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Autore: L_Fy    12/07/2011    3 recensioni
....Per me, le vacanze estive erano semplicemente Cresta del Gallo, con le sue terrazze ripide, con l’odore di bosco che filtrava dalle finestre la mattina, con il blu del lago a salutare in lontananza… e perché no, con la torretta di Villa Lazzari che svettava vicina, complice della mia solitudine poiché solo io potevo vederla e condividerne la solitaria bellezza.
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nihil nub sole novi

                                                                                                        (proverbio)

“Arrivatiiiii!”
Sabrina appena smontata dall’automobile iniziò una specie di danza propiziatoria alla fine della quale si inginocchiò a baciare il terreno con devozione mistica.
“Ma tu guarda che deficiente.” commentò Rossella alzando altezzosa il naso per aria.
Normalmente avrei detto qualcosa o per punzecchiare Rossella o per demolire Sabrina, ma effettivamente ero troppo emozionata per parlare. L’urlo di battaglia di Sabrina aveva espresso chiaramente quello che tutti noi della premiata famiglia Mercati sentivamo in quel momento: sollievo. Eravamo finalmente arrivati a destinazione e l’euforia regnava sovrana, splendendo sulla pelata lucente di papà come sugli orecchini aztechi di mamma passando per gli inseparabili occhiali da sole di D&G di Rossella.
Mentre Sabrina ancora danzava, papà si sgranchì la schiena respirando a pieni polmoni, lo sguardo già perso nel mare di verde circostante. Il suo viso si coprì di rughette disperate mentre controllava il preoccupante livello di erbacce del giardino.
“A quanto pare le piogge invernali hanno coronato i tuoi sogni botanici” sogghignò mamma ilare “Avrai da estirpare e zappare per tutta l’estate!”
“Che meraviglia.” gorgogliò papà sull’orlo del suicidio.
Io sorrisi, girando il viso verso il sole e chiudendo gli occhi: mentre intorno a me le mie sorelle iniziavano l’ennesima rumorosa diatriba, con la voce di papà che faceva da contrabbasso e quella della mamma che buttava lì di tanto in tanto qualche acido commento zen, mi sorpresi ad assaporare la sensazione di liquida nostalgia che mi aveva invaso il petto. Era così ogni anno: dopo un lungo e faticoso inverno a Milano, arrabattandoci tra scuola (per tutti: mamma e papà erano professori di liceo), corsi di inglese (per me), di danza (per Rossella) e di karate (per Sabrina) avevamo finalmente schiodato le tende da quella soffocante città per rifugiarci qui, nel nostro nido vacanziero, pronti a rigenerarci per due lunghissimi mesi.
Strano come persone tanto diverse come noi si trovassero tutte d’accordo sul quel semplice fatto: le vacanze non si discutevano mai. Tutti amavamo la nostra stamberga barcollante di Cresta del Gallo con viscerale, feroce possessività. Né le smanie umanistiche di mamma né le tendenze snobistiche di Rossella né la conclamata deficienza di Sabrina ci potevano tenere lontani da questo angolino di paradiso nascosto nel verde del parco dell’Alto Garda Bresciano, sulle rive del lago di Garda sopra le piccole frazioni di Ustecchio e Voltino.
“Allora, vi muovete con quelle valigie?” strillò mamma con le mani piazzate sui fianchi modello negriero “Nonna Rosa per quest’anno non ha affittato il facchino.”
“E chi te lo ha detto, figlia degenere?” chiocciò nonna Rosa uscendo zoppicando dalla soglia di casa.
“Nonna!” gridammo in coro io e le mie sorelle: le saltammo addosso con entusiasmo, rischiando di finire distese per terra e di rompere l’osso sacrale alla povera nonna che per la vecchiaia aveva ormai la consistenza di un uccellino. Lei ricambiò emozionata le nostre effusioni, carezzandoci in testa e baciandoci tutte, una per una.
“Come siete diventate grandi” esclamò con voce tremante “Rossella, sembri uscita da una rivista di moda!”
“Oh, dai nonna, non esagerare.” tubò lusingata mia sorella: era lampante che non vedeva l’ora che nonna esagerasse.
“E tu, Sabrina… dove sono tutte le medaglie che hai vinto a karate?”
Sabrina gonfiò il collo, fiera come un tacchino: in realtà sembrava un’acciuga strizzata, ma la sua ambizione di diventare l’unica e vera sosia femminile di John Cena la rendeva evidentemente immune all’evidenza. Nonna girò lo sguardo su di me e i suoi occhi azzurro slavato si addolcirono ancora di più.
“Oh, Milena” sospirò quasi intristita “Che faccia pallida! Hai messo ogni tanto il naso fuori di casa questo inverno?”
“Oh, certo” malignò Rossella con una smorfia “Il 24 gennaio è uscita a comprare un libro ed è stata via per ben mezzora.”
“Che spiritosona” grugnii punta sul vivo “Tutta questa ironia l’hai comprata al mercato o era in saldo da Armani?”
“Lena…” borbottò nonna con aria di rimprovero. Mi calmai subito: come potevo resistere allo sguardo divertito di nonna Rosa?
“In realtà quel 24 gennaio sono stata via quarantacinque minuti” ribattei fingendomi offesa “E non ho comprato solo un libro, ma anche… un… rossetto.”
Persino nonna Rosa rise canzonatoria.
“Oh, certo, e che ne hai fatto dopo?” cinguettò Rossella sadicamente “L’hai usato per sottolineare le frasi più interessanti dei tuoi tomi superpallosi?”
“Te ne accorgerai quando aprirai la tua valigia e troverai tutti i tuoi preziosi perizomi de La Perla decorati di rosso.” ribattei sorridendo a denti stretti.
Rossella mi rispose con una smorfia e sgambettò via in fretta, probabilmente per verificare che la storia dei perizomi non fosse vera.
“Allora, Milena, ti muovi con quella valigia?!?”
Quando mamma chiamava i figli per nome significava che stava per passare alle vie di fatto: così, mollai nonna Rosa e corsi ad aiutare papà nel difficile compito di scaricare la povera Multipla Bipower dei nostri averi. Non fu un compito facile: la nostra famiglia soffriva da sempre di una grave allergia all’ordine e al metodo, così, svuotando il baule, poteva succedere di tutto, dall’essere travolti da un copertone di bicicletta al trovarsi una gallina viva tra le mani. Dopo un quarto d’ora buono di strilli inconcludenti da parte di mamma e di serafiche e pacate battute da parte di papà, ognuno di noi arrancava verso la propria stanza con le proprie valigie da trascinare su per le ripide scale di pietra consumata. La più fortunata, ovviamente, ero io, con la mia camera nella piccionaia. Arrivai su con un mezzo colpo apoplettico in atto e dovetti buttarmi sul letto supina per riprendere fiato. Il familiare tetto a travi mi salutò e il muro mi spolverò il viso di intonaco. Io sorrisi, appagata; mi arrotolai nelle coperte fatte all’uncinetto che rivestivano il letto bitorzoluto, assaporando con acuta nostalgia il profumo di lavanda e naftalina che le accompagnava. La mia stanza era piccola, col tetto mansardato e il pavimento di pietra pericolosamente inclinato; l’arredamento consisteva in un cassettone che non riusciva a essere antico e rimaneva sempre vecchio e dall’aria esausta, una specchiera lattiginosa in cui mi vedevo sempre avvolta dalle nebbie, il mio fido lettino dalla testiera di ferro battuto nel quale potevo dormire solo rannicchiata tanto era diventato corto e la bassa finestra rotonda senza sbarre, un vero monumento di sfida contro le leggi sulla sicurezza domestica. Ancora eccitata, saltai giù dal letto e mi accoccolai sul basso davanzale della finestra, lasciando che il caro e familiare panorama riprendesse il suo posto predominante dentro al mio cuore. Quanto amavo quelle aspre vette improvvise coperte di verde brillante con in lontananza l’azzurra striscia sottile del lago! Me le sentivo dentro come se fossero parte del mio Dna, e in effetti a volte diventavo esattamente come quel paesaggio: ombrosa, silenziosa, con spigoli acuti e troppi angoli nascosti… Sospirai, di colpo malinconica.
Mi rendevo conto che mamma era perplessa per il fatto di avere una figlia come me. Le mie sorelle erano più semplici da trattare: con Rossella mamma aveva un dialogo immediato anche se piuttosto limitato negli argomenti. Mia sorella, infatti, era rimasta intrappolata nella fase edonistica adolescenziale e nonostante i diciassette anni suonati l’unica cosa che entrasse in quel cervellino atrofico era l’immagine della Carta di Credito con cui fare acquisti in via della Spiga, quindi, tra un’attenta valutazione dell’ultima collezione di Laura Biagiotti e una critica costruttiva sugli ultimi stivali di Cavalli, il contatto con mamma era assicurato. Con Sabrina, quattordicenne col fisico da tagliolino scondito e la mente di una locusta, non c’era dialogo, ma mamma aveva trovato un felice compromesso nell’elementare linguaggio dei segni. Con me invece non aveva ancora trovato un giusto punto di contatto. Non che litigassimo, sia chiaro: ci volevamo bene e sapevamo di poter contare sempre l’una sull’altra, ma lo stesso i rapporti tra noi erano difficili. Credo che mamma fosse sconcertata perchè non riusciva a capirmi. Lei era molto estroversa, altruista, solare e amichevole. Non che io fossi l’esatto contrario: avevo anche io la mia cerchia di amicizie e quando volevo sapevo essere una piacevole compagnia. Ero però molto più attratta dalla solitudine che dalla vicinanza con le altre persone. A volte, inconsciamente, mi sforzavo di comportarmi come le mie coetanee per non spaventare troppo mamma e uscivo con le amiche, annoiandomi a morte per tutto il tempo con i loro discorsi sulla depilazione e sui metodi per rimorchiare i ragazzi. A proposito… I ragazzi, altro tasto dolente: non ne sentivo assolutamente il bisogno e la cosa cominciava a preoccupare anche me. Ormai a sedici anni gli ormoni avrebbero già dovuto fare il loro sporco lavoro, e invece la mia attrazione verso l’altro sesso era pericolosamente vicina allo zero. Non che mi mancassero le occasioni: pur non essendo una gran bellezza, gli ammiratori si sprecavano. Attraevo invariabilmente amanti del gotico che prendevano la mia faccia pallida e l’espressione seria per una tendenza allo stile dark. Niente di più sbagliato: odiavo le unghie nere, gli occhi bistrati e lo snervante pessimismo di questi personaggi. Trovavo deprimente il loro abbigliamento dimesso, i loro colori scuri e gli scarabocchi neri sul diario di scuola.
Comunque, nonostante la mancanza di rodaggio su strada, avevo intuito di essere eterosessuale, anche se dai gusti eccentrici: le poche, assurde cotte adolescenziali che avevo avuto si erano divise tra un commentatore radiofonico di Radio 105 che avevo scoperto avere il triplo dei miei anni, il bell’Andrè del Manga su Lady Oscar e ultimamente la faccia da pazzo scatenato di Adrien Brody, l’attore col naso più ricurvo del west. Le cotte peggiori però le avevo prese per qualche personaggio letterario: avevo decisamente perso la testa per Dorian Gray e avevo passato intere notti a sospirare per il protagonista di un racconto di Stephen King, figurarsi! No. Sapevo che, con i giusti stimoli, potevo provare qualcosa di simile alla passione. A parte quello però, sessualmente ero inattiva come il Vesuvio.
Inevitabilmente, il mio sguardo corse fuori dalla finestra, frugò nel verde lontano e finalmente individuò una solida torretta di pietra dallo spiovente tetto di ardesia grigia. Chissà se erano già arrivati, pensai remotamente. Quella torretta era l’unica parte visibile (solo ed esclusivamente dalla mia camera) dell’abitazione dei nostri vicini di casa, per usare un eufemismo che accomunasse le uniche due costruzioni nel raggio di chilometri: la caotica, pericolante catapecchia della famiglia Mercati e l’elegante, opulenta, inaccessibile Villa Lazzari.
*    *       *
I Lazzari erano un po’ la leggenda di Ustecchio, per non dire di tutta la zona del Tremosine. Da anni ormai questa famiglia di nobilazzi (per dirla alla maniera di mio padre) veniva a passare le vacanze estive nella sua villa patrizia ben nascosta nel verde, suscitando l’inevitabile curiosità del paese e i sogni snobistici di mia sorella. Ruggero Lazzari e i suoi due figli, Tobia e Saverio, si diceva che abitassero in Svizzera dove i nobili rampolli frequentavano prestigiose scuole per annoiati multimiliardari. Di loro si sapeva poco altro perché la famiglia teneva molto alla propria privacy: se fossero effettivamente nobili, da dove venissero, cosa facessero per essere favolosamente ricchi come sembravano, non era dato di sapere al resto del mondo. Si vociferava di dimore e banche svizzere, ma il riserbo che li circondava aveva maglie troppo strette per andare oltre. I Lazzari evidentemente non amavano il contatto sociale: arrivavano attraversando il paese su macchinoni che sembravano transatlantici, si facevano vedere pochissimo in giro e, beffa delle beffe, stagionalmente non assumevano servitù del posto ma silenziosi e altezzosi domestici stranieri. La gente del posto avrebbe probabilmente finito per detestarli se non ci fossero stati due piccoli particolari a sovvertire l’ordine delle cose: il primo era che la famiglia era composta da soli maschi e il secondo era che quei maschi possedevano tutti una bellezza rara e abbagliante, come se avessero avuto bisogno di altri particolari per risultare miracolati e irraggiungibili. Le poche volte che si presentavano in paese erano sempre vestiti bene, con camicie svolazzanti di seta écru, sandali di cuoio intrecciato e discreti occhiali da sole dall’aria costosa. Erano tutti alti, atletici e abbronzati e avevano in comune anche capelli scuri e arroganti nasi patrizi. Erano sempre molto cortesi e affascinanti e quasi tutte le ragazze del posto, prima o dopo, si erano beccate una cotta per uno di loro, irrimediabilmente non corrisposte. Anche Rossella non era rimasta immune al fascino dell’aristocrazia: aveva passato un’intera estate a sospirare per Saverio Lazzari e non so quanti accidenti di espedienti avesse escogitato per incontrarlo accidentalmente lungo la strada ghiaiosa che avevamo in comune, per accedere alle nostre abitazioni dalla strada principale. Saverio, ovviamente, non se l’era filata nemmeno di striscio: probabilmente nemmeno si era accorto di essere diventato l’inizio e la fine del mondo di Rossella, occupato com’era a giocare a tennis (ne sentivamo i rumori e la voce dal limitare del nostro giardino), fare sci d’acqua sul lago  e organizzare esclusivissime feste per soli dei dell’Olimpo, feste di cui noi poveri mortali potevamo solo annusare l’odore da lontano.
Avevo idea che anche mamma, a suo tempo quando abitava qui con i nonni, avesse avuto la sua bella dose di delusioni amorose a causa della famiglia Lazzari. Ancora dopo tanto tempo, quando parlava di Ruggero Lazzari, le guance le diventavano rosa e gli occhi si facevano lucidi. E tutte le volte che lo incrociava in paese diventava di colpo più distratta e goffa del solito e invariabilmente finiva per commentare a voce alta: “Non è cambiato di una virgola, sembra ancora giovane come vent’anni fa.”
Era vero: a guardarlo, anche da lontano e con quegli onnipresenti occhiali scuri, sembrava impossibile che avesse più o meno l’età dei miei genitori. D’altra parte, era improbabile che fosse più giovane, visto che aveva due figli già adulti. La cosa che incuriosiva di più era che nessuno aveva mai visto transitare di lì una signora Lazzari; non ce n’era mai stata nemmeno l’ombra in tanti anni di gloriose ferie estive. La gente aveva ventilato fiaccamente l’ipotesi che Ruggero potesse aver adottato i suoi figli, ma a smentita di ciò bastava la lampante somiglianza che legava tutta quella incredibile famiglia, così i pettegolezzi avevano ripiegato su un più prosaico e nebuloso divorzio miliardario.
Io ovviamente non condividevo affatto i sospiri romantici di Rossella per i divini Lazzari, anzi mi infastidiva parecchio il fatto che i Mercati godessero di un notevole credito solo per il fatto di abitare vicino alla Villa e che bastasse quello per diventare automaticamente interessanti agli occhi della gente. In realtà, noi non sapevamo molto più degli altri. Certo, avevamo in comune con loro un muro di cinta, ma la vastità del giardino della Villa e la fitta vegetazione che si intravedeva al di là del muro li facevano sembrare in un altro continente. Noi ragazze incrociavamo spesso i Lazzari sulla strada ghiaiosa mentre andavamo verso il lago e loro si mostravano sempre molto cortesi: buongiorno, buonasera, bella giornata per lo sci d’acqua, brutta giornata per lo sci d’acqua, fa caldino, fa freschino, e via, ognuno per la sua strada. Noi, sempre con le nostre biciclette arrugginite, cariche di teli da bagno, creme, occhiali, riviste, zaini pieni di cibo, materassini gonfiabili e chi più ne ha più ne metta; loro con i loro scooter cromati e silenziosi, le loro camicie svolazzanti di seta e la loro maledettissima puzza sotto il naso.
Personalmente, non avevo mai fatto mistero della mia ostilità nei confronti della divina famiglia: la ritenevo la quintessenza di tutto ciò che detestavo nelle persone, quindi non condividevo i sogni a occhi aperti di Rossella né gli sguardi golosi che Sabrina lanciava ai loro scooter. Per me, le vacanze estive erano semplicemente Cresta del Gallo, con le sue terrazze ripide, con l’odore di bosco che filtrava dalle finestre la mattina, con il blu del lago a salutare in lontananza… e perché no, con la torretta di Villa Lazzari che svettava vicina, complice della mia solitudine poiché solo io potevo vederla e condividerne la solitaria bellezza.
*    *       *
Quando scesi di sotto, nonna Rosa stava già preparando il pranzo. Mi arrivò alle narici l’aroma di ciò che friggeva sul fuoco e cominciai ad avere l’acquolina in bocca: mentre per tutto l’inverno a Milano soffrivo regolarmente di una fastidiosa inappetenza, a Cresta del Gallo diventavo famelica come un lupo. Nonna Rosa, oltretutto, preparava sempre il pane in casa e la sua fragranza paradisiaca accompagnava qualsiasi mio ricordo d’infanzia tanto che a volte me la sognavo anche di notte.
“Che stai preparando?” domandai saltando a sedere in bilico sul lavello e rubacchiando un pezzo di pane tiepido da sotto il tovagliolo.
“Pane e acqua come per i condannati.” rispose con aria molto seria la nonna.
“Gustoso!” commentai spalancando gli occhi e nonna annuì saggiamente.
“Lo so, è il tuo piatto preferito… a Milano sei diventata così magra.”
Lanciò uno sguardo di riprovazione alle mie gambe ancora inguainate nei jeans e io sbuffai rumorosamente.
“Nonna, per te sarei deperita persino se pesassi una tonnellata.” ribattei con un sottofondo di affetto.
“Sante parole” sorrise lei immediatamente “E’ ora che tu ti faccia un po’ di muscoli su quelle grucce secche che hai per gambe. Prendi il bottiglione e vai a riempirlo d’acqua alla fonte, dai.”
“Sapevo che dietro l’interessamento c’era la fregatura” mi lamentai con una smorfia “Appena arrivata e già mi metti di corvèe.”
“Non è colpa mia se sei stata la prima a scendere” ridacchiò la nonna con gli occhi scintillanti “Su, scattare… sciò sciò!”
Corrucciata, sbirciai fuori dalla finestra dove il sole spiccava alto in mezzo al cielo azzurro come non mai.
“Mi prenderò un’insolazione” mi lamentai alzandomi però in piedi “Tutta sola, sotto il sole cocente per chilometri e chilometri…”
Nonna smise di cucinare per lanciarmi uno sguardo divertito.
“Sei in Italia, non nel deserto dell’Arizona” commentò sagace “Ti presto il mio cappello di paglia e devi solo fare cinquecento metri: se non è mai morta miss sospiro, ovvero tua madre, puoi sopravvivere anche tu.”
“Va bene” cedetti di buon grado; a chi volevo darla a bere? Adoravo passeggiare da sola in mezzo al verde con solo un concerto di grilli a farmi compagnia “Se troverò una carovana dispersa sulla via, indicherò loro la strada per il villaggio.” dichiarai drammaticamente.
“Brava, fai così.” rispose nonna, già distratta dai pomodori nel lavello.
Canticchiando una canzoncina western, mi caricai il bottiglione su una spalla, infilai il cappello di paglia di nonna e uscii sotto il sole. L’aria di giugno era deliziosamente tiepida e profumata di resina e di erba appena tagliata. A passo svelto, imboccai il sentiero in mezzo al fitto bosco di larici e pini mughi, assaporando con tutti i sensi la natura intorno a me. Era stata una fortuna che il nonno avesse costruito quella casa nel bosco sul finire degli anni sessanta, quando gli abitanti della zona stavano emigrando verso le grandi città: il turismo di massa era nato solo molto tempo dopo ma negli anni ‘80 avevano istituito il Parco dell’Alto Garda Bresciano e nessuno aveva più potuto costruire in quella zona. Fortuna per noi e per i nostri aristocratici vicini, eravamo i padroni incontrastati di quel paradiso verde e azzurro. Fischiettando la canzone di Robin Hood della Disney, arrivai nei pressi di una fonte di acqua sorgiva: mio nonno anni addietro aveva scavato una buca intorno alla sorgente e aveva costruito una specie di vasca con mattoni rossi che ormai era interamente rivestita di edera. Dentro la vasca, alcune raganelle verdi avevano istituito il loro yachting club e gracidarono oltraggiate quando mi sporsi per riempire il bottiglione con l’acqua fresca che zampillava da un corto e storto tubo di rame.
“Scusate il disturbo” dissi con aria contrita “So di non avere pagato la quota… Me ne vado subito subito.” 
Sorrisi quando una raganella si tuffò con altezzosa eleganza nella vasca. Mentre aspettavo che il bottiglione si riempisse decisi di dare una ripulita: le erbacce stavano soffocando un bel cespuglio di sassifraga rosa acceso che si arrampicava lungo i mattoni e così mi misi in ginocchio a estirparle, senza smettere di canticchiare.
“Robin Hood e Little John van nella foresta, urca urca tirulleru oggi splende il soool!”
Adoravo quella canzoncina scema: la cantai con profondo impegno, tentando anche qualche gorgheggio, quando un rumore di rami spezzati mi mise in allarme. Velocemente mi rizzai in piedi con ancora una radice estirpata in mano e mi trovai faccia a faccia con un ragazzo.
La sorpresa fu così repentina che mi bloccai immediatamente sul posto lanciando un gridolino soffocato mentre il viso di lui si apriva in un largo sorriso amichevole.
“Scusami, non volevo spaventarti” disse con voce allegra cercando evidentemente di tranquillizzarmi “Ho sentito cantare e volevo assicurarmi che non fossero quelle dannate raganelle… anche se dovevo immaginarlo che delle raganelle non potessero conoscere Robin Hood e Little John.”
Lo riconobbi all’istante: era Tobia Lazzari, il più giovane dei fratelli. Lo avevo incrociato spesso e avevo notato che era quello più gentile di tutti, o forse pensavo così perché doveva avere più o meno la mia età e lo sentivo più affine. Il sollievo mi fece rispondere con un tono altrettanto amichevole.
“A dire il vero, stavo giusto regalando loro il CD” lo informai semiseria “Come stai Tobia?”
“Bene” rispose lui per niente sorpreso di essere stato riconosciuto “E tu… Rossella?”
“Milena” sorrisi io senza acrimonia “Ottimamente. Siamo appena arrivati.”
“Anche noi” approvò lui piacevolmente “Giornata bellissima, non trovi?”
“Meravigliosa.” commentai depressa.
Eccolo, il tipico dialogo che si poteva intrattenere con un divino di Villa Lazzari. Cortesia, gentilezza, e sublime superficialità, niente di più e niente di meno.
“Già al lavoro?” domandò Tobia indicando il bottiglione d’acqua ormai pieno.
“Eh sai… La dura vita delle figlie di mezzo.” risposi sospirando e lui sorrise di nuovo.
Diamine, che schianto di ragazzo: i suoi occhi avevano una tonalità di verde meravigliosa, come se fossero in grado di catturare il colore della vegetazione circostante.
“Non saprei” rispose lui con lo stesso tono “Io sono il fratello più piccolo.”
“Beata gioventù.” replicai caricandomi il bottiglione in braccio: pieno era davvero pesante.
Tobia sembrò cogitabondo per una frazione di secondo, poi, quando io stavo per salutare cortesemente, parlò lasciandomi completamente di stucco.
“Vuoi una mano?”
Ci misi un po’ a riprendermi dalla sorpresa fulminante: non avrei mai immaginato una gentilezza del genere. Cioè, era una cosa così poco patrizia, così… umana. La tentazione iniziale fu di accettare, però non avevo nessuna voglia di sopportare gli sguardi allucinati della mia famiglia se mi fossi presentata sulla soglia di casa con un esponente della divina e irraggiungibile famiglia Lazzari al seguito. Ero quindi lì lì per declinare l’offerta quando fui di nuovo distratta da un rumore proveniente dal bosco.
“Tobia?” chiamava un voce bassa e vagamente stizzita “Tobia, sei qui?”
Dal verde rigoglioso del bosco spuntarono due teste brune, una leggermente più bassa dell’altra. Entrambe si fermarono con arrogante sorpresa quando mi avvistarono e io, deficiente come sono, arrossii immediatamente di imbarazzo. Erano Ruggero e Saverio Lazzari: il primo, più basso e massiccio, mi squadrò con autentica alterigia, alzando le sopracciglia con superba ironia. Il secondo, più alto e se possibile ancora più ostile, non mi degnò nemmeno di un’occhiata. Il loro atteggiamento scostante mi arrivò addosso improvvisamente come uno schiaffo in pieno viso. Ovviamente, l’impulso che seguì fu quello di darmela a gambe il più in fretta possibile.
“Non fa niente” dissi in fretta arretrando lungo il sentiero “Faccio da sola. Saluti a tutti.”
“Ciao.” rispose Tobia, quasi con una vaghissima punta di rimpianto.
Quei gentiluomini di suo padre e suo fratello nemmeno mi salutarono: Ruggero fece un sorrisetto sardonico mentre Saverio continuava a rimanere in ombra, guardando Tobia con aria truce. Io girai i tacchi e mi affrettai lungo il sentiero. Man mano che mi allontanavo dalla fonte, cresceva il mio malumore: non mi era mai interessato ricevere le attenzioni di quei damerini spocchiosi e snob dei Lazzari, ma mi irritava profondamente essere trattata come spazzatura. E dire che di solito erano così cortesi e affabili con tutti…
“Si vede che il viaggio ha dato loro alla testa” commentai tra me e me “Uno diventa improvvisamente umano e due diventano del tutto bestie.”
Dopo quell’acida considerazione mi sentii assurdamente meglio. Rallentai il passo e mi lasciai distrarre dalla rigogliosa natura circostante, dicendomi che per niente al mondo avrei lasciato che dei rigidi stoccafissi svizzeri mi rovinassero la giornata. Così, quando arrivai a casa, ero di nuovo di buon umore e fischiettante.
“Era ora che arrivassi!” mi sgridò Rossella dalla soglia con aria corrucciata: si era già cambiata indossando quella che doveva essere la sua tenuta campagnola e cioè jeans di Cavalli con toppe di pelle di pitone, camicetta svolazzante di seta cruda e stivali country che solo a guardarli si impolveravano. Mi fece quasi tenerezza: tutta quella cura per i particolari era assolutamente sprecata, lì in mezzo alla natura.
“Che hai fatto fino a ora?” domandò Sabrina, sbucando da dietro Rossella “Aspettavamo te per mangiare!”
Aprii la bocca per dire qualcosa di molto stupido, magari che avevo incontrato niente po’ po’ di meno che la famiglia Lazzari, attirandomi addosso almeno tre ore di terzo grado da parte delle mie sorelle: richiusi la bocca risoluta senza nemmeno pensarci su.
“Mangiamo.” proposi entrando decisa nella frescura dell’ingresso.
 

  
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