Storie originali > Fantasy
Ricorda la storia  |       
Autore: Callie_Stephanides    26/06/2011    26 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

P A R T E P R I M A
(GIORNI D’ORO)
1.
In principio era Dendre e Dendre era il Bene

“In principio era Dendre e Dendre era il Bene.”
 
La voce lenta e strascicata di mio padre inaugurava così il nostro rito più dolce e privato.
Mi accompagnava tra le sconosciute valli del sogno con una storia – sempre la stessa. Abbandonati per una clessidra i panni di austero cattedratico, sedeva accanto al mio letto, stringeva le dita attorno alle ginocchia nodose e, dati un paio di colpetti di tosse, si abbandonava alle suggestioni della Genesi.
Mi raccontava di come il soffio della Vita avesse baciato Elithia per farsi carne, popolando di voci un mondo di silenzio e contrasti.
“Era bella, Dendre?”
Mio padre socchiudeva gli occhi e annuiva, filando in un rosario di meraviglie il ritratto della dea, per insegnare alla bambina che ero il valore della bellezza.
“I suoi capelli erano la vena d’oro che nasce dai monti di Lytha. I suoi fianchi, le colline di Eisenthar. Il cielo d’estate dava colore ai suoi occhi e quando rideva, nelle piane di Eleutheria sbocciavano i fiori.”
Strizzavo le palpebre e mi sembrava di vederla, Dendre, solitaria e splendida seminare di sé il mondo di cui ero figlia. Allora – pensavo – il solo universo possibile.
“E nessuno le teneva compagnia?”
Mio padre annuiva grave, recitando la compassione con un’enfasi maldestra, ma era il nostro teatro, quello: il mio affetto di figlia lo scusava.
“Era così sola che si sedette sulla riva del lago Leth e pianse. Le sue lacrime si unirono alla rena sabbiosa e le diedero il senno. Il primo eleutheride nacque dalla tristezza della dea.”
“E poi?”
“Poi Dendre sorrise e il dolore diventò gioia.”
“Il dolore fa male,” obiettavo, con la spietata lucidità dell’infanzia.
“Non la sofferenza che chiamiamo nascita. Quello è un male tutto speciale.”
Arricciavo le labbra, perplessa.
“Un giorno sarai grande e capirai.”
“Perché da grande?”
“Perché sei una donna, Leya.”
Era una risposta anodina, che mi lasciava insoddisfatta e confusa, ma l’imbarazzo rendeva mio padre poco incline a soddisfare pruriginose curiosità: eccolo allora imprimere un nuovo ritmo al racconto, per catturare la mia attenzione sino a rendermi muta.
“Dendre si compiacque del suo primo figlio e decise per questo di regalare alla terra mille lacrime. Poi, prima che le sue ciglia si asciugassero, raccolse l’ultima e ne fece il seme di Lavran, l’albero sacro.”
“E dov’è quest’albero? Non l’ho mai visto!”
“Non esiste più, Leya,” sospirava mio padre, “perché i nostri padri tradirono la dea.”
Sussultavo, fingendomi sorpresa. La verità era che quel racconto aveva ormai messo in me radici più profonde di un albero incantato. Lavran, perno dell’universo: linfa pulsante del cuore di Elithia e fronde tanto dense da coprire il cielo.
“Un giorno gli eleutheridi ebbero a noia il giardino in cui erano nati e vollero valicarne i confini; per questo decisero di abbattere l’albero poderoso che sbarrava loro il passo. Ci vollero mille e mille anni ancora, perché Lavran cadesse. Quando accadde, tuttavia, i nostri padri compresero d’essere stati maledetti.”
“Perché?”
“Perché Lavran era il cuore della dea e la dea era l’anima di Elithia. Privata del suo cuore, la terra marcì: il Nord si coprì di ghiaccio, il suolo si ruppe e dalle sue ferite nacquero i demoni delle falesie. Agonizzante, la dea percosse il suolo, creando la faglia di Icengard, poiché amava ancora abbastanza gli ingrati eleutheridi da volerli proteggere.”
“E poi?”
“Infine raccolse le sue ultime forze per un atto estremo e disperato: si strappò le unghie e le seminò nella terra morta, il sangue le nutrì e nacquero i draghi delle Midlands.”
Nonostante la crudezza delle immagini evocate, era quella la mia parte favorita del racconto, poiché la storia si allontanava dal mito per inerpicarsi lungo un sentiero che percorrevo ogni giorno: il presente di cui ero parte.
“Gli eleutheridi non compresero le vere intenzioni di Dendre. La dea voleva che imparassero il valore del limite, perché una conoscenza senza confini è l’arroganza che perde il senno e il senso. I custodi dell’ultima frontiera erano spaventosi come l’ambizione che dovevano contenere, ma furono cacciati e uccisi. Nella sua infinita saggezza, tuttavia, Dendre l’aveva previsto, e la punizione venne. Quando il sangue del primo eleutheride ucciso si fuse a quello del primo drago caduto, una nuova creatura nacque, intrisa della delusione e della rabbia della dea.”
“E quale?”
Mio padre liberava l’ennesimo colpo di tosse: quella era la sua acme retorica e teneva in modo particolare a terrorizzarmi.
“Un essere maledetto, Leya. Un essere maledetto,” sussurrava, accostando il suo viso al mio, finché la folta barba non mi solleticava le guance. “Un dracomanno.”
Chiudevo gli occhi, quasi rifugiarmi nel buio potesse salvarmi dal terrore che evocava un nome.
I dracomanni – ophelidi, come si appellavano nella loro lingua – occupavano la propaggine occidentale delle Midlands. Là stava il principato di Venusya. Là, tra deserti e gole impenetrabili, si addestrava il più temuto esercito del Primo Evo.
“Immagina, Leya: ha pupille verticali come quelle di un felino e la vista di un rapace; placche cornee gli corrono lungo la schiena, fino a una possente coda da rettile. È forte come dieci eleutheridi e crudele come un drago.”
“E ci odia,” bisbigliavo.
Mio padre mi accarezzava la fronte e sorrideva. “I dracomanni sono i nostri fratelli neri, perché la loro stirpe è nata dall’ingratitudine e dal rancore, come la nostra dalla gioia e dalla tristezza di Dendre.”
“Se siamo fratelli, perché combattiamo?”
Non c’era una risposta a quella domanda, né poteva rispondermi l’infinita sapienza di mio padre.
La leggenda aveva vestito di poesia il prosaico squallore della faida secolare che opponeva i nostri popoli.
Così era stato scritto: una pessima favola senza morale.
“Perché il sangue unisce. Perché il sangue divide, Leya.”
Chiudeva sempre così il racconto: il sangue unisce. Il sangue divide. L’unione del sangue è quanto genera la vita.
Un taglio netto – uno strappo, un dolore viscerale – è quel che separa da te un figlio.
“Ora dormi e che la dea vegli su di te.”
Mi baciava la fronte, soffiava sulla candela e poi si rifugiava nello studiolo che faceva d’anticamera all’alcova.
A sua figlia cantava la tristezza di Dendre, la delusione del demiurgo che ha soffiato insieme la vita e la guerra; nel privato, Leonar di Trier, membro del collegio degli Ygei, l’aristocrazia intellettuale che reggeva Eleutheria, proteggeva la mia innocenza con macchine belliche e mortali veleni.
 
Il sangue unisce, il sangue divide: l’amore di un padre escludeva la pietà per i figli degli altri.

*

“In principio era Dendre e Dendre era il Bene.”
 
 
Mio padre aveva appena inaugurato il racconto, la notte in cui il contrappasso venne e la ruota del Destino deragliò.
Era autunno e i venti del Nord lambivano già le nostre terre.
Stavo per entrare nel mio settimo anno di vita e frequentavo l’Accademia di Trier come spettava ai figli degli Ygei. Poiché femmina, tuttavia, dovevo contentarmi del ruolo di auditrice.
Leonar non aveva più preso moglie, dopo la scomparsa prematura di mia madre, e rinunciato così ad avere un erede maschio; il fatto che si contentasse di me, cementò il nostro sodalizio come non avrebbe potuto il sangue. Si occupava di persona della mia istruzione e ne sorvegliava in modo costante i progressi. “Un giorno diventerai una Ygeia,” mi diceva. “La prima Ygeia del collegio.”
Perché non avrei dovuto?
L’età nutriva una sicurezza sfacciata, l’arroganza di una figlia viziata e protetta: mi addormentavo con la favola triste di Dendre, intrisa d’amore e di morte, senza immaginare che un giorno sarei cresciuta solo per rubarle la parte.
 
 
“Aspetta…”
Mio padre s’interruppe.
“Ho sentito qualcosa,” spiegai. “Qualcuno che bussa.”
 
Capitava di rado che cercassero Leonar nel cuore della notte, ma era un’evenienza con la quale avevo imparato a convivere. Di solito erano le staffette che affiancavano la guardia alla porta di Trier: se una minaccia incombeva sulla capitale di Eleutheria, i membri del Collegio dovevano essere i primi a saperlo.
Mio padre, per la verità, contava i giorni che mancavano allo scadere del mandato decennale, perché l’alchimia gli interessava più della politica e i sogni, più delle beghe degli eserciti.
 
“Vado a vedere, tu resta a letto.”
Una precisazione inutile, giacché era stato proprio lui a crescermi curiosa e incline a fidarmi solo dell’ispirazione del momento: con circospezione, affiancai uno sgabello alla finestra, dischiusi le imposte e tentai di orientarmi nel buio del cortile.
Come gli ultimi barbagli di luce svanivano inghiottiti dalle tenebre, la sentinella intimava il coprifuoco. Dopo la guerra fratricida che aveva coperto di sangue il Primo Evo, gli assalti notturni si erano fatti sempre più rari, ma non abbastanza da scoraggiare la prudenza. Quelli in cui ero nata erano anni di pace armata, e la profondità del buio bastava a ricordarmelo.
Tesi l’orecchio, ma non udii altro che un sommesso bisbigliare. Scontenta, tornai a raggomitolarmi sotto le coperte, fidando nel ritorno di mio padre. Attesi contando le ombre che la candela proiettava sulle pareti della camera. Alla fine, tediata dallo spettrale esercizio, scesi le scale che conducevano al piano inferiore: fu così che scoprii di aver appena guadagnato un fratello.
Fu così, soprattutto, che incontrai il primo dracomanno della mia vita.
 
“Si chiama Rael,” disse mio padre, mostrandomi un ranocchio piagnucoloso dalla ridicola codina squamosa. “E sembra affamato.” Boccheggiai. Avevo la lingua lunga, d’accordo, ma non abbastanza da reagire alla sorpresa.
“Scalderesti un po’ di latte, Leya? Poi ti racconto di Dendre… O, se preferisci, un’altra storia.”
Invece non lo fece, perché Rael era molto di più di un cucciolo di dracomanno: Rael era il grido disperato di un mondo morto.
Mio padre lo sfamò, poi me l’offerse quasi fosse un pegno. “Posso fidarmi di te?”
Voleva che fossi sua complice: fin d’allora, non chiedevo di meglio.
 
Rael aveva un paio d’anni e somigliava alla figlia di Luthien, la nostra cuoca: era piagnucoloso, dipendente e morbido. Il sangue che gli scorreva nelle vene, tuttavia, ne faceva una creatura speciale e riconoscibile, come gli inquietanti occhi gialli, la coda e le placche cornee che gli correvano lungo tutta la schiena. Crescendo sarebbe diventato una bellezza, ma era difficile dirlo allora; per dieci anni almeno lo chiamai ‘ranocchio’, fingendo di crederci: era il mio modo per dirgli che sì, lo accettavo come fratello.
 
Quella notte mio padre non dormì, ma spese le ore che avrebbe altrimenti dedicato al riposo in due attività all’apparenza antitetiche: una sepoltura e un memoriale. Da un lato, occultava i segni di quanto era stato; dall’altro, stilava una cronaca fedele degli ultimi eventi. L’ossimoro, tuttavia, si limitava alla superficie, perché la sostanza tradiva una disperata verità: Venusya era caduta.
A distruggere il principato degli uomini-drago, un mostro vomitato dal freddo dell’Icengard.
 
Dracomanni ed eleutheridi si erano fatti la guerra per tanti anni che, quando giunse la nuova, le certezze della mia gente s’incrinarono. L’ho detto: quella in cui ero nata era una pace armata, fondata sulla reciproca consapevolezza di una convivenza necessaria. Ora scoprivamo che gli uomini-drago non erano quanto di più pericoloso esistesse al mondo.
Il padre di Rael, Freil, era uno dei capitani degli ophelidi.
Quando Koiros il Grande – il Magnifico, il Terribile – distrusse con il suo esercito Venusya, combatté fino a vomitare sangue. Era un condottiero fiero, spietato e temibile: la sua fama era nota agli Ygei, perché a lui si doveva la caduta dell’avamposto più settentrionale di Eleutheria. Eppure, nel crepuscolo della vita, cercò la pietà di un nemico.
Il sangue unisce. Il sangue divide: ricordava che eravamo fratelli.
Prima di spirare tra le braccia di mio padre, gli consegnò il suo ultimogenito. Rael era ancora un cucciolo, dunque poteva adattarsi a vivere da eleutheride; a vivere, soprattutto, una vita in cui i colori non fossero solo tre – il bianco immobile dell’Icengard, il rosso del sangue, il nero bituminoso della morte.
“Cosa ne è stato del tuo popolo?” domandò Leonar. “Chi non è morto, vorrebbe che fosse accaduto,” bisbigliò Freil. “Eppure un giorno, io lo so… Qualcuno divorerà il cuore dell’ultimo drago e vendicherà la mia gente.”
La morte lo colse con quella tetra profezia tra le labbra, quasi offrirgli una visione che non sapesse di disfatta, ma di futuro, fosse un modo per alleviargli l’agonia.

*

“Esiste davvero quel drago?” chiesi una volta a mio padre, mentre studiavo al suo fianco l’ottica delle lenti ustorie.
“È esistita davvero Dendre? Ci sono cose in cui devi credere, perché a sostenere l’opposto non ricavi nulla.”
“Anche a sperare nel niente, però,” replicai piccata.
Leonar rise, poi mi fece cenno di guardare oltre le imposte dello studio. Nel cortile interno, mio fratello Rael tirava di spada contro un fantoccio che io stessa avevo costruito. Aveva ormai quindici anni e nulla più d’infantile. I suoi lunghi capelli neri sferzavano l’aria mentre, con accanimento e una costanza che non mostrava per null’altro, provava affondi e respingeva quelli che, sollecitato dalla pressione, gli restituiva il bersaglio.
“E se Rael fosse stato salvato per riportare la pace su Elithia?”
Sollevai ironica un sopracciglio. “Troppo scontato, persino per una storia delle tue.”
Leonar, che mi conosceva, non se la prese. Piuttosto, lisciando la barba incanutita, mormorò: “Il giorno in cui i demoni dell’Icengard scenderanno sino a noi, senz’altro avremo un drago a difenderci.”
 
Invece un drago venne, e dalla parte sbagliata: si chiamava Vinus e guidava l’armata dei liocorni neri, il braccio armato di Koiros. Come mio fratello Rael, era uno degli ultimi dracomanni rimasti.

*

“In principio era Dendre e Dendre era il Bene”: tale era la formula con cui, bambina, mi preparavo al sonno.
 
“Dei suoi primi dieci anni di vita non ricordava niente. Un mattino si era svegliato con la neve alle ginocchia e le palpebre incollate dal gelo; in lontananza, il mugghio dell’esercito pronto a marciare”: così comincia invece la storia di Vinus, il Drago Nero.
È questa la storia che voglio raccontare.

   
 
Leggi le 26 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Callie_Stephanides