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Autore: Donnie    30/05/2011    0 recensioni
A diciotto anni compiuti, Cloe non sa ancora cosa sia l'amore. Non conosce il sapore dei baci, né l'illecito rumore dei sospiri.
Cloe vuole essere una piccola Carrie Bradshaw, ma la sua vita non le dà alcuno spunto. Finché non ritorna suo padre. Finché non tradisce la sua migliore amica. Finché non comincia una relazione clandestina. Finché non si innamora di un altro. Finché non ci capisce più nulla.
Ne fa di guai, Cloe. Ma poi apre l'armadio, si mette un bel vestito, e cerca di aggiustare le cose... come sempre.
(I look sono realizzati su Polyvore)
Dal testo:
«Non hai risposto alla mia domanda: lo ami?».
E fu lì ed allora, seduta al centro della mia cucina, accoccolata su quella luminescente e surreale isola che non c’è, che di domande me ne posi un bel po’. Molte di più e molto più difficili di quella di Chris. Tutte quelle che avevo meticolosamente evitato, negli ultimi tempi.
Chi ero davvero?
Cosa volevo?
Ero in grado di amare con costanza?
Avrei saputo essere fedele ora e sempre alla persona che mi stava accanto?
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Arancioni.
Non rossi, ramati o color bronzo, no: semplicemente e disgustosamente arancioni. Lunghissimi, mossi-quasi-ricci, a tratti boccolosi... ma pur sempre arancioni. E, per di più, umidi e gocciolanti.
Tamponai i capelli con il mio asciugamano rosa, per levare via l’acqua. Guardai l’orologio e sospirai.
Come al solito, ero in ritardo.
Come al solito, le ragazze me ne avrebbero dette di tutti i colori ma, come al solito, avrei sentito solo qualche indistinto bla bla bla. E, come al solito, avrei dovuto farmi perdonare per la mia mancata puntualità: mica era colpa mia se ero allergica alle lancette?
Evidentemente, ero stata creata così. Sempre in ritardo, ma mai di corsa. Era il tempo che doveva inseguire me, adeguarsi ai miei ritmi... non viceversa.
Attraversai, ancora in reggiseno e mutandine, la porta che univa la mia camera con il mio piccolissimo bagno personale.
Accesi il mio portatile bianco, intenzionata a riflettere.
Un quarto d’ora in più non avrebbe fatto male a nessuno... non a me, questo era sicuro! Aspettai che quel pc vecchio ma funzionante si caricasse.
Forse era per questo che lo consideravo adatto a me, anche lui era ritardatario. E se la prendeva con comodo.
I miei occhi caddero sulla piastra in ceramica, tristemente imprigionata nel cellophane, che mi ero regalata due settimane prima, sognando capelli lisci e setosi.
Quasi tirai su col naso. Anche oggi, i miei soliti capelli.
Che ci si creda o no, in 18 anni di vita, non avevo mai portato i capelli lisci. E nemmeno legati, suppongo, ma a di questo non ero poi così sicura.
 
Tornai in bagno e mi lasciai avvolgere da rumore del phon. Pulii un po’ lo specchio, per osservare quel volto che ormai conoscevo a memoria. Pelle bianca, ma non pallida; liscia, come la porcellana, e luminosa, come la luna; capelli arancioni, ma nemmeno una lentiggine. Più o meno ero una contraddizione vivente.
I vetri della doccia erano ancora appannati dall’aria densa che sapeva di cioccolato e vaniglia.
Probabilmente, anche di zucchero, ma solo un po’. Lo zucchero era per gli olfatti sopraffini, quelli attenti, come il mio.
Inspirai una buona dose di quell’aria dolcissima. Non poteva che farmi bene.
In dieci minuti scarsi, l’acqua era sufficientemente evaporata dalle mie ciocche mosse a regola d'arte, quei quasi-ricci che avrebbero fatto invidia alle modelle degli spot per lo shampoo anti-crespo, o cose del genere.
Ma erano arancioni. Prima o poi li avrei tinti, dovevo solo scegliere il colore ed io non ero molto brava a fare delle scelte troppo drastiche. O forse no, forse io sapevo prenderle le decisioni: il guaio era seguirle.
Spensi, finalmente, quel maledetto asciugacapelli, che per i miei gusti faceva davvero troppo rumore, e mi sedetti sul letto con il portatile sulle ginocchia, senza nemmeno infilarmi un paio di jeans.
«Solo cinque minuti, lo giuro...», dissi, più a me stessa che al cellulare che, intanto, aveva cominciato a vibrare.
Alice, Angie o Isa? Difficile dirlo. Probabilmente quella che al momento aveva più credito sul telefonino... ed anche questo era difficile da indovinare: vuoi Facebook, vuoi la possibilità di vederci tutti i giorni, ma c'era molta più acqua su Marte che credito sui nostri telefonini.
Altri cinque minuti e mi sarei precipitata da loro.
Aprii un nuovo documento di testo e diedi sfogo alla mia passione più grande, al mio piccolo irrealizzabile sogno nel cassetto.
Scrivere, scrivere, scrivere.
Non un libro, però: per quello c’erano già gli scrittori; non articoli di politica, cronaca o sport: per quello c’erano già i giornalisti- c’era già mamma, insomma -ma scrivere per divertirmi e per divertire.
Scrivere con ironia, per aprire gli occhi, per non avere peli sulla lingua, scrivere di donne, di moda... d'amore, forse. E di sesso, magari. Io, che di queste cose sapevo poco o nulla, ma che avevo un irrefrenabile desiderio di fare pratica e di capirci qualcosa.
Volevo essere una Carrie Bradshaw all’italiana, per farla breve. Io, che amavo Sex and the City e che sognavo di vivere in una grande metropoli. Io, con le mie tre adorabili amiche. Io, che ero maledettamente in ritardo e che, quelle amiche, le avrei rese presto o tardi un po’ meno adorabili.
Lasciai sul pc qualche appunto. Come sempre, ci avrei lavorato in seguito. Chissà se un giorno- un utopico giorno -il tempo non sarebbe più stato per me una specie di criptonite.
 
L’assenza di puntualità è un problema a cui sono destinate tutte le donne?
Sarà che ci hanno sempre inculcato l’idea che in amore vince chi fugge.
Così, a lungo andare, noi donne ci siamo abituate a fuggire, a farci rincorrere, a farci aspettare...
O, magari, ci sono donne create con l’orologio funzionante, con pile che durano a vita... ed altre “con le batterie non incluse nel prezzo”.
Ma quelle batterie sono “vendibili separatamente”? O noi ritardatarie siamo condannate alle pile scariche?

 
Magari il mio orologio era a corda, vecchio modello, per intenderci.
Guardai quello appeso alla mia parete: io e il tempo non andavamo per niente d’accordo e probabilmente non ci saremmo mai alleati.
Chissà, magari mi mancava la voglia di caricarlo, quell’orologio. 
Salvai il documento e spensi il pc.
Presi una canottiera semplice, bianca, con delle scritte in inglese. Mi piacevano le magliette così particolari, intelligenti, studiate. Era difficile trovarle qui in giro, per questo mi toccava comprare parecchie cose sul web. Decisi di abbinarla ad un paio di shorts in jeans e di lasciare liberei i miei boccoli- sì, i miei boccoli arancioni.
Le chiavi dello scooter erano finite sotto il cuscino... non sapevo come, ma quello era uno dei posti più “normali” e prevedibili dove cercare quelle chiavi.
Mia mamma me lo diceva spesso che ero disordinata. Eppure, nel mio ordinato disordine trovavo sempre tutto e ci vivevo benissimo.
Gli occhiali da sole, maschili e scuri, erano su un mobile in corridoio, accanto al casco nero e lucido, con il mio nome stampato sopra. Ero spesso vittima della vanità e la personalizzazione degli oggetti era un'arma in più per gonfiare il mio ego a palloncino. Probabilmente, ci avevo messo l'elio, perché volava parecchio alto. 
 
In pochi minuti arrivai a casa di Alice, per la solita riunione settimanale, l’ultima estiva. Avrei voluto essere Homer Simpson- ma da quello che dicevano somigliavo molto di più alla saccente e perfettina Lisa -solo per dire “d’oh” con la giusta enfasi: il giorno dopo, sarebbe cominciata la scuola e quel “d’oh” ci stava davvero tutto.
Tenni il dito premuto sul citofono per quattro secondi esatti, era il mio modo di farmi riconoscere ed, infatti, sentii solo lo scatto metallico del portone, che mi accolse senza bisogno di nessun “chi è?” urlato da qualche apparecchio poco funzionante. Di sicuro, però, non mi aveva aperto Ali...
Salii a passo abbastanza svelto al secondo piano- potevo mica allungare il mio ritardo di qualche altro minuto? –e, anche lì, trovai la porta aperta.
Di solito, le nostre riunioni obbligatorie si tenevano una volta ogni due settimane, di lunedì, nel solito bar, del solito centro commerciale.
Ma oggi c’era qualcosa di diverso dal solito, qualcosa che aveva dirottato il nostro incontro verso un’altra destinazione, una motivazione parecchio importante, perché mai e poi mai, prima di allora, avevamo cambiato qualcosa alla nostra solita tradizione.
Eravamo aperte alle novità, ma tenerci le nostre care vecchie abitudini ci faceva sentire... non so, sicure?
Chiusi la porta alle mie spalle in maniera alquanto sonora.
«Dov’è l’infortunata?» dissi, a voce alta, quasi ironica. Senza aspettare una risposta, mi diressi nella cameretta di Alice. Era pur vero che zompettava qua e là con le sue stampelle, ma dove poteva trovarsi una ragazza con una gamba ingessata? Ovviamente, sul suo letto, circondata dai capelli svolazzanti di Angelica e dalle tenere moine di Isabella.
Ed eccola lì, la causa del “grande” cambiamento. Appoggiata sul letto, c’era la gamba destra di Alice, immobile, ricoperta di gesso bianco.
Un minuto di silenzio. Le ragazze mi studiavano con uno sguardo inquisitore che avrebbe fatto paura agli agenti della CIA.
«Ciao Cloe! Come va, Cloe? Siamo felici di rivederti, Cloe!» suggerii io che, come al solito, avevo sempre voglia di scherzare, con  la mia vena di sarcasmo finto-acido. E, ovviamente, avevo anche voglia di evitare la predica.
«Clo... sei in ritardo!» sentenziò Alice.
«Di quarantadue minuti e... venti, ventuno, ventidue...» precisò Isa.
«E, quindi... devi farti perdonare... va’ a prendere il gelato in cucina!» sorrise, invece, Angie. I suoi capelli biondi e lisci, le davano davvero un che di angelico, ma il suo nome non le si addiceva. Dolce, gentile, sì, ma angelica proprio no.
«Cioè, mi avete aspettata per mangiare il gelato tutte insieme... ma che carine! Vado e torno!» ironizzai io.
«Sai com’è- mi spiego Isa – Alice non può muoversi e, fino a prova contraria, quella che conosce meglio la casa sei tu. Almeno sai dove mettere le mani!».
«In gola, per strozzarti? Sempre con gentilezza, tesoro mio, sia chiaro!».
In risposta, solo una linguaccia infantile e divertita, mentre Angelica scuoteva la testa.
Eravamo fatte così io e Isabella. Ci divertivamo a punzecchiarci verbalmente, per vedere chi le sapeva usare meglio, le parole.
In quantità mi batteva di sicuro. Ma in qualità... beh, lì potevo gareggiare a testa alta.
Isa, però, aveva ragione, io la conoscevo bene quella casa. O meglio, l’avevo frequentata talmente tanto, da aver imparato il necessario per la sopravvivenza.
Erano quasi tredici anni che giravo tra quelle stanze, sentendomi praticamente a casa mia. Ero una di famiglia e lo stesso era per Alice, quando era lei a stare da me. In realtà, ci alternavamo ad un ritmo mai preciso o prestabilito, ma perfettamente funzionante.
A far girare ancora meglio l’ingranaggio che avevamo creato dalle elementari, si erano aggiunte quelle altre due matte, al primo anno delle superiori. Ed ora che stavamo per affrontare l’ultimo, eravamo un gruppo collaudato. Ne ero convinta: sotto sotto, facevamo invidia a molte. Perché eravamo sincere, sempre allegre e, soprattutto, perché noi ci volevamo bene. Non un bene da “tvb” alla fine di un sms o di bacetti sulla guancia appena ci si incontra, un bene che ci permetteva di scherzare e prenderci in giro a vicenda, che ci dava la sicurezza di fare progetti a lungo termine.
Ci volevamo bene davvero. Di quel bene che attutisce le cadute, che cancella i lividi. E che non arriva mai in ritardo.
Beh, nel mio caso, forse, un po’ di ritardo ci poteva stare... ma solo temporale, perché quello affettivo non me lo sarei mai perdonata. Lì ero anche fin troppo puntuale, per fortuna.
 
Presi un piatto, quattro cucchiaini e quattro bicchieri di vetro, poi aprii il congelatore. Cioccolato puro per Alice, con un po’ di stracciatella per Angelica, solo caffè per Isa e, per me, fragola e cioccolato. Che era un abbinamento strano, me l’avevano sempre ripetuto, eppure, a me piaceva da morire osare certi accostamenti. 
Per finire, terzo cassetto a sinistra.
Barrette no, brioche alla frutta no... caramelle neppure...
E poi, eccoli. Biscotti con gocce di cioccolato, i preferiti di Alice. Li mangiavamo con il gelato, ogni estate, e questi erano addirittura fatti in casa dalle mie manine fatate. Gliene avevo portati una trentina un paio di giorni fa e, con immenso piacere, vidi che la quantità iniziale si era ormai dimezzata.
Ne presi cinque o sei e li misi nel piatto, insieme ai bicchieri e ai fazzoletti. Ero previdente, avevo preso tutto il necessario per la merenda, altrimenti mi sarebbe toccato tornare di nuovo in cucina.
I miei pensieri su come evitare le torture che le ragazze avevano architettato, furono interrotti da una voce che conoscevo.
«Alice, sei qui? Secondo te...» disse, entrando in cucina, ma poi si accorse che io... beh, che io non ero la sorella.
Mi voltai e incrociai gli occhi nocciola di Alessandro, il fratello di Alice. Aveva dieci mesi in più rispetto a lei, ma dato che sua sorella aveva frequentato la primina, ci eravamo trovati tutti e tre in classe insieme. Fino alle medie, però. Comunque, non lo conoscevo benissimo, diciamo che ci eravamo persi il reciproco sviluppo adolescenziale, quello che avevo condiviso con sua sorella, quello che ci aveva portati ad essere ciò che eravamo ora.
Lo ricordavo più basso e lui, forse, mi ricordava un po’ più goffa. Ma adesso, era tutta un’altra storia, adesso eravamo grandi.
«Ah, Cloe, sei tu! Mia sorella?» chiese, con fare disinvolto, certamente più disinvolto del mio. Molto strano. Io ero sempre disinvolta, sempre a mio agio, sempre. Ma non in quel momento.
Dio, stavamo parlando di Alex.
No, Cloe, no.
«È... è di là... con le ragazze...» balbettai.
Io che balbettavo?
Dio, Dio, Dio!
Che mi stava succedendo?
«Vabbè, Clo, mi fido di te... stasera ho una festa di compleanno e... secondo te, la camicia è meglio fuori o dentro?» disse, sfilandosela dai jeans.
Anche senza saresti perfetto... pensai, mordendomi il labbro.
Abbassai gli occhi, lieta di non aver parlato ad alta voce.
«D... dentro...» riuscii a dire, ancora più confusa.
«Ok, la metterò dentro!».
E tutto cominciò per una camicia. Una semplice camicia nera, disegnata sul suo corpo divino.
Fece per andarsene, poi indietreggiò.
«Mi passi un biscotto?».
Presi meccanicamente quel piccolo concentrato di zuccheri e allungai la mano verso di lui, che si chinò per afferrare il biscotto direttamente con le sue labbra. Quelle labbra carnose che non avevo mai notato ma che, impercettibilmente, sfiorarono le mie dita, offrendomi una scarica di adrenalina pura.
«Grazie, Cloe!» mi salutò, masticando.
O, forse, tutto cominciò per i biscotti. I miei biscotti, quelli di cui sapevo la ricetta a memoria, quelli che avevano lo stesso croccante colore dei suoi occhi.
 
Fortuna che i gelati non si erano sciolti nemmeno un pochino- i miracoli della natura e dell'aria condizionata -altrimenti, chi le avrebbe sentite le ragazze?
Entrai in stanza e subito compresi l’argomento della loro conversazione.
«Vi prego, non parlate della scuola, della maturità... avremo nove mesi di tempo per farlo. Perché ora? Oggi siamo ancora in vacanza, solo per oggi, ma lo siamo... e questo è il nostro ultimo giorno prima del primo giorno di scuola... okay, pensiero contorto, mi fermo!» dissi, tutto d’un fiato.
Parlare mi aiutava a non pensare, per questo non capivo cosa potesse significare quel famoso detto.
Il silenzio è d’oro. Ma dico, scherziamo?
«Wow, Clo... hai fatto un discorso lunghissimo. Addirittura più dei miei... and the winner is... Cloe Marini!» mi punzecchiò Isa, con la solita aria scherzosa.
Era il nostro modo di dimostrarci affetto.
«Grazie, grazie...» e accennai un inchino, per stare al gioco.
Iniziammo a mangiare il gelato, io e Alice con i biscotti, come al solito. E, come al solito, Alice tornò a parlare di scuola.
«E se fuggissimo su un altro pianeta? Così possiamo disertare l’anno scolastico! Magari ci facciamo fare il certificato medico da un marziano!» propose, quasi convinta delle sue idee bizzarre. Era la più fantasiosa delle quattro, non c’è che dire.
«Secondo me, le battute di Cloe sono più carine... e anche quelle di Isabella... Ali, che ci vuoi fare... noi siamo negate...», sospirò, fingendo di metterci il broncio.
«Sappiamo noi per cosa sei portata, Angelica...» sentenziò Alice, con voce molto maliziosa, sottolineando quanto fosse inappropriato il nome Angelica al suo modo di essere un po’… disinibito. Un po’ quanto? Un bel po’, ma ci stava attenta. Ed era questo l’importante.
Lei sì che poteva dire di essersi goduta l’adolescenza. E goduta nel vero senso della parola, non come me, con il curriculum sentimentale che faceva invidia a una suora.
«Daiiiii!» quasi tirava un cuscino in faccia ad Alice che, furba come al solito, spostò l’attenzione su di me.
«Clo!! Che belle quelle ballerine! Dove le hai prese?».
E raccontai la storia di quelle flat shoes nere con il fiocco color crema sulla punta arrotondata: «Haute couture, ragazze! Haute couture!» scherzai, mostrando un delizioso accento francese.
E provenivano davvero dalla Francia, quelle scarpe: me le aveva portate mamma, qualche giorno prima. Era stata a Parigi per realizzare un servizio su non so cosa, per non so quale notiziario del fine settimana. Faceva la giornalista, l’inviata, per la  precisione.
Lei girava il mondo, e io collezionavo souvenir. Per fortuna, da quando avevo quindici anni, si era accorta che qualcosa in me era iniziato a cambiare e, invece di matrioske e nacchere, aveva cominciato a regalarmi magnifici capi d'abbigliamento e scarpe da urlo.
Niente che si potesse trovare con facilità qui in Italia, ovvio.
Haute couture. Senza dubbio, haute couture.
«Hai mai detto a tua mamma che hai delle amiche a cui vuoi un mondo di bene?».
Isabella, tanto per cambiare.
E di nuovo risate, immaginando poi le prossime vacanze, quelle che avremmo fatto con il diploma in tasca ed una meritata libertà.
Ma il giorno dopo tutte a scuola e, questa condanna, non ce l’avrebbe tolta nessuno.
 
D o n n i e 's Cupcake;  
Ho scritto questa storia tra il 2008 ed il 2009, nell'anno in cui ho preso la maturità. L'ho pubblicata su un forum, all'epoca. E, adesso, m'è venuta voglia di rispolverarla. Spero che vi venga voglia di assaggiarne almeno qualche boccone. 

  
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