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Autore: Viviane Danglars    21/07/2011    4 recensioni
Ichigo è un investigatore, ha un cliente e un “caso” da risolvere.
Non è pulito, non è delicato e non finisce bene.
[ Respirò a fondo nell’aria ancora fresca della mattina, senza aprire gli occhi. Non ne aveva bisogno per visualizzare il luogo dove si trovava; sapeva com’era fatta la ringhiera di ferro che sentiva premergli, fredda, contro le reni. E sapeva che, sotto di lui, c’erano numerosi piani e poi soltanto l’asfalto, non liscio né propriamente grigio, ma sicuramente duro.
Numerosi piani di poveracci e disperati, prostitute e drogati, ubriaconi e malati e, sopra di loro, lui: Renji Abarai, con i suoi tatuaggi, le mani robuste infilate nelle tasche, la maglietta lisa che profumava della lavanderia di Momo e i capelli rossi raccolti in una coda spettinata.
]
~ [Liberamente ispirato al film Million Dollar Hotel.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kuchiki Rukia, Kurosaki Ichigo, Renji Abarai
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incompiuta
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Capitolo quattordicesimo.
Lovesong




[ Whenever I'm alone with you,
You make me feel like I am home again -
You make me feel like I am whole again …
However far away, I will always love you
However long I stay, I will always love you
Whatever words I say, I will always love you -
I will always love you ]




Il bussare giunse incerto, quasi frammentario, come se la persona che aveva bussato avesse paradossalmente cercato di fare poco rumore.
Quel solo rumore, quel breve sprazzo di vita, bastò per turbare il Million Dollar Hotel. O così parve ad Orihime. Le parve che persino col semplice atto del bussare, lei e la sua goffaggine fossero state capace di infrangere quell’atmosfera umida e tesa, il buio acquattato nei corridoi dell’Hotel.
Quei corridoi accendevano la sua immaginazione: la affascinavano i loro rossi, i loro verdi scuri e l’umidità nelle pareti; e come tutto tendeva al nero. Si chiedeva quali e quante persone li avessero percorsi, e perché. Immaginava respiri e gemiti trattenuti dietro le porte, spezzati e gonfi come nuvole cariche di pioggia sporca.
Si vergognava dei suoi colori pastello e del suo viso acqua e sapone.
Poi Ulquiorra aprì la porta.


Il Nocturne era molto diverso da come Momo lo ricordava; eppure, appena vi entrò, non poté fare a meno di sentirsi aggredita dall’incomprensibile e sbagliatissima sensazione di essere a casa.
Si fermò sull’entrata, perplessa, incerta. Si trovava là dentro grazie al buttafuori che aveva riconosciuto la catenina di Rangiku, permettendole di entrare, perché Momo non aveva certo l’aspetto giusto per una serata in un locale come quello, e qualcuno già la guardava storto; eppure la ragazza non se ne preoccupava, né si sentiva in imbarazzo come si era sentita tante volte al fianco di Toushiro nei suoi modesti abitini. Non era l’imbarazzo il motivo per il quale era ferma lì.
Anzi, il contrario.
Osservava l’ambiente caotico e caldo, buio e luccicante del locale, e aveva gli occhi spalancati, un mezzo sorriso già dipinto sul viso. Un po’ se ne sentiva ancora parte, non poteva farne a meno.
Il buttafuori non lo sapeva; d’altronde era nuovo; ma lei… be’, lei lo conosceva quel posto.
Ci aveva lavorato.
E mentre si guardava attorno, e compiva i primi passi facendosi largo tra la folla, immaginò di avere ancora addosso la sua divisa nera, il gilet luccicante, il trucco che ogni sera le faceva Rangiku. Immaginò di scivolare sui tavoli, snella e agile con i suoi vassoi, e ricordò la sera in cui un cliente le aveva fatto scivolare una mano sui fianchi e Rangiku gli era piovuta addosso urlando e graffiandolo; e quello aveva ritratto la mano e aveva riso, e invece aveva preso Rangiku sulle ginocchia; e Momo era scappata dietro il bancone con il viso arrossato mentre le altre ragazze la prendevano in giro bonariamente.
In quel posto, Momo si era sentita bella. Si era sentita luccicante.
Toushiro non sapeva queste cose. Lui pensava che fosse degradante. Si era sempre opposto a quella scelta, ma Momo pensava che a lui dispiacesse più per sé che per lei; era al proprio orgoglio ferito che pensava, non a quali rischi corresse veramente sua moglie.
E d’altronde Momo non voleva pensare a Toushiro, ora. Toushiro era lontano, e invece Sousuke era lì. Vicinissimo. Finalmente…
La ragazza riprese a camminare con più energia, superando velocemente l’ingresso del locale, con la catenina stretta nel pugno, contro il petto.
La pianta del Nocturne era di base quella di un grande stanzone rettangolare, un vecchio deposito industriale; Aizen però l’aveva resa particolare riempiendo tutto quello spazio e trasformandolo in un percorso tortuoso, disseminato di tavolini, séparé e divani, i quali avevano anche la funzione di garantire una notevole privacy.
Per coloro che erano soliti avvalersi del più particolare tra i servizi offerti dal Nocturne, quella privacy era fondamentale. E Gin Ichimaru, da sempre addetto ad occuparsi della prostituzione che gravitava intorno al locale, sapeva bene che pochi semplici incentivi – la semioscurità, l’efficacia di un tendaggio, la comodità di un divano – potevano miracoli, in talune situazioni: l’ambiente era fondamentale, e Sousuke era un genio nel crearlo. Lui, invece, si riteneva un individuo più prosaico, e si limitava alla materia prima.
Probabilmente era questo fattore a rendergli tanto sopportabile l’idea che Rangiku si prostituisse in quello stesso locale. Di certo, lei non l’avrebbe trovato affatto sopportabile, se l’avesse saputo.
Ma Rangiku non incontrava mai Gin al lavoro.
Eccetto quella sera.
Che qualcosa non andava, la donna lo aveva capito fin dall’inizio, quando, ancora alle ultime luci del tramonto, si era presentata sul retro con la sua borsa. Halibel era appoggiata alla porta e fumava una sigaretta, le ciglia chiare che tremolavano proiettando ombre di ragno sulla sua pelle scura.
- C’è casino – le aveva detto, laconica, e Rangiku si era stretta nelle spalle; ne aveva già abbastanza dei suoi, di casini.
All’interno, Tousen contava dei soldi, con l’aria seccata. Ma poi quello ce l’aveva sempre, l’aria seccata. Rangiku non lo aveva salutato; lui era un gradino sopra alle ragazze del Nocturne, e non le salutava mai, perciò lei era lieta di ricambiargli la cortesia.
Si era cambiata e, proprio quando cominciava a pensare che non capiva a cosa diavolo si riferisse Halibel, erano entrati Aizen e Cirucci. Lei parlava a voce alta; lui si era limitato a zittirla con un’occhiata prima di andarsene.
- Va’ a prepararti. -
- Certo, certo, mi preparo. – Cirucci aveva sfilato con astio le forcine che le raccoglievano i boccoli neri, sbattendoli sul tavolo di Tousen e dirigendosi verso i piccoli camerini ricavati con qualche tenda vicino ai bagni. Seguita da Rangiku e Halibel si era dipinta gli occhi e il viso con la pesante matita nera, informando le colleghe che era appena passata la tirapiedi della Shihouin, Soifon, latrice di notizie tutt’altro che allegre.
- Quella ha bisogno di scopare, credetemi. -
- Lascia perdere, - l’aveva interrotta Halibel, – cosa ha detto? -
- Ho sentito solo l’inizio… Comunque diceva che l’aveva mandata la sua padrona, che doveva parlare con Aizen, che aveva saputo delle cose urgenti… la polizia… poi lui mi ha cacciata via. -
Rangiku aveva inarcato un sopracciglio. – La polizia? -
- Ma sì, lo sai che sperano di combinare qualcosa da quando la Shihouin ha avuto la bella idea di tornare… l’hai vista l’altra sera, no? Chissà che affari hanno quei due. Comunque sono sicura che sperano di incastrarla finché è in Giappone. Anche Aizen lo sa, per questo è nervoso. -
- Lui non è mai nervoso. -
- Be’, guardalo un po’ meglio, in questi giorni. -
Ma Aizen non si era più fatto vedere, quella sera, mentre il locale si popolava e Rangiku constatava che sì, qualche voce effettivamente girava, un po’ di nervosismo c’era. E proprio quando anche lei cominciava ad essere nervosa, era comparsa, al posto di Aizen, l’ultima persona che si sarebbe aspettata di vedere lì.
- Gin! -
Non l’aveva urlato romanticamente; l’aveva sussurrato con voce spezzata.
Lui era lì, sottile e pallido, in piedi davanti al bar. Parlava con altri uomini, sorrideva e non assomigliava per nulla al suo Gin.
Quando era piccolo, Gin veniva ad aspettarla fuori dalla palestra dove Ran bambina prendeva lezioni di danza. Diceva che veniva a prenderla per riportarla a casa, e lei lo ringraziava con un bacio riprendendo in mano la bicicletta.
Anche in quei pomeriggi di sole Gin sorrideva. Ma non in questo modo.
Rangiku si era spostata lentamente, scivolando su uno sgabello, in attesa di qualcun altro che le facesse un cenno d’intesa. Tra sé sperava che quel qualcuno fosse lui, che lui la avrebbe chiamata; eppure non osava contarci davvero, perché Gin non aveva mai voluto coinvolgerla davvero nel suo lavoro.
Rangiku sapeva, ovviamente, che era coinvolto negli affari di Aizen. Ma non sapeva in quale modo, di preciso. Poiché non lo vedeva mai al locale, come invece capitava per Tousen, aveva immaginato che lavorasse soprattutto all’esterno, magari facendo pubblicità, contattando i fornitori, o chissà cos’altro.
In fondo Rangiku era una maitresse tornita ed elegante come Halibel e Cirucci, ben vestita e ben truccata, che contribuiva all’arredamento del locale e talvolta si portava qualcuno in un angolo ben appartato; non sapeva e non voleva sapere come funzionasse il nutrito gruppo di ragazzine giovani e magre, talvolta straniere, che saziavano appetiti più sotterranei ben lontani dalle luci intermittenti del Nocturne.
Dopo pochi minuti, Gin andò da lei.
Assordata dalla musica ritmata e troppo alta, Rangiku sgranò impercettibilmente gli occhi e lo fissò mentre si avvicinava; Gin sorrideva, un passo avanti all’altro come un felino dai fianchi magri, e guardava lei.
In quel momento Rangiku pensò che avrebbe potuto dirgli qualsiasi cosa. Persino quella che aveva davvero paura a dirgli.
- Tutta sola, Ran? -
- Spiritoso. – Ma aveva sorriso e si era girata.
- Ti offro da bere. -
- Spiritoso. -
Gin era appoggiato al bancone con un gomito, il corpo torto per rivolgersi a lei. – Che c’è? Non posso offrirti da bere? -
- Non pago, e neanche tu - chiarì lei gettandogli un’occhiata divertita.
- Volevo essere un degno cavaliere – replicò Gin, simulando un’espressione perplessa, dispiaciuta.
Rangiku accavallò le gambe e lo ignorò mentre lui tornava a sorridere apertamente, raddrizzandosi.
- C’è agitazione, stasera. -
Così il momento magico passò.
Lui non la guardava più; guardava la sala, tanto gremita che Rangiku si chiedeva se riuscisse a distinguere qualcosa.
- In che senso? -
- Cirucci mi sembra un poco nervosa. – Gin lo disse sorridendo.
Spiritoso, pensò ancora Rangiku. Cirucci era palesemente isterica. Non le piaceva mai quando Aizen la rimetteva al suo posto; in passato si erano frequentati un po’, e lei doveva aver accarezzato sogni troppo grandi per lei. - Tu invece che ci fai qui, Gin? -
- Io? – Si voltò, sorpreso e compito. – Ho pensato di passare a dirti “ciao”. -
Fu allora che Rangiku cominciò a chiedersi se era Cirucci ad essere nervosa, o non c’era qualcuno ancora più nervoso di lei. Aizen non si vedeva; al contrario, si era fatto vivo Gin.
Stava per indagare quando lui domandò, indicandole le clavicole: - Dov’è la tua collana? -
Rangiku si portò le dita allo sterno, sulla pelle calda tra i seni. La collana che metteva sempre la aveva comprata da ragazza coi suoi primi risparmi, e lui le aveva detto che le stava bene. Personalmente quel piccolo gioiello non aveva mai smesso di piacerle, e per questo motivo continuava ad indossarlo.
- Devo averla dimenticata – rispose perplessa, abbassando lo sguardo.
Gin distolse il proprio e sorrise appena. Poi disse: - Lupus in fabula, - che suonò strano per due motivi: il primo era che la frase sembrava singolarmente adatta a lui, l’altro era che Rangiku non lo aveva mai sentito citare in latino.lupus si manifestò nei panni smunti e negli occhi sgranati di Momo, che emerse dalla folla, guardandosi attorno e stringendo al petto le mani, con un’espressione tanto estatica che Rangiku temette avesse preso qualcosa.
Scese dallo sgabello, sotto lo sguardo divertito di Gin, e avvicinandosi capì il senso delle sue parole: Momo teneva tra le dita il filo luccicante della sua collana.
- Cosa fai qui? – esclamò allarmata, tirando l’amica verso di sé. – Se lo sapesse Toushiro… -
- Ti ho portato la catenina, Rangiku… l’avevi dimenticata – spiegò Momo, seguendola docilmente al bancone. Lanciò appena un’occhiata a Gin. Sembrava abbagliata.
- Grazie, ma… - Rangiku prese l’oggetto passandolo in fretta attorno al polso. – Momo, non dovresti essere qui. -
- Che c’è? – protestò l’altra. – Sono adulta. -
- Meno di me, - tagliò corto Rangiku, - e in ogni caso… -
- Ran. – Era proprio come un brutto sogno, pensò la donna: sbagliato, dall’inizio alla fine, e con la sensazione di averlo sempre saputo. – Da quando spingiamo gli ospiti ad andare anziché rimanere? Soprattutto se sono vecchi amici. -
Gin sorrideva, e Rangiku in quel momento lo odiava.
- Come stai, Momo? – domandò Aizen, chinandosi di poco verso la ragazza. – Quanto tempo. -
Parlava proprio come la prima volta, pensò Momo. Emozionata, lo fissava e pensava che non era cambiato affatto.
- Bene, grazie… - rispose in un soffio. – Ero venuta a portare a Rangiku la sua… -
- … la mia collana, già. -
- Ne sono felice. – Aizen sorrise.
- Senti, Momo, qua fa caldo… vieni con me di là e mi aiuti ad allacciarla? – domandò Rangiku, prendendo il braccio dell’altra.
- Veramente, io… - Momo distolse lo sguardo da Aizen posandolo su di lei, un po’ confusa.
Rangiku temette che Aizen avrebbe fatto qualcosa per fermarli, ma né lui né Gin dissero una parola, eccetto scambiarsi – così le parve – uno sguardo. Momo allora annuì, e la seguì. L’una su tacchi affilati e pericolosi, l’altra a piccoli passi, tornarono verso il retro del locale.
Aizen si sporse sul bancone e attirò l’attenzione del barman, che si affrettò a versargli da bere. Porse un bicchiere anche a Gin e solo allora questi domandò, pigramente, ancora appollaiato sul suo sgabello: - La Shihouin è furiosa perché teme che le mandiamo all’aria l’impero, il vecchio Yamamoto ti sta attaccato alle calcagna e tu perdi tempo con quella ragazzina sparuta? -
L’altro non commentò, prendendo un sorso. – Ti preoccupi troppo, Gin. -
- Ma io non mi preoccupo affatto. Penso solo che potremmo spendere meglio le nostre ultime ore di libertà – rise piano Gin, rigirandosi il bicchiere tra le lunghe dita.
Aizen inarcò un sopracciglio. – Ti fidi così poco di me? -
Gin si strinse nelle spalle e per un poco non rispose. Poi scese dallo sgabello, posando il bicchiere vuoto.
- Dove vai? -
– Vado a spendere le mie ultime ore di libertà, meglio di quanto farai tu. -


Ulquiorra l’aveva fatta entrare, senza fare domande. In realtà, non aveva detto nulla. Aveva addosso solo jeans sdruciti e una maglietta ugualmente lisa, ma Orihime l’aveva seguito e aveva richiuso la porta, senza riuscire a staccargli gli occhi di dosso.
Lui si era guardato un po’ attorno, come cercando un modo di collocarla in quella che era la sua casa, col suo disordine e la sua miseria. Lei aveva seguito il suo sguardo, in piedi compita nel suo cappottino, e si era resa conto che non ci sarebbero state presentazioni da fare, scuse da usare con Tatsuki, niente di niente.
Ulquiorra era solo.
L’aveva realizzato e per un istante si era resa conto che avrebbe dovuto essere a casa sua, in attesa di Uryuu, che avrebbe dovuto essere spaventata, che non conosceva Ulquiorra, che era in una zona pericolosa della città…
Allora sollevò lo sguardo verso di lui per parlargli e trovò che lui la osservava, in piedi vicino all’acquaio, dando le spalle alla finestra. Fuori, la notte era pallida e niente si muoveva. C’era la luce della luna.
Il ragazzo sembrava avere la pelle bianca. Persino il suo trucco era un po’ sbiadito.
- Non dovrei essere qui… - ammise Orihime, chiedendosi se lui avrebbe capito.
E allora Ulquiorra la prese in contropiede dicendo: - Credo di no. -
Lei sgranò gli occhi, lui non mutò espressione.
- Allora perché sei qui? -
- Perché… perché… - Senza poterne fare a meno, Orihime prese a torcersi le mani. – Perché tu… -
- Io? – Ulquiorra fece un passo avanti. Il suo tono era perplesso.
Orihime si rese conto di stare osservandolo con sguardo spaventato; d’altronde, lui aveva ragione. Che cosa aveva mai fatto, lui? Era lei, lei che non riusciva a…
Quindi disse: - Io… - e stavolta lui ripeté in tono diverso, - Tu. – Lo disse come se ora avesse capito.
Orihime non sapeva più cosa dire, e rimase in silenzio mentre lui si avvicinava ancora. C’era qualcosa di emozionante nel sentirlo parlare, nel sentirlo rispondere, nel sentire la sua voce in risposta alla propria.
Perciò disse: - Il mio nome è Orihime, - e lui allungò una mano, sollevò una ciocca dei suoi capelli e ancora ripeté: - Orihime – proprio come lei aveva sperato.
Si appropriò del suo nome, e a quel punto la ragazza pensò che aveva senso lasciargli prendere anche il resto.
Sfilò il cappotto mentre Ulquiorra lasciava andare i capelli, e si girò per appoggiarlo sulla vecchia sedia. Nel farlo disse, - So già il tuo nome –, cosa alla quale lui non rispose. Quando si voltò di nuovo, lui non aveva mutato espressione, e non lo fece neppure quando lei si avvicinò e lo baciò.
Per un istante pensò che non sarebbe riuscita a fargliela cambiare mai, ma stranamente non avrebbe saputo dire se la cosa la preoccupasse o meno. In quel momento era tutto così surreale che non riusciva a comprendere le proprie emozioni, né a trovare il modo di interrogarsi su quelle di lui. Si aggrappò invece alle sue spalle e alle sue labbra, finché non furono contro il divano, e senza avere una precisa idea di quando avesse cominciato, Orihime poteva finalmente sentire la mani di Ulquiorra sulla schiena e la sua lingua.
Lo spogliò e baciò il suo petto magro e lo sterno, le mani aggrappate sui suoi fianchi. Sentiva le dita di Ulquiorra scorrerle sulle scapole, tirarle i capelli, stringerle le spalle, e poi lo sentì pronunciare il suo nome.
Non pensò mai ad Uryuu.


A qualche isolato di distanza, per spendere nel modo migliore le sue ultime ore di libertà, Gin stava penetrando Rangiku con dolorosa soddisfazione, e non si curava che lei gli affondasse le unghie nella pelle tanto forte da fargli male.
La spingeva contro la parete fredda di fianco al lavandino e allo specchio di quel camerino arrangiato, un braccio appoggiato al muro sopra di loro e l’altro che stringeva Rangiku per le spalle tenendola premuta contro di sé. La sentiva ansimare e gemere di gemiti confusi contro il suo petto, mentre lo cingeva con entrambe le braccia, e appoggiava la testa nell’incavo della sua spalla, i capelli appiccicati alla fronte per il sudore.
- Gin, - mormorò lei, la voce stravolta, strappando quell’invocazione tra l’una e l’altra delle ultime spinte con le quali Gin scavava il fondo di quell’orgasmo, poco gentile verso di lei e verso la tappezzeria.
- Ti ricordi quando… - si interruppe per riprendere fiato, rilassando i polsi e le nocche e trasformando la loro presa di ferro in una carezza benevola sulla colonna vertebrale dell’uomo - quando ballavo? Ricordi quando venivi a vedermi? -
- Sì, Ran. – Odiava quando ne parlava.
Rangiku mosse piano la testa, carezzandogli il petto con la fronte e con la frangia. – Ero brava, vero? -
- Me lo ricordo. -
- Ti ricordi anche cosa progettavamo? -
Gin era indeciso. Lasciarla andare, risistemarsi camicia e pantaloni, o rimanere così?
Il braccio piegato contro la parete cominciava a fargli male. Ma non voleva abbandonare la sensazione di calore di rimanere per un po’ dentro di lei.
Anche se odiava quel discorso.
- Te lo ricordi? – Rangiku ripeté la domanda e gli artigliò la pelle. Fu allora che lui comprese: a bagnargli la camicia non era solo sudore.
- Sì. -
- Io sarei diventata una ballerina, e tu il mio manager. – Rangiku rise all’improvviso, in piccoli singulti. – Come eravamo stupidi. -
Gin chinò la testa. – Non dire così. In fondo è quasi vero, no, Ran? -
Lei sollevò lo sguardo, fissandolo con gli occhi umidi e spalancati. – Come? -
- In un certo senso, lo abbiamo fatto. -
Gin si staccò da lei e Rangiku gemette appena.
- E’ meglio che io vada di là. – Armeggiò con la chiusura dei pantaloni mentre lei si riabbassava la gonna lentamente, una mano appesa al collo, dove lui le aveva riallacciato la catenina poco prima, e lo sguardo perso nel vuoto.
- A più tardi. -
Gin fece per uscire, ma lei lo chiamò, quasi con urgenza. Lui si fermò per un istante, lanciandole un’occhiata: - Cosa c’è? -
Ma incontrò solo lo sguardo sperduto di Rangiku, che lo fissò come se non lo riconoscesse e dopo un istante scosse la testa: - No. Niente. -
- A dopo, Ran. – Gin richiuse la porta. Rangiku scivolò sul pavimento e per la prima volta dopo molto tempo si strinse le ginocchia con le braccia e pianse in silenzio.



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Okay. Bene. Nel caso qualcuno legga questi capitoli, la triste verità è: sono arrivata fino a qui. Il resto è da scrivere e spero di riuscirci, ma, in totale immedesimazione col maestro GRRMartin, non garantisco nulla. XD Le date di questa storia fanno ben capire quanto tempo sia passato da quando l’ho concepita, iniziata, e portata avanti, di getto, fino al considerevole – per i miei standard – traguardo dei 14 capitoli: in teoria per la fine ne mancano tre e mezzo, il che è poco, ma al contempo il fandom di Bleach è lontano anni luce dai miei interessi attuali, e non so se riuscirò mai a “recuperare il filo” in maniera da finire questa fic.
Non rinnego niente, beninteso. Ho solo spostato la mia attenzione, ora come ora. XD
E proprio perché non rinnego niente, la mia volontà sarebbe quella di finire, almeno filologicamente parlando, lasciandovi tutto quanto effettivamente scritto: cioè questo. Per il futuro si vedrà. Grazie mille per le recensioni che tutt’ora ricevo su questa fic e molte altre: sono tutte troppo lusinghiere e non penso di meritare la metà dei complimenti che mi vengono rivolti, ciononostante mi fanno un immenso piacere.
   
 
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