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Autore: Nerween    13/06/2011    3 recensioni
Riprese il cappotto bagnato che aveva lasciato sul divano di Rob e si avviò all’uscio preparandosi alla pioggia scrosciante che lo attendeva. Quella maledetta pioggia d’estate.
Mentre Robbie gli apriva la porta, Mark si girò un’ultima volta per salutarlo. Vedeva nei suoi occhi verdi tristezza, ma una scintilla in più di libertà. Gli fece un ultimo cenno di saluto ed uscì.
La pioggia era sottile e fredda, proprio come quella mattina. E mentre l’acqua gli scivolava nel colletto e lo penetrava fino alle ossa, si incamminò per la strada con la promessa che un giorno, vicino o lontano, tutto sarebbe tornato a posto.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Mark Owen, Robbie Williams
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era da un po’ di tempo che avevo in mente questa one-shot. Non so perché, ma in una delle mie serate insonni, quelle calde e afose quando non riesci a prendere sonno, mi sono immaginata il dialogo che avrebbero potuto avere Mark e Robbie il giorno in cui quest’ultimo lasciò i Take That. All’inizio volevo realizzare una flash-fic, poi mi sono lasciata andare e mi sono accorta che superava le 500 parole, quindi mi sono messa con l’anima e con lo spirito santo (LOL) e ho tirato fuori questa. Le sei pagine di word scritte più velocemente nella mia vita. Sono abbastanza orgogliosa di questa storia, anche perché è la prima volta che scrivo di questi qui. Ma non allarmatevi, sono sempre una Barlowen ferma e convinta u.u
Che dire, rischio di scrivere più per l’intro di quanto abbia scritto nella shot. A questo punto dovrei essere prosciugata di parole ma il fatto che sia ancora qui a scrivere è preoccupante ._.
Ok, basta D:
Enjoy u_u





 

That damn summer rain.
One day, everything will be alright.

 

 

La pioggia di quella mattina di luglio era sottile e fresca, come quelle che si vedono continuamente in Inghilterra nei mesi estivi. Non che fosse una novità per gli inglesi, per loro la parola “estate” significava semplicemente niente scuola e stare in spiaggia con vestiti rigorosamente autunnali.
Fu il continuo ticchettare sulla finestra della sua camera a svegliare Mark quel pigro giorno in pieno luglio. Si stiracchiò e aprì piano gli occhi impastati di sonno. Maledisse quell’insistente pioggia per averlo svegliato, perché avrebbe preferito cento volte dormire per ore e ore anziché alzarsi dal letto e andare a provare. 
Il motivo di tale desiderio non era certo la pigrizia, o meglio, non solo: semplicemente da un po’ di tempo era molto raro svegliarsi con il sorriso sulle labbra e con l’entusiasmante voglia di andare dai suoi compagni di band a provare o scrivere canzoni. 
Era diventato un peso, più che altro, si ritrovò a pensare mentre finalmente, di cattivo umore, si alzava dal letto e andava a farsi una doccia veloce. Un insopportabile dovere da affrontare ogni giorno. Stare in stanza con gli altri quattro era in assoluto la cosa che ultimamente, più di qualsiasi altra, lo infastidiva. 
Precisamente da quando il gruppo si era diviso in due. Dalla sua parte c’erano solo lui e Robbie, entrambi contro gli altri tre e contro Nigel. 
Da quando Robbie aveva cominciato a fare uso di alcool, la situazione era precipitata: veniva tardi alle prove, a volte nemmeno era presente, si comportava con indifferenza e poco rispetto, e questo dava non poche noie agli altri. La cosa grave era che erano a pochi mesi dal prossimo tour che li avrebbe portati in tutta Europa e, perché no, forse c’era la possibilità di toccare anche il continente americano. Il sogno di una vita, insomma, e Gary, Jason e Howard erano del parere che Robbie stesse rovinando tutto ciò con il suo comportamento immaturo.
C’erano state parecchie discussioni a riguardo, in realtà: ma a parlare per Robbie era sempre e solo Mark, dato che egli se ne stava tutto il tempo con il broncio fingendo indifferenza, o nei casi peggiori usciva dalla stanza sbattendo la porta. Mark cercava in tutti i modi di mettere a posto la situazione, dicendo che era solo un ragazzino esaltato dal successo e che sarebbe potuto succedere a tutti.
Perché non capivano la sua situazione?
Mark scagliò un pugno contro la fredda parete della doccia, mentre l’acqua scorreva fredda sulle nocche arrossate della mano. Era fottutamente difficile
uscire fuori da quell’affare, così maledettamente orribile da fargli perdere l’entusiasmo per la cosa che amava al di sopra di tutte: cantare. Poco importava che facesse parte della band di maggior successo in quegli anni, che fosse il celebre Mark Owen. Importava l’unità nel gruppo, la solidarietà e l’appoggio. Tutto ciò che i suoi compagni stavano mandando a quel paese, perché Robbie non riusciva a controllarsi e perché gli altri tre non riuscivano a compredere il suoi disagio, o se lo capivano, non facevano nulla per aiutarlo.
E così Mark si trovava diviso in due. La colpa era da entrambe le parti, e lui non sapeva proprio cosa fare.
« Mark, cazzo, ti decidi ad uscire? C’è gente che dovrebbe farsi la doccia oltre a te! »
La voce di sua sorella gli fece apprendere con orrore che stava in bagno da un arco di tempo maggiore del dovuto, così uscì di corsa dalla doccia, si circondò dell’accappatoio e filò in camera sua.
Non mangiò niente a colazione, non era dell’umore adatto per ingozzarsi di uova e pancetta come avrebbe fatto in una giornata normale. 
Quando uscì di casa impiegò troppo tempo per trovare le chiavi della sua auto e dopo che ebbe poco educatamente mandato a quel paese alcune ragazzine appostate fuori il cancello di casa sua, andò dritto a lavoro. Quel giorno avrebbe scaricato la sua rabbia repressa sul tempo, se lo sentiva: imprecò contro quel cielo perennemente coperto di nubi. Perché non poteva spuntare il sole, almeno per un giorno? Almeno avrebbe portato un po’ di entusiasmo. 
Idea impossibile da concepire: il suo malumore era più denso di quelle nuvole sopra di lui.
Il risultato della doccia prolungata e della ricerca delle chiavi della sua auto fu un ritardo al lavoro. Ciò che esattamente non ci voleva in quel clima di tensione. Aveva la terribile sensazione che la corda che li teneva uniti si stesse tirando troppo e che non avrebbe retto a lungo.
Arrivò in sala prove preparando già la scusa per il suo ritardo: una doccia prolungata per mancanza di acqua calda poteva andare bene. Ma quando entrò nella sala dove c’erano gli altri, non li vide provare, anzi confabulavano tra loro.
« Ciao » disse semplicemente « Scusate il ritardo. »
Gli altri borbottarono un saluto. Qualcuno mormorò « Non preoccuparti, tanto non sei l’unico in ritardo. »
Si guardò intorno con la fastidiosa certezza di non trovare Robbie: infatti, il quarto elemento che aveva scambiato per lui era invece Nigel.
« Che ci fai qui? » domandò subito Mark, senza perbenismi.
« L’ho chiamato io » intervenne Jason. Mark si sentì montare di rabbia.
« Perché? »
« Perché dobbiamo parlare » disse calmo Gary « Di Robbie. »
« Mi pare che lo stesse già facendo prima, no? » rispose secco Mark, squadrando Nigel con sospetto « O volete raccontarmi che discutevate allegramente del tour? »
« Entrambe le cose, in realtà » intervenne Howard.
« Non è colpa nostra se è in ritardo, di nuovo. E non mi stupirei se non si presentasse nemmeno oggi » aggiunse Jason.
Mark trattenne il fiato per non scoppiare. « Avrà le sue ragioni per comportarsi così, no? » e frenò il suo impulso di aggiungere Magari non gli va giù la compagnia che si ritrova.
« Dovrebbe avvertirvi » disse Nigel.
Mark fece finta di non ascoltarlo « Non pensate che potrebbe dargli fastidio il fatto che gli parliate alle spalle? »
« Be’, a noi danno fastidio i suoi ritardi e le sue assenze! » sbottò Jason.
« Il punto non è questo, comunque » intervenne Gary rivolto a Mark e Jason « Calmatevi e parliamo da persone mature. »
Persone mature? Mark pensò che in quella stanza di persona matura non ce ne fosse nemmeno mezza.
« Tutto questo mi sembra una pagliacciata » borbottò Mark, poi indicò Nigel « E lui che c’entra? »
« Come ti abbiamo detto, dobbiamo parlare del tour » disse Gary con estrema calma.
« Sì, va bene » disse Mark in fretta « Aspettiamo Robbie e ne parliamo, ok? »
« In realtà volevamo prima… esporti un’idea. »
Mark guardò di sottecchi Gary, poi annuì come a dire Avanti, spara.
Gary chiuse gli occhi e sospirò « Stavamo prendendo in considerazione l’idea di fare il tour senza Robbie. »
Boom. Colpito e affondato. Mark VS Tutti gli altri, 0 a 1. Era una battaglia navale persa in partenza.
Mark si sentì mancare. Lo sapeva, lo sapeva che prima o poi si sarebbe arrivati ad una conclusione del genere.
« Praticamente volete farlo fuori » disse con voce atona. Si sentiva privato di emozioni. Non poteva crederci.
Tutti tacquero, guardando in ogni direzione tranne che nella sua. 
Poi Howard si schiarì la voce « Magari… fin quando non si riprende, ecco… »
« Volete cacciarlo, sì » concluse Mark, questa volta con una punta di rabbia nella voce « Volete farlo fuori senza nemmeno aiutarlo… »
« Noi vorremo aiutarlo! » sbottò Jason « Ma lui non si fa vedere, e quelle volte che viene a provare ci tratta come se fossimo i suoi nemici giurati! »
« Robbie ha un problema, è normale che non voglia parlarci quando… quando è… »
« Quando è sbronzo dalla testa ai piedi » concluse Gary.
Mark sentiva che non ce l’avrebbe fatta a lungo. Doveva dire qualcosa, doveva fare qualcosa per mettere fine a quell’assurda idea.
« Ma siamo i suoi amici » disse. Il tono di rabbia che aveva avuto fino a prima aveva completamente lasciato il posto a quello di preghiera « Se non l’aiutiamo noi, chi può farlo? Ragazzi, ragionate! Rob ha bisogno di una mano e noi che facciamo? Lo escludiamo dal gruppo? Il tour può andare a farsi fottere, possiamo posticiparlo, o non farlo, no? Prendiamoci del tempo! Aspettiamo che Robbie si riprenda… non possiamo abbandonarlo e fare il tour… »
« Per me va bene » disse una voce rauca alle sue spalle.
Mark si voltò immediatamente. Il panico lo invase: sulla soglia della porta, con lo sguardo basso di un bambino che sta per scoppiare a piangere ma non lo fa per orgoglio, c’era Robbie. Aveva le mani strette a pugno, le braccia serrate lungo i fianchi. 
« Va benissimo, sul serio. Non desideravo altro » disse, poi alzò gli occhi. Adesso sorrideva, il sorriso di chi si sente liberato da un peso.
« Robbie, aspetta, non arrivare a conclusioni affrettate! » tentò di dire Mark, ma Robbie lo zittì.
« Lascia stare Markie, e poi mi sembra che ci siate arrivati già da soli. Sapete, è davvero una coincidenza questa » disse ridendo. Una risata amara. « Ero proprio venuto a dirvi che avevo intenzione di mollarvi tutti e voi dite che volete farmi fuori dal tour. Non avrei desiderato un modo più semplice per concludere le cose. »
Mark rimase immobile lì dov’era, non riusciva a muovere un muscolo. 
« Non dici sul serio, Rob » mormorò incredulo « Non puoi. Non vuoi lasciarci. »
« Invece è proprio quello che voglio » rispose Robbie, sorridendo ancora di più « Sì, avevo già intenzione di lasciarvi da un po’ di tempo. Credo che prenderò al volo l’occasione. »
« NO! Aspetta, ragioniamo! »
« Non ce n’è bisogno, Mark. Anzi, penso che a questo punto non abbiamo più niente da dirci. E’ stato un piacere, ragazzi. »
E detto ciò uscì dalla stanza, questa volta senza alcun rumore, senza rabbia, senza sbattere la porta. Se n’era andato, e non se n’era andato per un litigio alle prove, quella volta se n’era andato per sempre. Il giorno successivo non sarebbe tornato, né il giorno dopo né quello dopo ancora. Semplicemente non avrebbe rimesso piede nella stanza dove c’erano gli altri quattro.
Si voltò verso i suoi compagni, traboccante di un sentimento che non sapeva definire. Ira, incredulità. Delusione. Perché non avevano detto nulla? Perché avevano lasciato che Robbie se ne andasse così, senza pronunciare mezza parola per farlo restare?
Ma quello era esattamente il loro desiderio. Si erano aiutati a vicenda a mollarsi, nel modo peggiore che potesse esistere. 
Poi guardò la porta. Era rimasto imbambolato in mezzo alla stanza per almeno una decina di minuti, senza sapere cosa fare o come comportarsi. Pensò che quello era il desiderio degli altri, non il suo. Lui voleva Robbie nel gruppo. Poteva fare ancora qualcosa.
Ormai Robbie doveva essere andato via da un pezzo. Chissà dov’era, probabilmente a casa sua. Doveva tentare. Uscì di corsa dalla stanza mentre gli altri gli chiedevano urlando dove stesse andando. Come se non fosse ovvio da capire.
Vado a riprendere un amico, rispose tra sé. 


Correre in bicicletta sotto quella pioggia non era il massimo del benessere, ma era l’unico modo per raggiungere in fretta Robbie. Non aveva pensato nemmeno minimamente di prendere la sua auto, sarebbe rimasto bloccato nel traffico delle strade e non era l’ideale. Così la dea bendata si era decisa a stare dalla sua parte e per caso, mentre usciva dagli studi, aveva visto quella bicicletta vicino ad un palo, senza catene, lasciandogli la possibilità di prenderla al volo. Si sarebbe scusato con il proprietario, prima o poi, ma quella non era la sua priorità in quel momento.
Sfrecciando tra le strade, evitando macchine, si stava inzuppando per raggiungere il suo amico, ma non gli importava: il fine giustificava i mezzi, e se davvero fosse riuscito ad aggiustare le cose nel gruppo, non gli sarebbe minimamente importato del raffreddore che si sarebbe beccato.
Arrivò alla casa di Robbie, la piccola dimora che si era comprato, perché abitare ancora a Stoke era scomodo. Abbandonò la bicicletta sul marciapiede e corse alla sua porta.
Non seppe per quanto tempo bussò al campanello, senza ricevere risposta. Sapeva solo che l’acqua era fredda, che aveva i capelli scompigliati e bagnati, che Robbie era lì dentro anche se cercava di nasconderlo.
« Robert Peter Williams! » urlò alla porta « Fammi entrare, maledetto bastardo! »
La gente lo guardava scandalizzata, mormorava Ma quello è proprio Mark Owen, dev’essere fatto… 
Se Robbie sperava che Mark avrebbe mollato, si sbagliava: Mark continuò a bussare, fin quando la porta finalmente non si aprì.
« Stai perdendo il tuo tempo, Owen » mormorò Robbie.
« Fammi entrare o continuerò ad urlare per strada che sei un deficiente » ribattè Mark.
Robbie si scostò e lo fece entrare. Mark entrò di corsa in casa e gettò il suo giubbino bagnato sul divano del piccolo salotto.
« Ti sei bagnato inutilmente, Mark, te lo ripeto » sospirò Rob « Stai solo perdendo tempo. »
« Lo dico io se perdo tempo o no. »
Robbie si passò una mano sugli occhi, sembrava esausto. « Cosa c’è ancora? Siediti, sei fracido. Vuoi un po’ di tè? »
« Non lo sai nemmeno preparare il tè » disse Mark « Non voglio niente, solo parlarti. »
« Credevo che ti fosse chiaro che non abbiamo niente da dirci. Quindi se sei venuto qui per dirmi quanto ti dispiace puoi anche andartene. »
« Mi stai cacciando da casa tua, Robert? » sibilò Mark « Ricordami, chi ti è stato sempre vicino? Chi è stato dalla tua parte, e ti ha difeso mentre gli altri si schieravano contro di te? Mi dispiace, ma non me ne andrò finchè non avremo risolto la questione. »
Robbie sospirò rassegnato. « Non volevo offenderti. Ma sai com’è, qualcuno oggi parlava di tour senza Robbie! »
« Io ti stavo difendendo! » urlò Mark.
Robbie guardò il pavimento, « Lo so, ho sentito. »
Mark si sentì uno stupido per averlo attaccato così.
« Quanto… quanto hai sentito della conversazione? » chiese con più calma.
« Abbastanza da capire che dovevo farla finita. »
« Eri davvero venuto lì solo per dire che ci mollavi? »
Robbie annuì, evitando accuratamente lo sguardo di Mark. 
Quest’ultimo sospirò. « Da quanto tempo volevi lasciarci? »
« Da un po’. Da quando ho capito che stare in gruppo non fa per me. »
« Perché? » Mark sembrava sull’orlo delle lacrime.
« Oh, il perché lo sai, cazzo » sbottò Robbie, che invece sembrava sul punto di infuriarsi « Non ce la faccio più, non capisci? Non voglio continuare a sottostare agli ordini di Nigel, non voglio essere il corista di Gary Barlow e non mi piace nemmeno ballare! »
« E allora dillo! Perché ritirarsi e mandare tutto a puttane? »
« L’ho già fatto, Mark. »
Robbie cominciò a camminare avanti e indietro. Sembrava terribilmente frustrato.
« Ci ho provato, ma nessuno mi ascolta in quell’inferno! Nigel mi ha detto di stare al mio posto e di fare quello che mi dicevano. Bella merda, no? »
« E’ solo questo il problema? » chiese Mark « Va bene, manderemo via Nigel! Possiamo farcela lo stesso senza di lui, nessuno di noi ha bisogno di quell’uomo! »
Robbie scoppiò a ridere amaramente.
« Non è solo questo. Non capisci? Mi stanno con il fiato sul collo e questo non lo sopporto! A loro da fastidio che io beva e che li metta in ridicolo davanti alle telecamere, aloro interessa l’immagine da bravi ragazzi, e chi se ne frega se a Robbie questo non va bene! Tanto è lui il problema, no? A loro non interessa che sia Gary a cantare, a loro va bene fare i coristi del ragazzo perfetto. Ma a me non sta bene, voglio fare qualcosa di diverso, voglio musica diversa, voglio potermi svegliare la mattina senza sentirmi costretto ad arrivare in orario alle prove, Mark. Voglio poter essere io il protagonista del palco, voglio scrivere le mie canzoni, voglio cantare! »
Mark si sentì arrivare quelle parole come uno tsunami in pieno volto. Forti, potenti. Inarrestabili. Lo sfogo di una rabbia repressa per troppo tempo.
« Possiamo ancora mettere a posto la situazione, Bob! » disse Mark, attaccato alle ultime speranze, afferrandogli la mano e stringendola nelle sue « Basta parlarne! Dovrai dire questo agli altri, ti capiranno… se solo tu ti decidessi a parlarne, se mettessi da parte la rabbia… »
« Non posso Mark » rispose Robbie, liberandosi dalla presa di Mark « Non ricordi quello che hanno detto oggi? Erano disposti subito a farmi fuori dal tour senza nemmeno cercare di parlarne, e non puoi biasimarmi per il mio comportamento, ho reagito di conseguenza a ciò che avevo sentito. Come puoi solo pensare che persone del genere possano capirmi? »
Mark non parlò. Sentì lo sconforto creargli un vuoto nello stomaco e quest’ultimo avere le vertigini come se facesse su e giù troppo velocemente.
« Non sono fatto per stare in un gruppo, Markie » riprese piano Robbie « E’ tempo che segua la mia strada… da solo. »
Mark scosse il capo. No, non poteva assolutamente finire così. Non senza averci provato ancora.
« Ma non è ciò che vuoi, Robbie! Te l’ho detto, non sei costretto, tutto tornerà come prima se solo ci proviamo… »
« Allora non hai ancora capito, Mark? Io non voglio provarci. »
Se prima lo stomaco di Mark faceva su e giù, adesso era definitivamente caduto verso il vuoto. Non sentiva niente, né fuori né dentro di sé. Niente che fosse paragonabile ad un’emozione.
Il silenzio parve avvolgerli in quell’attimo in cui tutto si era fermato, anche il tempo. Mark guardava gli occhi limpidi di Robbie abbassarsi piano fino a fissare un punto indefinito e immobile del pavimento. Non sentiva i suoi arti, non era in grado di muovere un sol dito.
Non poteva essere vero.
Poi la bolla di silenzio scoppiò. Fuori dalla finestra infuocava un temporale, probabilmente uno dei più tosti che in Inghilterra si fosse mai visto nel periodo estivo. O forse era tutto dentro di lui? Erano le sue emozioni che ricominciavano a muoversi disordinate nel suo cervello e nel suo cuore, e si mescolavano con le lacrime che non riuscivano nemmeno a cadere all’esterno degli occhi? Eppure gli parve di sentire più di una goccia sulla guancia sinistra, ed era sicuro che non era a causa dei capelli bagnati dall’acquazzone.
Si riprese. Ricominciò a ragionare, e capì che ormai non serviva più a niente stare lì a discutere.
« Non avrei mai voluto che si arrivasse a questo » disse Mark, cercando lo sguardo del ragazzo che aveva di fronte, che non sembrava più quello di una volta.
Si aspettò, aggrappato all’ultima speranza, che anche Robbie lo dicesse, e così sarebbe stato tutto più facile, lo avrebbe aiutato a chiarirsi con gli altri, tutto sarebbe tornato a posto…
Ma la risposta di Rob non arrivò. Teneva lo sguardo basso, concentrato sulle striature del tappeto. Mark sentì salirgli in petto un impeto di rabbia: avrebbe solamente voluto prendere a schiaffi quella faccia da coglione che si trovava davanti e urlargli che doveva guardarlo bene negli occhi mentre diceva che lo stava abbandonando. Che li stava abbandonando tutti…
Rimasero in silenzio per quella che sembrò un’eternità, poi finalmente Robbie si decise a parlare.
« Mi dispiace » disse semplicemente, questa volta cercando lui stesso lo sguardo di Mark, il quale distolse subito il suo. Robbie fece per avvicinarsi, ma Mark si scostò, con la voglia di sbraitargli contro rimasta bloccata in gola come un fastidioso boccone che non scendeva più.
Rob si fermò e Mark si pentì immediatamente di ciò che aveva fatto: si avvicinò al suo migliore amico e in un gesto improvviso lo abbracciò, lo abbracciò forte, perché non poteva fare a meno di volergli bene come un fratello.
« La porta di casa mia sarà sempre aperta per te, Owen, lo sai » gli disse dall’alto della sua spalla.
Annuì. Sì, lo sapeva, e sapeva anche – con un certo senso di sconforto – che non poteva chiedere di più. 
Si sentì mancare: aveva fallito come amico, aveva fallito come componente di un gruppo. Non era riuscito ad aiutare Robbie e non era riuscito ad aggiustare le discordie all’interno della sua band.
« Ehi, adesso basta man, cosa sono queste smancerie? » disse Robbie, in un vano tentativo di sdrammatizzare. 
Mark si staccò dal suo abbraccio: ormai era tutto già fatto.
Riprese il cappotto bagnato che aveva lasciato sul divano di Rob e si avviò all’uscio preparandosi alla pioggia scrosciante che lo attendeva. Quella maledetta pioggia d’estate.
Mentre Robbie gli apriva la porta, Mark si girò un’ultima volta per salutarlo. Vedeva nei suoi occhi verdi tristezza, ma una scintilla in più di libertà. Gli fece un ultimo cenno di saluto ed uscì.
La pioggia era sottile e fredda, proprio come quella mattina. E mentre l’acqua gli scivolava nel colletto e lo penetrava fino alle ossa, si incamminò per la strada con la promessa che un giorno, vicino o lontano, tutto sarebbe tornato a posto.







   
 
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