Rosa Noctium Omnium «La ardiente y ciega rosa que no canto, La Rosa Profunda, Jorge Luis Borges “Mi inviti a ballare?”. Il suono argentino della risata di lei si era dissolto, lasciandosi dietro poco più di uno strascico che riecheggiava nelle sue orecchie e una ferita che gli graffiava l’anima. Al suo posto, le lusinghe di una domanda dal suono familiare e il baluginio evanescente dei suoi occhi. “Non ti avevo visto”. Eloise aveva le labbra socchiuse e ornate di un’ombra impalpabile di sorriso, il fantasma di un trionfo pregustato e non ancora assaporato che lui avrebbe voluto cancellare a forza di baci, strappandole via, un gemito dopo l’altro, la soddisfazione della vittoria effimera che le aveva concesso, mostrandosi vulnerabile. “No, Eloise, non ho la minima intenzione di farlo”. E un sospiro le sortì davvero, dalle labbra, ora strette e sbiancate, prima che lei potesse trattenerlo o controllarlo. Nell’istante che seguì, Eloise ritrovò la propria compostezza, quel tanto che bastava per formulare una replica, dolce ma distante. “Come desiderate”. Si allontanò da lei, odiando ogni parola che non avrebbe mai potuto dirle. “Come desiderate”. Gli anni che aveva passato lontano da lei erano stati anni di nostalgia. Schiavo del suo sogno, Axel Vandemberg aveva vissuto ogni momento libero in attesa spasmodica di lei, del tempo in cui avrebbe lasciato Aldenor per raggiungerlo nella Capitale. Il giorno era giunto quando ormai il suo arrivo era soltanto una condanna, puntualmente eseguita ad ogni loro incontro, ad ogni muta supplica che lei respingeva con eterea, divina indifferenza, da quando lui l’aveva delusa, abbandonandola a se stessa. Allora la nostalgia si era tramutata in un senso di dolore quasi fisico, come se il vuoto della sua assenza facesse più male ora che lei era lì, così vicina, così lontana, ora che il privilegio della sua compagnia era concesso alle matricole, ma non a lui. Non gli era costato alcuno sforzo riconoscerla nel buio di una notte lontana, anche dietro la maschera. Era bastata la linea delle sue spalle, una ciocca di capelli che sfuggiva alla contenzione del cappuccio, un nastro scuro che tagliava in due il bianco di alabastro della fronte. Sarebbe bastata anche solo la sua risata, la stessa che lo aveva fatto consumare di gelosia, poco prima, vedendola tra le braccia del redivivo. L’aveva punita severamente per quella trasgressione, che non aveva molto a che fare con le regole dello Studium, ma piuttosto con l’antica convinzione che lei gli appartenesse. Nonostante ciò che si era frapposto tra loro, nonostante lei lo odiasse, era sua. Era tutto quello a cui era riuscito a pensare mentre la trascinava via, sotto lo sguardo perplesso dei suoi accompagnatori, mentre le impartiva una punizione quasi troppo rigida, mentre, mesi dopo, pretendeva di essere una presenza fissa nella sua vita, fingendo di ignorare il dolore che emergeva dalla cupa trasparenza del suo sguardo, ogni volta che lo incontrava. Se solo avesse potuto fare qualcosa. Le aveva comprato un regalo, il primo di una serie di doni che non sarebbero mai stati consegnati. Un libro di romanze, un omaggio da innamorato cortese. L’errore perfetto, considerato che la cortesia che avrebbe voluto rivolgerle era stata brutalmente cancellata da qualcosa che non era dipeso dalla sua volontà. Non era stato per quello, tuttavia, che lo aveva scelto. Lo aveva trovato sul banco di un libraio, chissà dove, non che importasse più: rammentava però di avervi posato distrattamente gli occhi per rimanere catturato dalla miniatura che ornava l’angolo un poco liso della pagina esposta. Vi aveva posato le dita, sfiorando la ruvida consistenza della carta in una serica carezza che seguiva il tratto del disegno lungo i rami di una rosa rampicante, che convergevano al vertice verso un solo bocciolo, i cui petali, bianchi, orlati di una dolce tonalità di corallo, parevano essere stati immortalati sul punto di schiudersi. Rosa, rosae, bellezza che sboccia al tocco lieve di un amante. Aveva letto il primo verso della romanza in preda ad una sorta di incantesimo latente, forse intrappolato nella fitta rete dei ricordi. Il fiore possedeva la sfumatura tenera di una pelle distante e mai del tutto dimenticata. Se avesse potuto annusarlo, avrebbe avuto il profumo della casa a cui si torna, stanchi, dopo un lungo viaggio, e quello proibito e nascosto di un desiderio inesprimibile, lo stesso che lo teneva sveglio, quando lo immaginava ad impregnare le sue lenzuola. La rosa che popolava i suoi sogni più folli, ogni notte, lo attraeva con i suoi petali e lo respingeva con la fitta barriera di spine con cui si proteggeva dalle ferite che lui le avrebbe potuto procurarle, da sovrapporre a quelle vecchie che lui le aveva già inferto per il suo bene. Rosam in animo insculptam habeo. Ce l’aveva davvero scolpita nell’animo, nel marmo durevole della memoria. Se anche non avesse più potuto vederla, avrebbe conservato l’immagine di lei, mutevole ritratto, statua vivente che si mostrava in tutti gli aspetti con cui lui l’aveva conosciuta: neonata, avvolta in una copertina, bimba, tra coltri spesse di sogni, con le piccole braccia strette attorno al suo collo, adolescente, quando il suo abbraccio non era più soltanto affetto o consolazione, ma l’espressione di un sentimento meno innocente, cresciuto negli anni fino ad assumere le sembianze uniche e inconfondibili dell’amore. E quell’amore si era richiuso dentro il petto, nel rivederla giovane donna, quasi più bella di quanto la ricordasse, per non lasciare che lei lo calpestasse, riducendolo a brandelli nella sua rabbia cieca, e lì era rimasto, per tutti quegli anni, come un fiore racchiuso tra le pagine di un libro. Rosa rosae quae in pectore lucet et ardet. La rosa nel suo cuore, che ardeva, senza dargli pace. Era uscito dalla libreria covando il senso cupo di trionfo che può venire soltanto da un dolore autoinflitto e aveva scoperto che quella spina piantata dentro - una delle spine della rosa che lo teneva avvinto a sé, il ricordo di lei, che non poteva essere cancellato - era più sopportabile del dolore di averla perduta. Perché forse, con quel dono che un giorno, magari, avrebbe recapitato, avrebbe alleviato quello di lei. Ogni anno, un regalo diverso, un messaggio nascosto. La catena a cui appendere il simbolo della Fraternitas per dirle quanto lui avesse desiderato che lei non fosse sola. Il blasone della Societas di Medicina, perché lei sapesse che aveva seguito i suoi progressi, un passo via l’altro, raggiungendo l’obiettivo che si era prefissata. La sciarpa di trine, per dirle che anche lui sapeva che oramai era una donna, una studentessa anziana e non più una matricola. Un omaggio alla sua bellezza fiorente, un preludio di ciò che avrebbe voluto donarle un giorno, se - quando - lei fosse stata sua, infine, agli occhi di tutti. Eloise non aveva bisogno di adornarsi, per apparire bella ai suoi occhi. Lui l’avrebbe amata anche vestita di stracci, l’avrebbe venerata anche abbigliata soltanto del proprio candore. Rosa di rosa, rosa bianca come il suo nome recitava, che lui avrebbe voluto rendere rossa, ricoprendola di baci. Axel sedette al tavolo della taverna, sospirando sommessamente. ❈ Nel suo sogno, una delle mille e più visioni che agitavano il suo riposo notturno, lei era nuda, in una nube di petali scarlatti che le vorticava attorno. Alcuni le si erano posati sul pube, velando di mistero la giuntura delle sue cosce. Altri, appena una manciata o poco più, erano sparpagliati sul petto, a donarle una carezza che avrebbe dovuto essere sua e sua soltanto. Eloise sorrideva e quello era l’ultimo velo che aveva addosso, un sorriso enigmatico che avrebbe potuto essere quello di un quadro rinascimentale su cui interrogarsi a lungo senza avere risposte. La fanciulla sul letto di rose lo chiamava, mormorando parole sommesse a fior di labbra, invitante come la più bella tra le redivive non avrebbe mai potuto essere, non per lui. Spiccava, diafana tra i petali purpurei, mentre ricacciava all’indietro la chioma scura e allungava un braccio, per attrarlo a sé e farsi cogliere, rosa tra le rose, la rosa irraggiungibile. Quando si era staccato da lei, il velo del sorriso era caduto e l’espressione del volto era più confusa, naturale, vera, gli occhi socchiusi e offuscati da quello che avrebbe potuto essere dolore, ma che forse era piacere, desiderio. Si era ritrovato le braccia candide della fanciulla attorno al collo e il seno di lei sfacciatamente premuto contro il torace, lì dove risuonava forte il battito del suo cuore. Il bacio che era seguito era stato lento ma passionale: si era attardato, quasi mollemente, a disegnarle il contorno delle labbra con la lingua fino a sentirla sciogliersi e schiudere la bocca, per permettergli di prenderne possesso. Allora si era concesso di assaporarla più in profondità, accompagnando ai movimenti della bocca le carezze delle mani, fattesi audaci nel percorrerle la schiena e i glutei in punta di dita, nel cercarle il seno e stringerlo, per strapparle un gemito di compiacimento. Uno dopo l’altro, aveva rimosso ogni petalo che la ricopriva, come sfogliando quelli di una margherita, alla ricerca di una risposta che avrebbe potuto essere considerata ovvia. Se lei l’amasse o no, fu chiaro immediatamente dopo, quando i loro occhi si incontrarono di nuovo. Eloise sorrideva ancora, ma stavolta il sorriso era pura gioia che le illuminava gli occhi, e lei era così bella da sembrare vera, con i petali scarlatti che vorticavano tutto attorno a loro, mentre lui si apprestava a farla sua, in quel gioco di rosso e di bianco di cui loro erano soltanto una parte. Eppure, lei per lui era tutto. “Dormi?”. Axel sollevò il capo, mentre la sua visione si dissolveva lasciandosi dietro un pulsare doloroso all’inguine e il senso di incompletezza che sempre gli dava la mancanza di lei. “Sogno”. Il sopracciglio di Gil Morgan scattò, impudente, verso l’alto. “E quale sarebbe la differenza, principe Vandemberg?”. Gil si lasciò sfuggire una risatina e batté con la nocca sul legno rugoso del tavolo della Taverna. “Secondo me, hai solo bevuto troppo”. Axel scrollò le spalle, infastidito e si alzò in piedi. Non era l’ebbrezza del liquore ad intossicargli la vita, ma una molto più impalpabile. L’effluvio di un elisir d’amore, magari, qualcosa che gli si insinuava nel cervello, costringendolo a focalizzarsi su un pensiero fisso. Nessun intruglio di fattucchiera poteva essere così vincolante; Eloise lo aveva stregato molti anni prima, con l’arma più potente che una donna potesse avere: se stessa. “E ora dove te ne vai?”. Axel si voltò a guardare l’amico, che lo scrutava, preoccupato. “A rimediare ai miei errori”. ❈ I contorni della figura di Eloise, tracciati dalla luce pallida della luna, erano quanto di più affascinante lui potesse immaginare. Sedeva sulla panca di pietra e gli dava le spalle. Se aveva avuto sentore del suo arrivo, non lo aveva dato a vedere. Sussultò leggermente quando lui si chinò a posare la rosa a poca distanza da lei, ma non si voltò e lui gliene fu grato: guardarla in viso, in quel momento, sarebbe stato troppo. Si sforzò di tenere gli occhi sul bocciolo anche quando la vide fremere leggermente con la coda dell’occhio, arroccata, chiusa in sé per non dover soffrire più di quanto non fosse necessario. Un bocciolo inarrivabile, nel folto dei rovi, che lui avrebbe dovuto aggirare, per evitare di dilaniarsi, dentro e fuori, nel tentativo di ottenere ciò che desiderava. “Sembra che io, con voi, sappia soltanto sbagliare, signora”. Poteva valere la pena farsi un po’ male, per amore di lei. Un piccolo dolore conficcato dentro per uno che se ne andava. Non c’è rosa senza spine. “Così, eccovi le mie scuse”. Si permise finalmente di osservarla, accarezzando con gli occhi un tratto di pelle dal nitore quasi abbagliante e si perse di nuovo a desiderare di arrossarle l’incarnato di baci e donarle una nuova bellezza, quella che poteva giungerle soltanto da una passione sbocciata e non più soltanto agognata. Rosa di rosa, nelle sue notti, non più soltanto in sogno. “Avrebbe dovuto essere rossa” disse, mentre le parole che lottavano per uscire gli si addensavano in gola rendendogli la voce spessa e incerta. “Perché i miei sentimenti per voi non hanno sempre la purezza che si addice al bianco”. Le parole successive si dispersero nella brezza notturna, mentre lui chiudeva delicatamente la mano sulla sua e l’attirava a sé, perdendosi nella vertigine del suo odore che gli si insinuava su per le narici. Profumo di casa, di polvere di riso e olio di mandorle. D’amore. «A rose by another name William Shakespeare, Romeo and Juliet |
Storia vincitrice del contest Rosa Rosae. Valutazione della giuria. Stat Rosa Pristina Nomine, Nomina Nuda Tenemus. |