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Autore: Jaded_Mars    14/06/2011    5 recensioni
Puoi sempre rinegoziare la tua vita. Non devi vivere dove vivi. Non devi essere infelice.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non riusciva a dormire, continuava a rigirarsi in quel letto estraneo,  in quella smisurata stanza buia. La luce naturale della luna mista a quella artificiale proveniente dalla città filtrava tra i rami del grande albero di fronte alla finestra e si rigettava sul parquet illuminandolo fiocamente. Si mise a sedere, schiena appoggiata al grande schienale di legno intarsiato, le lenzuola blu ancora addosso a  coprirle le gambe, era estate ma faceva fresco quella sera. Aveva un gran cerchio alla testa, non aveva ancora superato il jet lag e l’effetto delle pastiglie che aveva preso per il lungo volo di ritorno da Singapore ancora non era svanito, l’avevano aiutata a tranquillizzarsi durante quelle ore in aria.  Ma era stata sbadata a sufficienza da berci un po’ su alla festa di poche ore prima. D’altronde,però, era il compleanno di sua sorella, non poteva non fare il brindisi. Era arrivata da poco e già voleva andarsene. Irrequieta aveva sempre bisogno di movimento, nuove avventure, nuove occupazioni. Era sempre stato così, si gettava a capofitto nello studio, nel lavoro, nell’amicizia per allontanare i suoi problemi,  chiudendoli dentro i cassetti di un armadio Mettere via e passare oltre. Con gli anni invece che affrontarli, si erano accumulati in enormi giacenze, e prima o poi quei cassetti sicuramente sarebbero esplosi, a furia di riempirli a dismisura.  Una folata di vento diede vita fugace alle tende cadenti. Una lucciola entrò dalla finestra, vagava smarrita in un ambiente che non le apparteneva senza riuscire a ritrovare la via d’uscita.  In fondo la capiva, povera creaturina, anche lei si sentiva spesso così, come quando doveva partecipare alle feste organizzate dalla sua famiglia per i loro amici o presenziare ai grandi ritrovi parentali, in cui bisognava fingere che tutto andasse alla grande, dovere ostentare di essere sempre sulla cresta dell’onda, invincibili e si doveva essere sempre incredibilmente fottutamente perfetti e bellissimi. In quei momenti June non desiderava altro che sprofondare sei piedi sotto terra. Magari avesse potuto strappare da quei visi grotteschi le espressioni di superiorità, come se avessero il diritto di sentirsi migliori degli altri per chissà quale diritto acquisito alla nascita. Migliori di chi poi? Di chi non avrebbe mai potuto permettersi di avere armadi interi di vestiti firmati che forse non sarebbero mai stati indossati? Avere carte di credito platinum dal cachet illimitato o magioni esagerate al posto di vere, intime case dava loro il permesso di potersi credere superiori? Quelle occasioni erano delle vere torture da sopportare, una fiera delle vanità incessante in cui veniva sempre pesata, giudicata e irrimediabilmente trovata mancante. Perché ovviamente non era abbastanza elegante o capelli non erano sufficientemente ricci o i suoi voti non erano tutti eccellenti come quelli di Lisa o non doveva ascoltare certa musica o leggere certi libri, non era ancora fidanzata o un’altra serie interminabile di o che la sfiniva. Tutti questi giudizi mascherati da finta gentilezza, bastava aggiungere un “tesoro” qui e un “cara” là usando un tono amorevole e tutto sembrava accettabile. Un urlo muto si faceva strada nella sua gola. Avrebbe voluto togliersi quel sorriso tirato che sfoderava per far sentire quelle sirene a posto con la loro coscienza e sputar loro addosso: “ Mi piacerebbe vedervi passare una settimana a vivere per strada, non credo sopravvivreste, se doveste passare un giorno o due nelle scarpe di qualcun altro, inciampereste e cadreste rovinosamente a terra, rovinandovi quel naso finto che vi trovate attaccato alla faccia!”

Quelle torture però avevano una fine e tutto tornava alla finta normalità, all’ordine del giorno, suo padre che non c’era mai sempre a lavorare in ufficio o in giro per il mondo, sua madre che gettava i soldi al vento in cazzate che, dopo il primo momento di auge, finivano nel dimenticatoio, sua sorella Lisa che sprecava il suo talento a studiare scienze delle merendine, ma pur sempre prendendo ottimi voti il che era sufficiente per farla diventare la migliore agli occhi distorti della sua famiglia.

E poi…e poi c’era June che tirava un sospiro di sollievo. June che tornava in camera e si scioglieva da quelle corde da marionetta e si riprendeva se stessa. Via l’abito di seta che la faceva apparire bellissima ma sentire goffa e costretta, via collane e orecchini dalla lucentezza abbagliante, non ne aveva bisogno, aveva già due splendidi occhi blu che avrebbero fatto invidia a uno zaffiro, via sorrisi finti e frasi di circostanza, via tutto.

Si accorse che la  lucciola era scomparsa, l’aveva persa. Si sentì il viso umido, aveva pianto e non se ne era accorta. Scese dal letto e i suoi piedi nudi vennero a contatto col freddo pavimento. Si infilò il primo paio di jeans che le capitarono a tiro dalla valigia non ancora sfatta. Erano strappati (“non puoi permetterti di andare in giro con quella schifezza addosso, vuoi essere presa per una stracciona?” prese una tshirt a righe da marinaio bianche e blu (“che cosa anonima, ma perché ti svilisci così? Nessuno ti noterà mai!”) e si allacciò le sue converse nere (“orribili, semplicemente orribili, e così di cattivo gusto!”) Beh sai che c’è mamma? onestamente non me ne frega un cazzo di quello che dici, perché come vedi, le metto lo stesso. A ME piacciono. Aprì completamente la finestra della sua stanza e fu invasa da un profumo intensissimo di rose. Il suo balcone ne era pieno. Le sue rose, così belle e innocenti e allo stesso tempo puramente pericolose. Si fermò ad ammirarle nella loro placida perfezione. Loro non soffrono. Lo sguardo cadde su un fiore con qualche petalo appassito . O forse sì? Chissà se anche loro stavano male come lei, a dovere sforzarsi di essere sempre all’altezza delle aspettative, sempre impeccabili per non rischiare di essere recise dalla mano spietata di un giardiniere che le reputava oramai sufficientemente pronte per essere gettate via. Chissà se anche quella rosellina così bella veniva schernita per la sua imperfezione, per il suo essere diversa. June era diversa ma solo perché non condivideva certi principi che regnavano nella sua famiglia, perché aveva passione per cose diverse e che per loro erano inutilità. Lei stava bene quando era lontano da quella morsa, libera dalle catene dell’etichetta, quando poteva mostrarsi nella sua interezza ed essere ascoltata e capita oppure no, ma senza mai essere giudicata.

“Puoi sempre rinegoziare la tua vita. Non devi vivere dove vivi. Non devi essere infelice. Semplicemente rinegozia e cambia i fatti. Se obbedisci ogni volta che ti dicono che non puoi fare quello o che devi fare questo, diventerai la persona che non vorresti mai essere. Semplicemente rinegozia.”*

Le parole di quell’uomo, quelle sagge parole mesi fa l’avevano colpita come una freccia, dritta al cuore. Erano state un’ispirazione per dare una definitiva virata alla sua vita. L’avevano fatta riflettere. Rinegoziare. Certo l’aveva fatto, ed ora andava meglio, molto meglio. Ma non aveva ancora definitivamente preso il largo, mancava ancora qualcosa, altrimenti in quel momento non si sarebbe trovata ancora dentro quella prigione. Lasciò andare la rosa che aveva in mano, sfiorì improvvisamente, i petali caddero a terra, “Peccato, eri la migliore” pensò. Scavalcò la ringhiera del balcone, scese fino a terra con gesti esperti come oramai era abituata a fare dopo anni di pratica e iniziò a correre. Via l’influenza negativa. Via la tristezza. Via la teatralità. Via il dramma. Corse giù per la collina a perdifiato, fino a che i polmoni non le fecero male, finché non scoppiò. La sua meta non era lontana, oramai era quasi arrivata, vedeva le luci accese in lontananza. Quella casa adorata, non tanto bella come quella dei suoi genitori, modesta ma piena d’amore. Riprese a correre, June, verso il suo amato James. Aveva disperatamente bisogno di lui, quell’uomo che la completava, che la faceva sentire viva, con cui poteva permettersi di sbagliare, dal quale riceveva amore, solo puro semplicissimo amore. La sua roccia, l’appiglio che la teneva ancorata alla realtà che le stava aiutando a trovare le basi per costruirsi la sua vita.  June arrivò sempre più vicina, mancava poco. Non suonò il campanello. Andò sul retro e aprì la finestra, quella che lui lasciava sempre sbloccata per lei, perché potesse raggiungerlo ogni volta che ne avesse avuto bisogno. La sala era vuota, ma il fuoco era acceso. Solo in quel momento si accorse di avere freddo nonostante la corsa. Era il freddo che si portava dietro da casa, dalla sua infanzia e che faceva fatica ad abbandonarla, forse le sarebbe rimasto dentro per sempre. Si avvicinò alle fiamme che scoppiettavano allegre per riscaldarsi. Poi lo sentì, quel profumo inconfondibile, e si girò di scatto. James era lì, davanti a lei, alto, rassicurante, la sua roccia. L’abbracciò forte, come se non volesse mai più lasciarla andare. June scoppiò a piangere, avvolta e protetta tra quelle braccia forti,  ma questa volta non era tristezza quella che stava sfogando, no, era gioia. Pura semplice ed incondizionata felicità per essere finalmente amata.
 
*Citazione da This Is Gonna Hurt, Nikki Sixx.

   
 
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