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Autore: ikumi    27/06/2011    1 recensioni
Tutti sanno - o almeno tutti così dicono - che quando si diventa adulti si smette di sognare. Non si punta più alle proprie mete con la stessa tenacia... inconscienza, ingenuità, imprudenza o come la volete chiamare, di un bambino.
Tutti sanno - e questo sì che lo dicono proprio tutti - che, ogni tanto, è bene imparare dai bambini, perché si dimostrano spesso molto più saggi degli adulti.
Forse erano solo i sogni di un bambino; forse la persona di cui parlava andava bene come eroe protagonista in uno dei suoi romanzi. Forse il compagno aveva semplicemente ragione, alla fin fine: lui non era cresciuto come credeva e quello era solo il bambino dentro di sé, che era stato scosso dall'inumanità delle continue battaglie che era costretto a vivere, dalla morte che era costretto a portare con quelle stesse mani che aveva sotto gli occhi, con le stesse tecniche che si era impegnato a padroneggiare nel corso della sua vita, e che non poteva, non riusciva, ad accettare con la freddezza di Orochimaru. Forse era solo un momento di crisi e presto l'adulto che era diventato sarebbe riapparso, in pace con sé stesso.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jiraya, Naruto Uzumaki, Orochimaru
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto prima serie
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Note dell'autrice: avevo già pubblicato questa storia tempo fa, ma causa insoddisfazione l'avevo cancellata quasi subito. Siccome mi faceva un po' tristezza qui nel pc, buttata nell'angolino, l'ho ripresa e ho effettuato qualche piccola modifica. Non è cambiato quasi niente e ovviamente la soddisfazione ancora non c'è, ma comunque sia dispiace ripudiare così una propria opera e quindi eccola qui. Spero sia una piacevole lettura.




Il bambino

«Era destino, prima o poi sarebbe successo. Non continuare a tormentarti. Dimenticalo. […] Gli scemi hanno vita difficile in questo mondo.»
«Ho capito. Se essere intelligenti significa questo, mi sta bene restare scemo a vita.»
(Jiraiya e Naruto – cap. 237: “Scemo!”)


Un lungo e dimesso sospiro accompagnò il medesimo gesto che ormai da ore consisteva unicamente nel portarsi una piccola e azzurrina tazzina di porcellana alla bocca.
Per quella sera poteva reputarsi pieno, a dir la verità, ma non aveva la minima voglia, e a conti fatti nemmeno l'audacia, di affidare alle sue tremanti ginocchia l'arduo compito di trascinarlo sano e salvo fino a casa. Sarebbe in effetti stato pressoché impossibile, e come a darsi dell'idiota la sua voce cantilenante aveva richiamato, ancora una fottuta volta, la formosa cameriera dalla pelle bronzea.
«Me ne dia un altro po', per favore...» biascicò allungando pesantemente il braccio nerboruto, fasciato come sempre dal suo insostituibile kimono. «Ma no, no... che fa» si lamentò subito dopo, sfilando con perfetta disinvoltura l'agognata bottiglia di sakè dalle mani della fanciulla: «Fino all'orlo... ecco, così!» esclamò, pienamente soddisfatto nell'esibire la sua opera e,  mentre innalzava quel calice divino, prese una pericolosa onda all'indietro che lo costrinse a riaggrapparsi giusto in tempo al bancone in legno appena lucidato.
S'accasciò sul ripiano, i gomiti ben appoggiati, la schiena completamente curva e il capo penzolante. Stette per qualche istante immobile, calamitato improvvisamente dal suo volto riflesso il quel caldo liquido chiaro, dal gusto raffinato, carezzevole, ma al contempo aggressivo e secco a contatto col palato: aveva le palpebre calate, quasi del tutto chiuse, che gli davano un'aria decisamente assonnata. Portava un'espressione di disappunto, mista al violento rossore che gli imporporava le vecchie guance. Tutto ciò, apprese, a colpo d'occhio gli donava quello strano aspetto di un inutile pensionato, che altro non aveva da fare oltre a passare le sue ore libere a prendersi il fegato a martellate. In completa solitudine, oltretutto.
A quel pensiero le sopracciglia dell'uomo si curvarono verso il basso, contrariate, e il labbro inferiore prese a sporgere leggermente, come offeso; doveva ammettere che quel look non era affatto adatto alla sua posizione di esperto seduttore del gentil sesso: conciato a quel modo nemmeno una scrofa in calore avrebbe accolto le sue fervide avance.
Prese a muovere il polso in senso circolare e, seguendo il movimento rotatorio del contenuto della tazzina, fece cadere più gocce di vino sul bancone che sosteneva il suo peso morto; e fu in quel momento che si accorse che la bella cameriera non si era mossa di un sol millimetro.
 Assottigliò sospettosamente gli occhi e prese a sua volta a squadrarla, oltre la vista appannata dalla sbronza: non lo osservava con sguardo ammaliato, quindi non era stata rapita dal suo inestimabile fascino; gli zigomi non presentavano tracce di lacrimucce appena asciugate e il trucco si sposava alla perfezione con la sua pelle liscia e levigata, pertanto non era una donna sola dal cuore infranto desiderosa di coccole consolatorie; infine era un viso del tutto nuovo, non poteva avercela con lui per nessuna ragione.
L'Eremita dei Rospi pose saldamente i palmi sul legno antiquato e le sue sopracciglia si corrugarono questa volta tanto da arrivare a congiungersi, mentre si protendeva in avanti per avvicinarsi al viso ovale.
«Si sente bene, signorina...?» borbottò, nel tentativo di ottenere una tonalità affabile e quantomeno sobria, casomai quella parola avesse ancora la grazia di affiancarglisi, una volta tanto. Ma, con grande stupore dell'uomo, la ragazza difronte non aveva fatto una piega: non una vibrazione nell'espressione atona, un battito di ciglia, un segnale appena percettibile nelle iridi nocciola.
Niente. Tabula rasa.
L'immobilità fatta persona.
Beh, sicuramente doveva aver passato una gran brutta giornata. Tornando ad accomodarsi alla meglio sull'alto sgabello, stava per riportarsi l'alcolico alle labbra, scettico, se non avesse inevitabilmente incrociato la mano che, a mezz'aria, reggeva un panno umido, evidentemente utile per andare a pulire il disastro che aveva appena combinato sul bancone.
Jiraiya chiuse gli occhi, strizzò le palpebre, ma riaprendole la situazione rimaneva la stessa. Quando mai aveva ignorato quel leggero barlume di raziocinio che poco prima gli aveva intimato di togliere le tende, perché ora la domanda sorgeva spontanea: era il sakè che lo stava lentamente portando alla pazzia oppure era proprio una questione di vecchiaia?
E poi vide quell'uomo, appena nascosto dalla parete che separava il locale dalle cucine, che con evidente fatica reggeva una cassa di bibite, anch'esso completamente paralizzato.
Facendo bruscamente cadere lo sgabello che occupava, si alzò. Reggendosi con una mano, appurò che l'ambiente che lo circondava era fatto di null'altro che staticità.
Tutto era fermo, tutto si era bloccato.
Tutto tranne lui.
 «Ehi, ma che diavolo...» sbottò tra sé e sé con occhi stupefatti. Senza distogliere lo sguardo dal circondario, allungò la mano sopra il bancone e la mosse piano fino a che trovò la tazzina di sakè rimasta piena. Se la portò meccanicamente alla bocca e, buttando la testa all'indietro, tracannò il contenuto tutto d'un fiato.
Uscì a passi pesanti dal locale, irritato, e, come immaginava, vi trovò la medesima situazione: non un abitante del villaggio che si muovesse. Si fermò al centro della strada, circospetto, tra un passante e l'altro; estese i sensi, si concentrò alla ricerca dell'incantatore, scrutò minuziosamente gli angoli bui che si affacciavano per le piccole vie, i tetti.
«Se questo è uno scherzo...» bisbigliò, estremamente turbato dall'appurare che non rilevava in quel fatto la presenza di un genjustu.
Sarà pure stato ubriaco, ma era pur sempre uno shinobi di alto livello, e quella non era arte illusoria. Quello era un fatto inspiegabile. Quello... non sapeva cosa fosse.
Cercando di non farsi prendere dal panico, e riacquistando la lucidità necessaria, inizio a girare su sé stesso, spostando il peso da una gamba all'altra, non sapendo minimamente cosa fare né pensare.
«Che cosa succede! Che cos'è!?»
E improvvisamente tutto prese ad offuscarsi, a contorcersi, con una rapidità sempre maggiore, a vorticargli intorno, a tremare fino a quasi fargli perdere l'equilibrio, a rabbugliarsi fino a farlo cadere nell'oblio dell'oscurità più spaventosa che avesse mai visto.


Quando riaprì gli occhi si ritrovò ancora lì: in piedi, al centro della strada, con uno sguardo perso e confuso ben designato sul volto. Si passò la manica dell'abito sulla fronte aggrottata e imperlata di sudore, alzando leggermente il coprifronte personalizzato, tirando a lungo un lento sospiro di sollievo. A quanto pareva aveva avuto ragione: quella sera aveva decisamente esagerato con gli alcolici. Ora che tutto aveva ripreso a muoversi decise saggiamente di non chiedersi nient'altro che un letto, quindi prese ad arrancare stancamente verso casa.
Ma poi, ancora, Jiraiya si arrestò. Con flemma gli occhi si allargarono fino a che poterono, le sopracciglia si alzarono, la bocca si spalancò.
Quello era un fatto inspiegabile.
Non era impazzito, eppure non si trovava affatto dov'era prima.
O meglio, stava dov'era prima, solo che quello non era quello che era prima.
Il ninja leggendario si portò una mano sull'anca e si protese stancamente in avanti; con fiato corto studiò attentamente ogni persona che passava, ogni insegna, ogni piccolo e infimo particolare. La luna quasi piena e il cielo illuminato erano gli stessi, la stagione appena primaverile anche. Passando al lato destro della via si appuntò mentalmente che, invece, il negozio di alimentari era una lavanderia, la sala giochi non aveva cambiato gestione, e il gruppo di bambini che appena un attimo prima stava sul bordo del marciapiede, impegnato in una partita a biglie, era sparito, esattamente come erano diversi gli abitanti che affollavano in quel momento la strada.
Sul lato sinistro, accanto al suo bar di fiducia, non c'era l'albero di ciliegio in fiore. Sulla montagna degli Hokage oltre ai tetti, i lavori per la creazione del volto di Tsunade non erano iniziati; il volto di pietra del caro maestro Sarutobi non presentava la crepa obliqua che recentemente era andata a percorrergli il setto nasale. E, ancora più sorprendentemente, non c'era traccia del quarto Hokage. Notò inoltre che l'abbigliamento dei cittadini era decisamente passato di moda ormai da tempo.
Gli occhi si iniettarono di un terrificante e viscido stupore, poiché si rese conto che quel tempo l'aveva già vissuto. E anche parecchi anni addietro.
No, tutto ciò era impossibile e dannatamente inspiegabile. Se prendeva quell'imbecille che gli aveva fatto quell'assurdo scherzo si promise di esser tutt'altro che magnanimo. Gliele avrebbe date di santa ragione, oh, se gliele avrebbe date.
«Scusi... per favore buonuomo, può dirmi in che anno siamo?» si trovò a chiedere, contraddicendo i pensieri appena avuti in neanche mezzo secondo. «Ehi! Mi ha sentito?» urlò, scrutando astioso le spalle dell'individuo che aveva appena interpellato allontanarsi come se nulla fosse.
Non era affatto divertente.
Ma certo! Questo giochetto era tutta una commedia inscenata da quella vipera di Tsunade. Doveva avergli tirato un trabocchetto utilizzando uno dei suoi miscugli fatali. Era sicuramente immerso in una fastidiosissima allucinazione dovuta da una droga davvero, davvero... forte.
«Un'altra bottiglia per favore!»
«Ragazzo, credo che tu stia esagerando...»
«Non faccia tante storie! Io non sono forte solo in battaglia!»
Sì, quella volta Tsunade aveva davvero superato sé stessa: quella droga era micidiale.
Flemmaticamente mise un piede in avanti, ancora più lentamente l'altro; si strofinò vigorosamente un palmo sugli occhi, li riaprì, li richiuse, un altro passo. E poi un altro e un altro ancora, fino ad avanzare frettolosamente verso l'entrata del bar, superare la soglia e strabuzzare le pupille scure.
«Come vuoi, io però non voglio avere responsabilità... Jiraiya.»
«Tranquillo capo, tornerò a casa con le mie gambe, come faccio sempre.»
Il giovane uomo dalla capigliatura cespugliosa stava appoggiato al bancone del bar e, con gote rosse e sguardo vacillante, trangugiava avidamente del prelibato sakè.
«Buono, eh? Fresco di giornata, mio caro ragazzo!»
«Non mi delude mai, ecco perché la preferisco fra tutti, brutto vecchiaccio puzzolente...»
Nonostante gli angoli della bocca fossero incurvati verso l'alto, portava un'espressione amara negli occhi, la fronte era nascosta dall'appariscente simbolo del villaggio di Konoha. Teneva il capo chino: solo ogni tanto, quando l'uomo dietro al bancone gli si avvicinava, alzava gli occhi e scambiava qualche frivola chiacchiera, sorridendo falsamente.
«Non sai quanto m'è costata, questa squisitezza.»
«Mi interessa sapere quando costerà a me, più che altro...»
«Nah, goditelo!»
Solo lui stesso poteva sapere cosa girava per la testa a quel giovane e promettente jonin, appena rientrato da intese giornate rivolte unicamente al più atroce compito che un uomo dovesse mai assolvere: l'assassinio. Erano tempi lontani, ma di cui la sua mente rammentava ancora con estrema accuratezza ogni barbaro massacro. Il giovane Jiraiya che aveva dinanzi era un'anima scalfita dall'inesorabilità della vita di uno shinobi. E quello, ricordava bene, non era altro che il prologo antecedente al, probabilmente, periodo più brutto della sua vita: quello in cui si sarebbe ritrovato perdutamente solo.
«Jiraiya?»
«Oh, ma chi abbiamo qui! Quale onore!»
«Non urlare...»
Si vide illuminarsi improvvisamente, alzare una mano, poggiarla amichevolmente sulla spalla del nuovo arrivato. Le sue labbra si erano stirate in un sincero sorriso, ora, e i suoi occhi lasciavano trasparire una nota di sicurezza, ma anche di leggero timore.
«Avanti, siediti qua.»
«No, sto andando a casa.»
«Avanti, ho detto! Non farti pregare!»
«Jiraiya, il giorno in cui mi ubriacherò insieme a te segnerà la data dei nostri funerali.»
«Scusa ma se non volevi bere né, ovviamente, farmi compagnia, perché sei entrato in questa topaia?» Cantilenò, guadagnandosi un'occhiataccia dal vecchio proprietario del bar.
«Smettila di urlare.»
«E allora siediti qua!»
Il coetaneo sbuffò e trattenendo un impercettibile sorriso ironico, finalmente accettò.
«Ci siamo. Bevi.»
Ordinò entusiasta il giovane Jiraiya sbattendo sotto il naso del compare una tazza di sakè accuratamente riempita fino all'orlo. Prese poi la sua, ripetendo il medesimo rito, e l'alzò in sua direzione invocando un brindisi.
Il moro lo fulminò con lo sguardo, ma alla fine cedette, oppresso dalle interminabili e seccanti insistenze. Diede una sorsata al forte alcolico, mentre, con la coda dell'occhio, gettò un'occhiata al compare già intento a versarsene dell'altro. Stettero così, in silenzio, per svariati minuti, ognuno che fissava svogliatamente le proprie mani; senza proferir parola alcuna, senza scambiarsi una sola occhiata. Ricordava come anche solo la presenza taciturna di quell'eterno amico lo allietava.
Poi, come accadeva ogni volta, fu il giovane dalla chioma albina che parlò per primo, la voce leggermente più roca. «Hai più visto Tsunade?»
«No» rispose l'altro, atono.
Jiraiya incassò la testa  nelle spalle. Portò una mano dietro la nuca e slegò il nodo del tessuto blu, ben stretto in precedenza. Si sfilò il coprifronte lasciando che i ciuffi bianchi cadessero in avanti.
«Jiraiya» la cupa voce del compare lo distrasse, mentre osservava tristemente l'oggetto prezioso «Il nostro mondo è fatto anche di questo» gli ricordò, piatto.
«Lo so» si difese subito, secco, quasi non volesse ascoltare «Lo so, Orochimaru» ripeté, ora debolmente.
«Non sei cresciuto, alla fine, avevo ragione io. Non crescerai mai.»
«Accettare il fatto di dover uccidere e di veder continuamente morire le persone intorno a te significa essere maturo?» sbottò, arrabbiato, arrabbiato con tutto e soprattutto con sé stesso. «Non starò mai a guardare che tutto accada. Dev'esserci un'alternativa!»
In fondo lui non era solo un abilissimo ninja, era anche un maestro, e quelle parole appena udite le rivolgeva ogni giorno ai suoi allievi. E le ripeteva continuamente, dentro di sé, sempre più forte e all'infinito, promettendosi che quelle parole sarebbe valse, un giorno o l'altro, e che non avrebbe mai accettato la realtà senza tentare di contrastarne gli eventi.
Forse erano solo i sogni di un bambino; forse la persona di cui parlava andava bene come eroe protagonista in uno dei suoi romanzi. Forse il compagno aveva semplicemente ragione, alla fin fine: lui non era cresciuto come credeva e quello era solo il bambino dentro di sé, che era stato scosso dall'inumanità delle continue battaglie che era costretto a vivere, dalla morte che era costretto a portare con quelle stesse mani che aveva sotto gli occhi, con le stesse tecniche che si era impegnato a padroneggiare nel corso della sua vita, e che non poteva, non riusciva, ad accettare con la freddezza di Orochimaru. Forse era solo un momento di crisi e presto l'adulto che era diventato sarebbe riapparso, in pace con sé stesso.
Era un ninja ormai da tempo, sin da ragazzino missioni pericolose lo obbligarono a commettere atti che avrebbe volentieri evitato e che trovava ingiusti; ma sapeva, come gli avevano insegnato, che quello era il loro mestiere e lui, in un modo o nell'altro, l'aveva accettato e così era andato avanti: aveva sviluppato una sua integrità, delle ambizioni e teneva ben stretto al petto ciò in cui credeva. Oggi era uno shinobi stimato e un ottimo maestro.
Questa dannata guerra però, lo stava portando allo sfinimento. Quasi ogni giorno una persona amica tornava indietro senz'anima oppure non tornava affatto.
«Sei solo dispiaciuto per lei. E sei patetico» sibilò velenoso quello, svuotando la tazzina, senza posare nemmeno per una volta le iridi dorate sulla persona che l'ascoltava.
Jiraiya s'allungò verso l'amico fornendolo di altro vino, sbuffando.
«E' già una settimana che non la si vede in giro» riprese, nella sua logorante tortura.
«Le passerà» l'ammonì con finta pazienza il moro, dopo qualche secondo.
«Passare, dici?»
«Sì, passare. E' naturale, Jiraiya.»
E come può passare... lei li amava così tanto, gli sussurrò un pensiero dentro, profondamente mortificato. Avrebbe voluto esserci. Forse sarebbe riuscito a far qualcosa: lei lo aveva rifiutato un'infinità di volte, ma lui l'amava, l'amava immensamente, se ne era reso conto ormai da tempo, forse l'aveva amata sin dalla prima volta che i suoi occhi aveva incontrato quel viso risoluto ed incredibilmente sfacciato, e avrebbe fatto di tutto per non vederla soffrire. Sarebbe persino morto al posto di colui a cui Tsunade aveva donato il suo cuore.
I due vennero ancora avvolti dal silenzio, mentre le ultime persone rimanenti all'interno del bar pian piano si dileguavano per tornare nelle loro dimore; mentre gli stessi occhi mortificati, osservavano commossi quella scena già vissuta, ad insaputa del ragazzo ch'era stato e del suo silenzioso migliore amico.
Il perché la sua mente l'avesse riportato ai tempi della Grande Guerra dei Ninja, non lo sapeva.  Il perché l'avesse riportato a quella serata passata per la prima e ultima volta al bancone di un bar con lui, nemmeno. Ma gli faceva male, quel fatto inspiegabile. Ricordava bene come soffriva in quel periodo, ricordava altrettanto bene come presto avrebbe sofferto ancor di più: Tsunade sarebbe scappata dal suo dolore e poco dopo anche Orochimaru, tradendo prima di tutto lui che sarebbe rimasto solo e avrebbe dovuto rinforzare la sua corazza ancora troppo scalfita dalla crudeltà di quell'assurda guerra.
L'Eremita dei Rospi era ancora lì, in piedi, sulla soglia del bar, incapace di muoversi e di ragionare. Solo quando i giovani ninja che erano trent'anni prima si mossero per uscire dal locale, si mise a seguirli, con passo lento e strascicato. E si trovò ad essere stanco mentre osservava quelle schiene vicine, mentre osservava il suo braccio avvolto intorno alle spalle di un Orochimaru incredibilmente seccato dal doverlo reggere e riaccompagnare a casa perché troppo ubriaco, mentre sentiva la sua voce stonata che cantava sgraziatamente una canzone popolare.
E quando si rese conto di starli inseguendo decise di fermarsi, osservarli allontanarsi sempre più, lasciarsi andare su una panchina, stringere i pugni e a capo chino piangere e singhiozzare come il bambino cresciuto dentro di lui da tempo non faceva.


«Ohi, mi seeente?!»
Una voce stridula, irritata e spazientita; sembrava arrivare da lontano.
«Eremita Porceeelloooo...»
Pareva chiamare lui, quella voce proverbialmente maleducata, ora più alta e vicina. Qualcuno lo stava strattonando bruscamente e lo intimava a svegliarsi.
Quando aprì gli occhi trovò davanti a sé nient'altro che il legno antiquato del suo bar di fiducia. Alzò leggermente la fronte dal ripiano sentendo immediatamente una fitta nauseante all'altezza delle tempie e la testa dannatamente pesante. Ruotò con flemma il capo, asciugandosi il rivolo di saliva che pendeva dalla bocca, e vide un ragazzino dall'appariscente zazzera bionda fare degli strani gesti con le mani: aveva ridotto gli occhi a due piccole fessure e faceva perno sulle ginocchia alzandosi e abbassandosi, dedicandogli una serie di smorfie pittoresche e... nauseanti.
«Eremita Porceeeloooo...» cantilenò ancora.
«Naruto... per l'amor del cielo, chiudi quella bocca...» borbottò disgustato alla completa panoramica del palato dell'allievo.
«Era ora che si svegliasse! Non l'hanno sbattuta fuori solo perché sanno chi è, Maestro!» prese a rimproverarlo facendogli notare che aveva passato l'intera nottata su quello scomodo sgabello.
Jiraiya finalmente si alzò del tutto dal ripiano su cui era stravaccato. Guardandosi intorno confuso si massaggiò il collo dolente e infine rivolse nuovamente il suo sguardo scettico a Naruto.
«Si sente bene?» chiese quello con fare sospettoso.
Un sogno. Non era stato altro che un sogno.
«Credo di sì...» proferì con voce impastata, massaggiandosi il collo indolenzito.
Poi sembrò illuminarsi e ricordare ogni cosa. Pian piano i tasselli mancanti si rimisero al proprio posto e il leggendario shinobi si mise in piedi, scattante. Si voltò, sgranchendosi le gambe indolenzite, e si diresse verso l'uscita.
«Ma dove sta andando, ora?» chiese arrabbiata la voce alle sue spalle «Io la vengo a prelevare e lei mi ignora?» urlò Naruto prendendo a inseguirlo, mortalmente offeso.
«Avanti, non c'è tempo da perdere» l'ammonì invece serio l'adulto, che si fermò bruscamente a braccia conserte, mentre il genin finì per schiantarsi contro la sua schiena.
Il ragazzino prese ad imprecare, massaggiandosi il naso, e assunse un'espressione confusa e interrogativa «Che sta dicendo? Ma quando la smetterà di bere? Andare in giro con lei nuocerà alla mia incolumità, l'ho sempre detto!» il biondo iniziò a borbottare a raffica una quantità spropositata di appellativi poco cortesi sulla sua persona.
«Naruto!» lo interruppe allora facendolo trasalire, e voltandosi di scatto davanti a lui «Non hai detto di voler riportare indietro Sasuke anche a costo di lasciarci le penne?» chiese portando le mani sui fianchi, squadrandolo severo dall'alto.
Il suddetto, dopo aver allargato occhi e bocca, si fece duro in volto, rivolgendogli un pugno.
«Certo che l'ho detto! Io lo riporterò a casa, l'ho promesso!» urlò, facendo germogliare la sua classica e contagiosa determinazione negli occhi azzurrini.
«Bene! Allora vai immediatamente a casa e prendi le tue cose. Ho deciso di posticipare di due giorni la partenza. Sarà un durissimo allenamento!» ordinò inflessibile voltando lo sguardo incoraggiante ai raggi solari, che si facevano strada attraverso l'entrata del locale, illuminandogli il viso.
  
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