo spettacolo, se proprio insiste!
Il bambino però non demorde: proprio quel giorno ha promesso a sua madre che non si sarebbe fatto più trattare così da nessuno, che non avrebbe dato retta a nessuno, che non si sarebbe fatto comandare da nessuno; ed è con il ricordo di quelle parole stampato in testa che tenta di frapporsi fra l'uomo e la donna.

E levati di mezzo!

Il colpo che gli arriva, appena al di sotto dell'orecchio, è forte, troppo forte per essere diretto a un bambino: il dolore esplode come un petardo, e senza saper bene come si ritrova per terra, in mezzo a un cumulo di rifiuti, con la coscienza che vacilla pericolosamente sull'orlo dell'oblio. L'urlo di orrore della madre gli arriva ovattato, come in un sogno, ma è abbastanza forte da riportargli la mente a fuoco e fargli riaprire gli occhi. Quando si tira su a sedere i loro sguardi si incrociano, ma solo per un attimo, perché l'attenzione della madre si sposta quasi subito sul suo assalitore.

Come osi!? È solo un bambino! Il mio bambino!

Mentre grida queste parole l'espressione nei suoi occhi cambia in un battito di ciglia: non più paura né orrore, ma solo rabbia, rabbia, rabbia. Rabbia per l'ingiustizia che ha visto subire, rabbia per la consapevolezza che non sarà l'ultima che suo figlio dovrà sopportare, una rabbia feroce e disperata che la trasfigura, facendola sembrare completamente folle.
Il bambino non ha mai visto tanta furia negli occhi di sua madre. Sembra quasi un'altra persona quella donna che ora, invece di scappare, si lancia contro l'uomo che ha osato alzare le mani su suo figlio, lo attacca a calci pugni e morsi, colpendo alla cieca, in preda a un impeto incontrollabile.

Questa è pazza, è tutta pazza!

L'uomo dapprima cerca di allontanarla, ma la donna non glielo permette, lei vuole solo fargli più male che può, così lui reagisce; in breve i due prendono a spingersi e a strattonarsi mentre il bambino li guarda con spavento, impotente di fronte alla crudeltà degli adulti.
È fermo e immobile come una statua: guarda sua madre che lotta furiosamente senza pensare a se stessa, guarda l'uomo che dopo qualche tempo comincia ad avere la meglio, vede la mano nodosa dell'uomo affondare nei capelli lunghi della madre, sente il rumore dello strappo e il grido soffocato di lei, sente il tonfo che fa la sua schiena quando l'uomo la spinge contro il muro.
Lui è fermo e immobile e solo il suo sguardo tradisce quello che sta avvenendo dentro di lui, solo gli occhi fiammeggianti rivelano quello che sente.
È una strana sensazione, che sale in lui come l'alta marea, un sentimento particolare che non ha mai conosciuto ma che ora lo riempie a ondate, ardente e impetuoso come un fuoco che lo divora dall'interno, come se non esistesse nient'altro a mondo, come se non potesse provare altro che questo, come se lui non fosse nient'altro che questo.
Odio.

Lasciala stare!!

Nemmeno si accorge di aver gridato, il bambino. Accade tutto in pochi istanti fugaci: un momento è lì, a guardare impotente l'uomo che fa del male a sua madre, e un istante dopo è nel bel mezzo della mischia, anche lui pronto a mordere e picchiare e scalciare. Accade tutto così in fretta che in seguito non riuscirà mai a ricordare esattamente cosa è successo, eppure c'è qualcosa che il bambino ormai diventato adulto serberà come un ricordo eccezionalmente vivido: il grido di spavento e dolore dell'uomo e l'acre tanfo di carne bruciata che si leva nell'aria.
Gli attimi che seguono sono ancora più confusi: il bambino si sente sollevare di peso, sente le braccia di sua madre serrate attorno alla vita, e mentre lei corre via, portandolo con se, tutto quello che riesce a vedere è l'uomo che si contorce per terra, in preda agli spasmi. E poi strade, strade, strade... strade che si succedono tutte uguali come in un labirinto, finché le grida sono fioche e lontane, finché la città non inghiotte entrambi.

Quando finalmente si fermano sua madre si inginocchia di fronte a lui, gli afferra le spalle, lo guarda dritto negli occhi. Lui teme che stia per sgridarlo severamente, perché anche se non sa come ha fatto sa di essere stato lui a ferire l'uomo, ma quando la osserva meglio capisce che non è così: nel suo sguardo non c'è rimprovero ma solo una nota di ansia e tensione e una luce che sa tanto di follia.

Quello che hai fatto prima... puoi farmelo rivedere?

Lui esita, non capisce cosa ci sia di così eclatante da meritarsi tanta attenzione solenne: per quanto si ricorda è una cosa che ha sempre saputo fare senza difficoltà. Anzi, visto che non conosce nessun altro in grado di farlo ne ha quasi timore, quasi teme che sia una cosa di cui vergognarsi. Eppure obbedisce diligentemente alla richiesta e in un attimo, una piccola scarica di rabbia, la fiamma è di nuovo al suo posto nel palmo della sua mano, danzante come un fuoco fatuo arancione, e la sua luce vacillante illumina gli occhi di sua madre e il suo viso deformato da una gioia selvaggia.


*****


Nei giorni successivi il bambino intuisce subito che c'è qualcosa di strano: non perché sua madre abbia ripreso a parlare da sola molto spesso, no, quello l'ha sempre fatto di tanto in tanto, in mancanza di altri interlocutori, ma perché per la prima volta ha nominato suo padre. Anzi, ha preso a parlarne addirittura in continuazione, dice che presto lo vedrà, insieme a un sacco di cose strane del cui significato ha solo una vaga idea: parole come "erede" e "mafia".

Siamo vicini a raggiungere il nostro sogno, sai? Preso sarai una persona importante e rispettata, potrai avere tutto ciò che desideri e nessuno oserà mancarti di rispetto come hanno fatto quegli uomini, nessuno. Ogni tua parola sarà legge, sarai adorato da tutti come meriti. Sarai felice.

E tu, mamma?

Anche io sarò felice...

Il bambino è stupito da tutti questi discorsi, ma capisce la portata della novità solo la mattina in cui sua madre lo sveglia e lo aiuta a infilarsi vestiti che non ha mai usato: una camicia, una giacca e dei pantaloni nuovi di zecca. Le chiede cosa sta succedendo, come mai per la prima volta ha dei vestiti così belli, ma lei non risponde: lo prende per mano e lo porta in città.

*

Fa freddo, quel giorno, un freddo gelido che copre ogni cosa di brina e condensa il respiro in nuvole bianche di vapore. Il bambino non capisce perché sua madre abbia scelto di fermarsi proprio lì, in un vicolo disperso dei sobborghi dove non passa nessuno e dove non guadagneranno uno straccio di soldo.
È allora che lo vede per la prima volta.
È un uomo già un po' anziano, dai capelli grigi e dai folti baffi brizzolati; i suoi occhi sono gentili e un po' tristi, come di chi si sia ritrovato a compiere scelte difficili, e quando il suo sguardo buono si posa sul bambino, mentre sua madre parla, sembra ancora più malinconico.

Suo padre.

Quando sua madre gli dà un colpetto sulla spalla, guardandolo con aria incoraggiante, lui sa esattamente cosa fare: la fiamma che solo lui sa creare ha un bel colore, in quel giorno grigio, e la sua luce illumina il vicolo buio e gli occhi di quell'uomo di un caldo calore arancione; ma nel suo sguardo non c'è la gioia selvaggia di sua madre, solo sorpresa e forse un po' di commozione.
L'uomo si inginocchia davanti a lui e lo avvolge nella sua sciarpa. È calda e piacevole, sa di casa.

Non mi sbaglio, tu sei mio figlio.

*

La donna non piange quando lo portano via né quando lui si volta a guardarla con i suoi grandi occhi confusi perché non riesce a capire come mai lei non lo segue. Non piange quando uno degli uomini la prende gentilmente ma fermamente per un braccio, invitandola ad allontanarsi e ad uscire silenziosamente dalla scena. Non piange quando suo figlio la chiama per quella che sa essere l'ultima volta, prima che lei sparisca inghiottita dalla città.

Fa freddo quel giorno, un freddo gelido, e lei è di nuovo sola e perduta, ma quando finalmente le lacrime cominciano a rigarle le guance se le asciuga subito, perché non vuole essere triste, non deve, non ora che i suoi sogni si stanno realizzando.
Lei non ha futuro, non lo ha mai avuto, ma almeno ha dato a suo figlio un nome che da solo è garanzia di rivalsa, di riscatto, di una nuova vita. Un nome che la gente ricorderà, un nome che sarà amato e temuto da tutti.


Xanxus.











   
 
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