Eeeee dopo nove secoli, ecco il secondo
capitolo!
Do totalmente la colpa alla
maturità. Completamente. Comunque, questo capitolo è segnato come capitolo2
parte I perché il capitolo intero che ho scritto era lungo…
più di 18000 parole quindi, pensando che magari io sono l’unica persona al
mondo che preferisce i capitoli lunghi, ho preferito spezzare il capitolo in
due (un po’ anche perché non ho finito di correggere la seconda parte.
Effettivamente al momento fa un po’ schifo MA COMUNQUE uscirà tra strapoco). In
ogni caso, mi dispiace per l’attesa, coff. Temo tra
l’altro che questi capitoli non suscitino molte emozioni in quanto di fatto non
succede molto, essendo l’inizio. Lo so, tutta la parte “dobbiamo stringere amicizia
prima di fare le cosacce e prima che succedano cose ubertraumatiche”
è sempre una parte molto sofferta. Se scorgete errori vi preeego
di dirmi quali, non ho dedicato molto tempo alla sua revisione, e le critiche
sono apprezzate anche se non credo che sapendo cosa non va potrei fare di
meglio .-. il modo in cui scrivo mi sembra insignificante a tratti (?). Ah, ho
apportato qualche leggera modifica al cap precedente,
cosa che succederà molto spesso *-* Per non dire spessissimo *-*
Disclaimer: Non mio. Però, ora che
ricominciano a succedere cose interessanti, la cosa non mi dispiace troppo.
. C h a p t e r 2 .
~~~
“A nessuno piace la solitudine.
Ma non mi faccio in quattro per fare amicizia. Così evito un po' di delusioni.”
( H a r u k i
M u r a k a m i )
~~~
Seppur la voce avesse parlato
pressoché in un sussurro, sobbalzai così violentemente da perdere quasi
l’equilibrio da un lato – ed è piuttosto difficile che ciò accada quando si è
seduti per terra con le gambe incrociate.
Tirandomi giù il cappuccio della
felpa con uno strattone, mi voltai bruscamente da un lato, pronto ad inchiodare
con uno sguardo omicida l’invasore della mia privacy mentale, ma quello che
vidi mi fece morire le parole in bocca.
Dietro di me stava in piedi, con
le mani infilate nelle tasche di stretti jeans neri, un ragazzo alto,
probabilmente del terzo o del quarto anno, avvolto in una pesante felpa verde
militare, con al collo una lunga sciarpa arancione che presentava la
consunzione del tempo nei suoi orli sfilacciati e i piccoli buchi malamente
rattoppati con delle cuciture sbilenche. Aveva una carnagione rosata e ribelli
capelli ramati tenuti su da una spessa bandana nera con sottili ricami verdi,
che causava ad alcuni ciuffi di ricadere all’ingiù in pieghe innaturali.
Ma la cosa che in assoluto
colpiva di più era la benda nera che copriva l’occhio destro, mentre lasciava
visibile quello sinistro, di un vibrante verde smeraldo. Non ricordavo di aver
mai visto degli occhi di un verde così intenso.
Con qualche piccolo accessorio
aggiuntivo e una felpa diversa, sarebbe potuto passare per un pirata –
vagamente pensai che se mai avessi avuto bisogno di dargli un soprannome,
‘pirata’ sarebbe stato perfetto.
Trattenni una risata al pensiero,
non volendo essere maleducato, ma quella morì subito spontaneamente quando,
uscendo dalla mia bolla di immaginazione, notai lo sguardo strano che mi
indirizzava, le sopracciglia aggrottate e l’occhio leggermente sgranato che
cercava qualcosa sulla mia faccia, rapito.
Il ragazzo si inginocchiò fino a
raggiungere la mia altezza e continuò a fissarmi con espressione innegabilmente
incuriosita.
Inarcai un sopracciglio,
fissandolo di rimando con perplessità. Non riuscivo a staccare gli occhi da
quel suo aspetto così asimmetrico. Non feci troppo caso a quei pochi, strani
attimi di silenzio che vibrarono di curiosità tra di noi.
“Beh, dimmi se questo non è interessante…” commentò il rosso, con fare pensieroso, e in
quel momento realizzai l’ovvio.
Mi portai in fretta una mano alla
fronte, smuovendo un po’ la frangia di ciuffi bianchi in modo che almeno il
pentacolo fosse coperto. E allora, con irritazione crescente, notai che il
ragazzo guardava curioso anche le mie mani guantate. Mi chiesi, con un po’
troppo astio, com’è che non avesse un minimo di decenza nel nascondere la sua
curiosità morbosa.
Con uno scatto, il ragazzo sembrò
ridestarsi dalla trance in cui era
piombato, e scosse rapidamente la testa.
“Dunque…
cosa stavi facendo?” chiese con una cadenza lievemente canzonatoria.
Aggrottai le sopracciglia, pronto
a rispondergli in modo tagliente – era così strano sedersi in un corridoio? –
perché c’era qualcosa in questo ragazzo che mi irritava nel profondo. Aprii la
bocca, ma dopo qualche secondo la richiusi con uno schiocco. Effettivamente non
sapevo come rispondergli – cosa stavo
facendo?
Il ragazzo parve intuire la mia
stessa confusione dalla mancanza di una risposta, e sulle sue labbra si distese
un sorriso sghembo che chiaramente diceva ‘non
penso che tu abbia la mente a posto’, e una voglia improvvisa di levarglielo dalla
faccia a suon di pugni mi colse.
A mia discolpa, posso dire che di
solito non ero così violento. Anzi, non ero proprio violento in generale.
“Stavo…
riflettendo,” tirai fuori a forza, sulla difensiva. Non la migliore scusa che
avessi mai inventato. Il sorriso di scherno non fece altro che allargarsi.
“Stavi riflettendo. Seduto nel
corridoio,” riassunse brillantemente il ragazzo, senza smettere di fissarmi
come se fossi stupido.
Si lasciò sfuggire una sorta di
sbuffo, che era in realtà una palese risata di scherno. Gli lanciai un’occhiata
cattiva.
“E cosa staresti facendo tu,” gli
chiesi in tono di sfida, incrociando le braccia, “inginocchiato in mezzo a un
corridoio?”
‘Oddio, grandioso’, pensai. Prima ora del primo giorno di scuola e
mi mettevo a discutere con qualcuno che neanche conoscevo – ma che scusa
avrebbe trovato lui che suonasse più intelligente della mia? Hah.
“Beh,” iniziò il ragazzo, che
sembrava un po’ sorpreso, “stavo bigiando la prima ora e mi stavo dirigendo in
biblioteca. Ma poi ho visto un tizio seduto in mezzo al corridoio e mi sono
chiesto ‘perché c’è un ragazzo seduto nel corridoio?’ e ho pensato di
chiederglielo. Questo mi ha condotto alla posizione attuale, in mezzo al
corridoio. Sei il nuovo studente vero?”
…wow. Ero quasi sicuro che avesse detto l’intera frase
senza prendere il respiro.
Lo fissai per qualche secondo,
stupidamente colpito dal fatto che la sua scusa era molto più logica. Poi
realizzai che mi aveva posto una domanda.
“Sì,” lo guardai spiazzato, “Come
fai a…”
“Me l’ha detto Lenalee, alla quale l’ha detto Rou
Fa, che l’ha saputo da Komui, che l’ha confermato a Lenalee e me, ma tu non conosci nessuno di loro quindi non
so perché te lo stia dicendo. E anche perché, per quanto ti possa interessare
saperlo, ho una buona memoria fotografica e, seppure non voglia dire di
ricordare a memoria ogni singola faccia dell’istituto, sono sicuro che in due
mesi di scuola avrei notato uno come te.”
…Questo ragazzo parlava a monologhi. Ma
tale realizzazione non mi distrasse dalle sue ultime parole, e automaticamente
portai di nuovo una mano alla frangia. E quello che trovai davvero fastidioso
in quel momento era il modo in cui quell’occhio smeraldo sembrava assorbire con
un anomalo interesse ogni mio minimo movimento. A forza, rimisi giù la mano.
“Non stavi…
andando in biblioteca?” mi stupii della mia stessa sfacciataggine. Ma questo ragazzo…
Suddetto ragazzo sbuffò
divertito; sembrava che gli insulti, impliciti o espliciti che fossero, gli
scivolassero addosso come pioggia su un impermeabile. Mi ricordava qualcuno. Un
qualcuno dai capelli altrettanto rossi e l’alito perennemente odorante di rhum
o vodka.
“Sì, stavo andando. Ma
seriamente,” mi squadrò velocemente, come se stesse cercando di arrivare alla
soluzione di un enigma, “cosa ci fai qui? Stavi saltando la prima ora in modo creativo… o, non so, ti sei perso?” disse l’ultima parte
come se la trovasse improbabile. Respirai lentamente.
“Potrei, e dico, potrei,” ammisi titubante, “aver perso
l’orientamento.”
Il ragazzo mi diede un’occhiata
significativa. “Cosa sei, una di quelle persone che non riesce a trovare la
camera da letto nella propria casa?”
“No!” sbottai offeso, a voce
abbastanza alta da farmi ricordare che eravamo circondati da classi nel pieno delle
loro lezioni. “No,” ripresi a voce più bassa, “questa scuola è solo
schifosamente enorme! Cos’è, una base militare?”
“Ahah,
mi dispiace,” lo sguardo del ragazzo si perse nel vuoto oltre le mie spalle,
mentre giocherellava distrattamente con l’orecchino ad anello argentato che
vidi solo allora, “non mi ricordo cosa si prova a non conoscere questa scuola
centimetro per centimetro. È una sorta di relazione Weasley-Hogwarts,
non so se mi spiego.”
Sorrisi spontaneamente al
riferimento letterario, “Sì, ti spieghi.”
Quando l’occhio del ragazzo tornò
su di me, quasi mi pentii di aver parlato. Ritornai ad aggrottare le
sopracciglia – mi sentivo così un bambino ogni tanto.
“Dunque,” il ragazzo mi mostrò di
nuovo il suo sorriso sghembo, “cos’hai in programma di fare: passare tutta
l’ora qui o sfruttare l’occasione per fare un giro turistico della scuola?”
Mi sentivo un po’ combattuto. Da
un lato, non avevo esattamente voglia di restare lì per sempre, dall’altro non
ero sicuro che i miei nervi potessero sopportare la presenza di quel ragazzo
ancora per molto. Era decisamente… strano. Non
antipatico, o cattivo. Semplicemente irritante. E disorientante. E curioso.
Ma valutando i pro e i contro
rapidamente, optai per l’accettare l’offerta. In fondo, da un certo punto di
vista, sembrava abbastanza cortese.
Sospirai pesantemente – non
volevo dare l’impressione di morire dalla voglia di muovermi e ritrovare la mia
strada così tanto – e mi alzai senza fretta, stiracchiandomi gambe e braccia, e
raccogliendo lentamente il mio zaino. Il ragazzo mi imitò.
Appena fummo in piedi l’uno di
fianco all’altro, mi resi pienamente conto, con una stretta al cuore, della
differenza in altezza che ci divideva. A malapena la mia testa arrivava alla
sua spalla. Con dispiacere, vidi l’espressione stupita racchiusa nel suo unico
occhio.
“Wow,” annunciò, con un che di
gravoso e solenne, “sei basso.” E
sottolineò con molta forza la parola ‘basso’.
Sentii distintamente il suono di
un ringhio nell’aria, prima di accorgermi di averlo emesso io.
“La sai una cosa?” gli mostrai un
sorriso orrendamente falso e mi voltai, cominciando a riabbassarmi verso terra
e mollando lo zaino, “penso che starò ancora un po’ qui, seduto, a…”
“Riflettere?” suggerì il rosso.
Stavo davvero iniziando ad odiare quel suo modo di fare e il suo continuo
essere divertito.
“Esatto, riflettere!” Mio dio,
quel ragazzo sapeva essere così, così…!
“Ma perché! Cos’è, ho colpito un
tasto dolente?” Non sopportavo il modo in cui la sua voce era falsamente intrisa
di dispiacere mentre il sorriso stampato sulla sua faccia diceva tutt’altro.
“Ma ho solo constatato l’ovvio!”
Mi rialzai di scatto come una
molla, e lo guardai torvo. “Io ho il diritto di essere basso!” esclamai
infervorato – e ero vagamente consapevole di stare dicendo una cavolata, ma me
ne fregai – “ho quindici anni! I ragazzi di quindici anni non sono così alti di
solito! E tu cos’è hai, diciassette anni? Aspetta che io abbia diciassette
anni! Sarò alto un chilometro più di te!”
Il ragazzo si avvicinò a me, e mi
diede un colpetto incoraggiante sulla spalla. Mi trattenni dal prenderla a
morsi.
“Su, ragazzo, non demoralizzarti
troppo. C’è di peggio, sai, conosco persone più basse di te. Prendi mio cugino,
sarà alto sì e no un metro e quaranta…. È anche vero
che ha dieci anni, ma…”
Inaspettatamente mi salì una
risata, che tentai di soffocare in uno sbuffo, ma fu un tentativo piuttosto
scialbo. Di scatto mi portai una mano alla bocca. Il rosso mi guardò sorpreso.
“Non dovevi ridere! Si supponeva
che tu, boh, ti arrabbiassi!” mi accusò. Non capivo se stesse solo constatando
un’indubbia verità o se fosse deluso.
“Non avevo assolutamente
intenzione di ridere!” gli sibilai contro. “Non faceva neanche ridere! Giuro
che stavo per insultarti!”
“Ma hai riso!” esclamò il ragazzo
puntandomi un dito contro.
“Non volevo!”
“Allora perché hai riso? Mi stavo
già preparando a schivare qualche attacco! Tutta quella tensione per nulla!”
“Questa conversazione non ha
senso,” sbottai scocciato.
L’altro annuì, piuttosto tranquillo.
“No, non molto.”
Sbuffai di nuovo.
Il rosso mi guardava a bocca
aperta con la faccia scolpita in una smorfia di incomprensione. Lentamente, si
passò una mano tra i capelli.
“Oddio, ma tu sei sempre così… bipolare? Per non dire mestruato?” mi chiese con
espressione meravigliata, come se trovasse curiosa anche solo la parola
‘bipolare’. E il secondo successivo avrei tentato di soffocarlo o almeno
rispondergli con un secco ‘no’ se, indietreggiando di qualche passo, il ragazzo
non fosse inciampato nel mio zaino che si era misteriosamente materializzato
dietro di lui, cadendo rovinosamente sul suo sedere.
Non riuscivo a smettere di
ridere. Il rosso si rialzò da solo faticosamente da terra, lanciandomi qualche
occhiata un po’ irritata.
“Non è molto cortese da parte tua
– in fondo è colpa tua, lo zaino era tuo,” constatò con finto tono acido –
difatti stava stranamente sorridendo.
Finalmente mi calmai, e respirai
per riprendere fiato. “Io non penso. Sei tu che dovresti stare attento a dove
metti i piedi. O forse era solo karma negativo. Lo sai,” ghignai sadicamente,
“nessuna data di scadenza.”
“Per cosa, per averti dato della
persona ‘bassa’?”
“Sì, probabilmente sì.” Gli
sorrisi con finta dolcezza.
Il ragazzo ridacchiò, poi
all’improvviso fece una smorfia strana. “Che stupido,” affermò con insolita
decisione, “non mi sono neanche presentato. Mi chiamo Lavi, Lavi Bookman. Diciassettenne americano di origini etniche
sconosciute. Mi piace il cioccolato.”
Ridacchiai sorpreso, “Strano
nome. Ma soprattutto, che tipo di cioccolato?”
Lavi – che rivaleggiava con
‘pirata’ per esotismo – sbuffò sonoramente, “Lo so. Significa ‘leone’ in
ebraico. Non ho mai scoperto cosa si erano fumati i miei prima di sceglierlo.
E, totalmente il fondente.”
“Io Allen. Allen Walker. Quattordicenne americano di indubbie origini
inglesi. Mi piace qualsiasi cosa, basta che sia commestibile. Mi piace
mangiare, in generale. Mangio molto.”
Lavi si portò una mano al mento e
con fare pensieroso commentò: “Effettivamente suona molto inglese. Mi piace.
Allen. Ma dubito che tu mangi quanto mangio io durante un solo pasto.”
“Eeeh,
rimarresti stupito…” risposi vagamente, grattandomi
imbarazzato la guancia. Lanciai frettolosamente un’occhiata intorno, come se mi
aspettassi di trovare un orologio esattamente su uno dei muri circostanti, “Allora… quel giro turistico gratuito?”
Di nuovo quel sorriso sghembo. “Non
posso credere di aver davvero detto ‘gratuito’.”
oOoOoOoOoOo
Mi sembrava stessimo camminando da
ore, invece probabilmente non era passata neanche mezz’ora. Forse era dovuto al
fatto che Lavi aveva la capacità di parlare a una velocità al di fuori dal
comune, ed era riuscito a raccontarmi nel giro di mezz’ora la storia
dell’intera scuola, pettegolezzi, dicerie e vere e proprio leggende
scolastiche, che mi narrava con la passione di un archeologo che ricorda le sue
scoperte negli scavi. Avevamo fatto il giro della scuola, esplorato ogni suo
angolo, dalla biblioteca – che per ironia della sorte avevo scoperto occupare
tutto il piano superiore a quello in cui mi ero fermato io – all’aula di
informatica, di lingue, di cucina.
Ma la cosa più strana in assoluto
era che trovavo quel che diceva interessante. Aveva un modo di coinvolgere
tutto suo, e anche mentre raccontava dei pettegolezzi più improbabili – tra cui
l’ipotesi, a suo dire fondata, che il professore di Storia fosse in realtà un
vampiro – non potevo fare a meno di ascoltarlo rapito, anche se cercavo di non
darlo troppo a vedere. Trovavo invidiabile il modo in cui appariva così
affezionato a quell’edificio, a quella scuola, in un modo in cui io non sarei
mai potuto esserlo.
“…E
avresti dovuto vedere la sua faccia, quando ha visto l’incisione che aveva
lasciato Yuu con la sua katana….
Quella volta Yuu ha rischiato grosso, ma io gli feci
brillantemente notare che non aveva alcuna prova e non si poteva espellere uno
studente solo basandosi su supposizioni… Ha aiutato
molto il fatto che Lvellie sia sempre molto restio
nell’allontanare dei campioni, dato che la sua aspirazione massima è quella di
trasformare la scuola in una sorta di ricettacolo di future celebrità. Sì,
quello è stato un giorno memorabile…”
C’erano dei nomi che comparivano
più spesso del solito. Lavi ne parlava come se li conoscessi da sempre anche
io, e non gli feci notare che non avevo la minima idea di chi fossero. Anche
se, dopo tutte quelle storie mi ero fatto un’idea.
Prima di tutto c’era Yuu, che sembrava essere il suo migliore amico. Da quel che
avevo capito, era un tipo piuttosto violento – se era vero il numero di volte,
dettomi da Lavi, in cui Yuu aveva cercato di
menomarlo in un modo o nell’altro – e inoltre una sorta di campione nell’uso
della katana, una tipica spada giapponese. E se non avevo capito male, doveva
avere i capelli un po’ più lunghi della media.
Poi c’era Lenalee,
che al contrario mi pareva la classica ragazza calma e gentile con tutti, e per
di più molto carina – anche se non avevo capito bene i continui accenni a un
fratello iperprotettivo…
E poi altri nomi, su altri nomi,
che si perdevano nell’infinità di aneddoti raccontati.
“…E, oddio, quasi non ricordavo questa maniglia. Vedi
che è semi-eradicata? Beh, c’è una storia piuttosto
buffa dietro, che vede coinvolti un’avvenente ragazza di nome Emilia e un
giovincello scapestrato intrufolatosi abusivamente nella scuola…
ehi, Allen, mi sta ascoltando?”
Mi voltai verso di lui, che
indossava la sua tipica espressione incuriosita. Scossi la testa, “Sì, stavo
solo pensando…”
Lavi mi lanciò un’occhiata tra
l’esasperato e il divertito – un’accoppiata peculiare. “Sei strano.”
“‘Disse il pirata’,” borbottai
esasperato.
Lavi rise di gusto. “Un pirata?
Non è male. Poco originale, ma suona bene. Si dà il caso che in questa scuola
io abbia anche il mio covo personale – al quale però non hai il permesso di
accedere, per il momento—”
Mi voltai a guardarlo: Lavi aveva
rallentato bruscamente il suo passo e aveva un’espressione di assoluto stupore
dipinta sulla faccia. Quando non diede cenno di voler ricominciare a parlare, quasi mi preoccupai.
“Lavi? C’è qualcosa che non va?”
E l’attimo dopo il ragazzo scosse
la testa, e mi sorrise. Sospirando, si passò una mano tra i capelli, spostando
un po’ la bandana – avevo notato che lo faceva piuttosto spesso. “Ma comunque,
è vero che sei strano.” Continuò, come se nulla fosse. “Per tutto il tempo hai
continuato a distrarti e immergerti nel tuo piccolo mondo personale…
a un certo punto ho dovuto afferrarti perché rischiavi di cadere dalle scale, e
non te ne sei neanche accorto!”
Tentai di non mostrare la mia
perplessità. “Ma stavo semplicemente…” mi fermai, nel
tentativo di trovare le parole giuste, “immaginando le scene di cui mi parlavi.
Ero or ora preso dalla comparsa immaginaria di quel giovincello scapestrato…” indicai con un dito un punto vago verso la
porta della maniglia rotta. Lavi seguì il mio dito, e scosse la testa.
“Va beene, ma ora esci dal tuo mondo
dei sogni e stai attento, perché quello che stai per vedere,” inserì una pausa
ad effetto, alzando le mani in segno di preghiera, “è l’ultima meraviglia della
scuola.”
Le meraviglie della scuola,
secondo Lavi la guida turistica, erano cinque.
La prima era la biblioteca, non
solo per il semplice fatto che fosse una biblioteca, che secondo Lavi sarebbe
stato sufficiente, ma anche perché casualmente si trattava anche di una delle
biblioteche scolastiche più fornite dello Stato – avevo scoperto così che Lavi
era un topo di biblioteca, o almeno così si era definito lui. La cosa mi aveva
sorpreso non poco, anche se non capivo perché. Quando tentavo di etichettare
Lavi secondo un qualche stereotipo da High School,
scoprivo di non riuscirci.
La seconda era la gigantesca
quercia che si trovava su un lato del cortile interno della scuola, che Lavi mi
mostrò da una finestra. Nel complesso, tutto il cortile era chiaramente tenuto
bene, nonostante ormai molte delle piante avessero cominciato a ingiallirsi e
perdere foglie.
La terza e la quarta meraviglia
erano la stanza del Club di Giornalismo e l’aula di Esposizione dei club
artistici. Della terza Lavi sembrava adorare l’enorme quantità di informazioni
sulla scuola e la città che la piccola
stanza conteneva racchiusa in scaffali, plichi e cataste di fogli. Entrato
nell’aula lo sorpresi più volte a sorridere al vuoto, con un’aria così
stupidamente amorevole che mi fece venire voglia di punzecchiarlo.
Della quarta Lavi non amava
tutto. Nonostante la stanza fosse, a mio parere, piena di piccole opere d’arte,
dalle piccole anfore in argilla perfettamente decorate con ornamenti floreali e
arabeggianti ai dipinti di paesaggi verdeggianti pieni di colori vivaci, Lavi
prestò attenzione a pochi di quei lavori. Mi fece vedere le tavole di una certa
Emilia, su cui era disegnata, con un’abilità stupefacente, sempre la stessa
bella ragazza che indossava ogni volta dei vestiti differenti, variopinti e
originali, e un altro foglio su cui era ritratto realisticamente il volto di un
ragazzo dalle fattezze asiatiche, dallo sguardo severo e i lisci capelli
corvini. Mi mostrò un vaso dalla forma raffinata ricoperto di disegni di
persone colte durante azioni quotidiane – tra quelle spiccava una figura dai
capelli ramati e una sospetta benda sull’occhio che sembrava china su un grosso
libro, e non mi sorprese più di tanto leggere il nome ‘Lenalee’
sul tavolino che reggeva il vaso. E infine Lavi mi indicò alcune delle sue foto
preferite nella sezione apposita.
‘La fotografia è un’arte speciale,’ aveva detto Lavi, ‘riesce a cogliere e catturare su un pezzo di
carta attimi, espressioni, sfaccettature della verità così fugaci che spesso
anche all’occhio più allenato sfuggono. Rende possibile contemplare quelle
microespressioni a cui non si riesce sempre a far caso ma che, se si potessero
vedere con la stessa facilità di quanto si nota il divertimento in una risata,
sarebbe così semplice comprendere… ah, Allen, non
ascoltarmi.’
Non avevo commentato, ma il
perché tutte quelle fossero le ‘meraviglie’ della scuola non mi era difficile
capirlo.
Ma ora mi ritrovavo davanti
all’ultima meraviglia: la grigia, poco interessante porta di quello che doveva
essere il bagno maschile del terzo piano del lotto C. O era il secondo piano? O
il quarto… comunque.
Quello che non capivo, a
prescindere dal piano su cui fossimo, era cosa ci potesse essere di tanto
speciale in un bagno per maschi.
“Cosa c’è di tanto speciale in un
bagno per maschi,” chiesi difatti in tono piatto.
Lavi sospirò teatralmente e si
portò il dorso di una mano alla fronte in segno di tragicità, “Allen, Allen… non hai ancora capito che in questa scuola non ci si
può fermare alle apparenze?” Si allungò in avanti e afferrò la maniglia
scardinata, tirandola a sé. “Qui dentro, Allen, si nasconde il luogo più
magnifico di tutti… l’oracolo di Delo.”
Ormai per metà all’interno del
bagno, lo seguii rassegnato.
Era un semplice bagno, pavimentato
di piastrelle blu e dalle pareti bianche a cui erano attaccati alcuni lavandini
e una serie di orinatoi, sul lato opposto alla fila di cabine chiuse.
“Allora, la leggenda dice…”
“Ma che ore sono? Tra poco non
finisce l’ora?” lo interruppi, buttando il mio zaino in un angolo.
“Non m’importa, la leggenda dice che alcuni anni fa, uno
studente disperato cercò rifugio in una delle cabine di questo bagno, che si
sa, è poco frequentato dato che la maggior parte delle classi di questo piano
sono dedicate ai club pomeridiani. Si dice che fosse in preda a una crisi
esistenziale dovuta a pressioni familiari e scolastiche. Sta di fatto che si
rinchiuse in questa cabina, proprio questa,” e indicò una l’ultima cabina della
breve fila all’interno del bagno, “e ci rimase per il resto della giornata. E
quando ne uscì… aveva trovato tutte le risposte di
cui aveva bisogno.”
Lavi si fermò davanti alla porta
della cabina, su cui era affisso con dello scotch un foglio bianco e sgualcito
con su stampato in maiuscolo la parola ‘guasto’.
Avevo ormai capito dove la storia
voleva andare a parare. “E questo non potrebbe essere perché è rimasto in bagno
a pensare per tutto il giorno?”
“Non essere scettico, Allen! E la
storia non è ancora finita! Sono stati riportati altri due episodi a conferma
della storia.”
Lo vidi frugare nelle sue tasche,
e qualche secondo dopo tirare fuori una moneta di cinque centesimi. Mentre la
inseriva nella stretta fessura sotto la maniglia che segnava il colore rosso,
‘occupato’, riprese a parlare.
“La seconda fu una ragazza di
prima, a cui piaceva un ragazzo di seconda che aveva conosciuto grazie ad un
amico. Ma questo ragazzo era parecchio freddo e distaccato. Nonostante alcune
ragazze gli si fossero dichiarate, lui aveva sempre rifiutato tutte loro, non
degnandole neanche di una parola. E a questa ragazzina lui piaceva, davvero, ma
ella non aveva il coraggio di dichiararsi, sicura che lui l’avrebbe rifiutata
senza neanche prenderla in considerazione. Scoraggiata, venne qua per stare un
po’ da sola dopo una giornata particolarmente difficile e, indovina? A un certo
punto trova il coraggio di confessarsi. Corre fuori dal bagno a una velocità
sorprendente e trova subito l’oggetto dei suoi desideri che cammina per il
corridoio del secondo piano. Gli si para davanti e gli confessa il suo amore,
così, su due piedi.”
“Non c’è neanche da dire che il
ragazzo era sconvolto. Sia perché era un tipo chiuso e non sapeva come gestire
una dichiarazione in pubblico, sia perché come si scoprì dopo, lui stesso era
stato innamorato della ragazza a lungo, solo che era sempre stato certo che lei
non ricambiasse. Così si misero insieme e vissero sempre felici e contenti. O
così narra la storia.”
La serratura del bagno scattò su
‘aperto’ con un sonoro clack.
Lavi rimise via la moneta ma non aprì la porta.
Era di sicuro una storia
romantica, un po’ cliché, ma romantica. “Okay,” ridacchiai, “di cosa parla il
terzo episodio?”
Lavi mi sorrise raggiante, compiaciuto di aver
suscitato il mio interesse.
“Il terzo e ultimo episodio ha
come protagonista di nuovo un ragazzo, uno piuttosto silenzioso e che stava
vivendo una situazione familiare un po’critica. Aveva infatti appena scoperto
che suo padre tradiva sua madre con un’altra donna, che tra l’altro lui odiava
già prima della scoperta. Era un tipo piuttosto orgoglioso, che non amava
parlare dei suoi problemi con gli amici, perché non voleva sembrare debole per
alcun motivo. In questo caso, in più, si vergognava profondamente del padre, e
quindi per alcuni giorni si tenne tutto dentro, indeciso tra il tenere il
segreto per sempre con sé o dirlo alla madre. I suoi amici capendo che aveva
qualcosa che non andava, ma incapaci di capire cosa esattamente, gli
raccontarono, nella speranza di tirargli su il morale, delle voci che giravano
su questo bagno e gli consigliarono, in parte scherzando, di provare a scoprire
se davvero il bagno aveva quel potere. Ovviamente il ragazzo li ignorò, non
credendo a una parola di quello che aveva sentito – a ragione, oserei dire. Ma
qualche giorno dopo, nonostante avesse minacciato il padre di non tradire più,
lo ritrovò ancora con l’amante.”
Lavi si interruppe. Stava
guardando con occhi vacui un punto della porta, immerso nei suoi pensieri, “C’è
da dire che il padre non era molto intelligente,” disse in un sospiro. “Ma
comunque,” e nei suoi occhi si riaccese la fiamma della passione del
cantastorie, “quel giorno il ragazzo venne a scuola, straincazzato
e con una gran voglia di distruggere qualcosa o qualcuno.”
“Oddio, ha picchiato qualcuno a
sangue?” intervenni, scioccato all’idea.
“Nah,”
Lavi scrollò le spalle con indifferenza, “fortunatamente andò a prendere una
mazza da baseball in palestra e venne proprio qui. Entrò in questa cabina e
prese a mazzate il tubo del condotto.” Alzò una mano all’altezza della faccia e
appiattendo le dita, la mosse in orizzontale come se stesse lisciando qualcosa,
“Si dice che il suo ringhio a ritmo di ‘non crederò mai a qualcosa di così
stupido’ risuonò per dieci giorni nei corridoi della scuola.”
Ridacchiai e incrociai le
braccia. “Sì, va bene, e quindi? Ha sfondato il bagno e se n’è andato?” chiesi
con un sorriso sardonico.
Lavi mi lanciò un’occhiata di
finta sufficienza e alzò un dito con fare lezioso. “No, il meglio deve ancora
arrivare. Dopo aver distrutto le tubature, il ragazzo rimase nel bagno, seduto
a pensare. Un’ora dopo, uscì dal bagno con una sicurezza che mai aveva
posseduto. Quella sera disse a sua madre della tresca amorosa del marito, e con
suo immenso piacere sua madre gli rivolse queste parole ‘era da un sacco che cercavo
una scusa per buttarlo fuori!’ Tutto si risolse quindi per il meglio. Il padre
venne buttato fuori, la madre ottenne il divorzio e lei e il figlio vissero
sempre felici e contenti, con gran parte del conto bancario intatto. Circa,”
Lavi si grattò la testa, imbarazzato, “la leggenda non tramanda cosa successe
dopo.”
“Beh, sono felice per lui,”
commentai. Solo uno come Lavi poteva mostrare così tanto interesse per una
leggenda così campata per aria. Dubitavo che le varie storie fossero vere, e se
Lavi se le stava inventando sul momento, beh. Aveva un talento innato per la
recitazione e l’immaginazione. “Apriamo la porta adesso?”
Annuì, sorridendomi con quel
ghigno sghembo. Spinse la maniglia verso il basso e, lentamente, aprì la porta.
Di certo quello che vidi non era
esattamente ciò che mi ero aspettato. La cabina era un piccolo cubicolo a
pianta rettangolare, più lungo che largo, fatto di muri di piastrelle bianche.
Attaccato al muro opposto alla porta vi era un water bianco collegato a una
serie di tubi che salivano lungo il muro, tutti prevedibilmente ammaccati,
proprio come se qualcuno li avesse presi a bastonate. La cassa dello sciacquone
aveva il coperchio disintegrato, come lo era anche la tavoletta. Ma su tutta la
superficie delle ridotte pareti, vi era un immenso numero di scritte elaborate,
tutte con calligrafie diverse, con colori diversi, ogni tanto affiancate da
minuti disegni abbozzati o faccine stilizzate. Entrando nel cubicolo, feci un
giro su me stesso, cogliendo l’occasione per leggerne qualcuna. Erano frasi
completamente diverse tra loro, alcune incoraggianti, alcune imperiose, altre
che esprimevano semplici consigli.
“Si racconta ch i primi che
fecero la scoperta del bagno lasciarono una scritta in omaggio sulle pareti, in
ricordo,” arrivò da dietro di me la voce di Lavi, “e che questa usanza sia
stata rispettata da tutti gli studenti che li seguirono e trovarono lì delle
risposte. Ogni frase lasciata può essere un consiglio per il prossimo.” Lo
sentii ridere, “Ora che di scritte ce ne sono così tante però, ho sentito dire
che alcuni si limitano a girare su se stessi ad occhi chiusi e puntare il dito
verso una risposta. Mi verrebbe da dire che così ha perso un po’ il suo scopo…”
Mentre lo ascoltavo, avevo notato
una scritta strana, piccola e nera, fatta con dei caratteri a me sconosciuti,
sotto una che leggeva ‘fottitene’. Mi
chinai per vederla meglio e la indicai a Lavi. “Lavi, cosa vuol dire questa
scritta?”
Lavi si avvicinò e
improvvisamente sorrise. “Quello è giapponese, ed è la prova che le persone
stupide esistono. C’è scritto ‘Apriti’.”
Continuai a guardarla, senza
capire. “Cosa intendi dire?”
“Mi dispiace, Allen, ma questa è
una storiella che non è il caso di raccontare. Anche se ormai credo di averti
comunque raccontato troppo.”
Quando mi girai di nuovo verso di
lui, vidi che il suo occhio stava scrutandomi, attentamente, probabilmente in
cerca di un qualche segno di reazione.
“Beh, cosa ne pensi?” mi chiese
infatti con voce emozionata.
“Penso che tutto questo sia…”
“Affascinante?” suggerì l’altro
senza aspettare, “Commovente? Interessante? Fantastico? Misterioso?”
“Abbastanza stupido,” risposi
senza emozione, e mi sorpresi a godere sadicamente dell’espressione delusa di
Lavi, “preferivo la penultima meraviglia.” Gli sorrisi dolcemente.
“Dai, Allen!” si lamentò alzando
la voce. Quasi mi aspettavo che cominciasse a battere i piedi per terra, “È una
creazione umana dalla storia commovente e dalla chiara morale umanitaria, come
puoi non apprezzare questo spicchio di vita scolastica quotidiana?”
Continuando a gesticolare, entrò
anche lui nel cubicolo – ora decisamente più stretto – e indicò in generale le
pareti. “C’è lo sforzo della vita di ogni giorno di un centinaio di studenti
inciso su questi muri.”
Gli lanciai un’occhiata scettica,
“Come puoi emozionarti tutto per una storia del genere?” Lo superai e uscii
dalla cabina. Sentii i suoi passi che mi seguivano.
“Voglio dire, probabilmente è
solo una storia che sì è inventato qualcuno per divertimento. Si sarà alzato
una mattina con la voglia di sfidare se stesso e la popolazione scolastica e
vedere se era in grado di creare una leggenda,” ipotizzai. “Come può un intero
water essere visto come un oracolo? Da un’intera scuola per di più!”
“Mai sentito parlare della Fontana di Duchamp?”
Ridacchiai sotto i baffi. “Sei
pazzo,” gli confessai con assoluta sincerità.
Lavi sorrise divertito, “E tu sei
strano.”
Sospirai in rassegnazione. “Non
ho mai visto nessuno interessarsi così tanto a un bagno.”
“Magari non è al bagno che sono
interessato,” rispose enigmaticamente Lavi.
Perplesso, lo guardai uscire dal
bagno e richiudere la porta dietro di sé. Proprio mentre stavo aprendo la bocca
per chiedergli cosa intendesse, la campanella della scuola suonò.
“Che scocciatura immensa,”
commentò Lavi stizzito, mentre ritirava fuori dalla tasca dei pantaloni la sua
moneta e ripeteva il procedimento di prima. “Che cos’hai ora?”
Cos’avevo cosa. “Eh?”
Lavi si girò e una volta finito
si allontanò dalla porta. “Che lezione?” Inarcò un sopracciglio davanti alla
mia incomprensione.
“Ah!” esclamai capendo. Seguendo
Lavi fuori dal bagno, raccattai da terra il mio zaino. Lavi mi guardò frugare
al suo interno alla ricerca del foglio che mi avevano dato in segreteria un’ora
prima, e quando lo trovai – quasi subito, dato che lo zaino era praticamente
vuoto – con imbarazzo cercai di nascondere il suo stato di spiegazzamento. Non
ero un granché bravo nel tenere ordinate le cose che non mi interessavano.
Lo spiegai e cercai la casella
corrispondente a quell’ora.
“Chimica 102,” lessi ad alta
voce.
Lavi rimase stupito. “Sei del
secondo anno o sei solo molto portato in chimica?”
“Chimica non è esattamente la mia
materia preferita. Comunque sono del secondo anno.”
Lavi ghignò. “Non l’avrei mai
detto. Sei troppo basso per sembrare uno di seconda.”
“E io penso che tu dia troppa
aria alla tua bocca, Lavi. Sembri così intelligente prima di iniziare a
parlare.”
Il rosso si portò una mano al
cuore, con fare sofferente. “Mi stai ferendo, Allen. Il mio cuore di pirata è
fragile davanti alle tue parole taglienti.”
“Oh, stai zitto.”
Lavi sbuffò. “Ma davvero, a parte
l’altezza, credevo fossi in prima. Non hai detto di avere quattordici anni?”
“Il mio compleanno è il 25 dicembre.”
Compiere gli anni gli ultimi giorni dell’anno era un po’ seccante: la gente
calcolava sempre il mio anno di nascita partendo dal presupposto che avessi già
compiuto gli anni, e ogni volta mi credevano di un anno più giovane. Non era
esattamente l’elemento più tragico della mia vita, ma con il passare del tempo
avevo imparato a trovarlo… seccante, appunto.
“Ah, capisco. È sempre un
problema compiere gli anni dopo l’estate, vero? La gente crede sempre che tu
sia di un anno più giovane.”
Beh, non si era aspettato questo livello di empatia. Un sospetto
affiorò nella mia mente. “E il tuo compleanno?”
“Il 10 agosto. Data non
esageratamente tarda come la tua, ma a sufficienza per creare sporadiche
incomprensioni.” Lavi mi indirizzò un sorriso comprensivo. “Comunque, dovresti
avere Reever.”
Ripiegai il foglio degli orari
fingendo una cura che non gli avevo dato prima e lo ricacciai nello zaino.
Ricordavo un ‘Reever’ nei racconti di Lavi, che se
non sbagliavo era sempre associato a un altro nome, ‘Komui’,
che dopo quello che avevo sentito avevo istintivamente cominciato a temere. “Ed
è una buona cosa?”
Lavi scrollò le spalle, e si
avviò verso le scale in fondo al corridoio. Buttandomi lo zaino in spalla, lo
seguii silenziosamente.
“Direi di sì,” mi rispose dopo un
po’, guardando davanti a sé. “È un bravo professore, gentile e sempre disposto
a dare una seconda possibilità agli studenti.”
Annuii, un po’ rigido. Ora che il
momento di entrare in classe si avvicinava, quell’ansia che mi aveva
perseguitato dall’inizio della mattinata stava riassalendomi. Non sapevo come,
ma Lavi era quasi riuscito in quaranta minuti a farmi dimenticare che ero lì
per fare lo studente.
“Ti accompagno alla tua aula – e
cerca di memorizzare la strada.” Ignorai la sua risatina strafottente per
osservare la marea di gente che, dalla scale, vedevo riversarsi nei corridoi
per dirigersi alle loro lezioni successive.
Il viaggio verso l’aula comportò
l’attraversamento dell’intera scuola, in pratica, e per di più sembrò durare
secoli. Anche se non era possibile: ancora c’erano ragazzi ambulanti nei
corridoi che chiacchieravano e mettevano via i libri nei loro armadietti. Forse
perché percorrendo i vari corridoi, incrociai gli sguardi di molti studenti che
mi fissavano stupiti, probabilmente chiedendosi da dove fossi spuntato fuori,
con i miei capelli bianchi e la mia cicatrice appariscente. Fui tentato dal
rimettermi su il cappuccio, ma non volevo attirare l’attenzione di Lavi, che
però dal bagno di Delo era piombato in un silenzio sospetto. Mentre
camminavamo, continuai a guardarlo con la coda dell’occhio, aspettandomi che
ricominciasse a parlare da un momento all’altro, raccontandomi di un qualche
bidello coi super poteri o un banco diventato un altare sacrificale in tempi
remoti – non sapevo più cos’aspettarmi da lui.
Ma Lavi non parlò, e mantenne per
tutto il tempo uno sguardo assente diretto avanti a sé. Mi chiedevo come
facesse ad orientarsi con quel livello di concentrazione sui suoi dintorni –
l’avessi fatto io, sarei potuto finire in un altro Stato.
“Eccoci arrivati,” disse Lavi
all’improvviso di fianco a me.
Alzai la testa e notai che
eravamo all’estremità di un corridoio pieno di gente e armadietti, identico a
tutti quelli che avevo visto finora. Con mio rammarico, mi resi conto che
ancora una volta non avevo idea di dove fossimo, impegnato come ero stato per
l’intero viaggio a evitare le occhiate della gente e a chiedermi perché Lavi
non parlasse. Stupido Lavi. Anche quando stava zitto causava problemi.
“Siamo al secondo piano del lotto
B,” continuò dandomi un sorriso d’intesa. Fissai un attimo la porta blu davanti
a noi, dalla cui finestrella potevo vedere un uomo di mezza età, dai folti
capelli biondi che sembravano quasi stare ritti verso l’alto, e una barbetta
incolta sul mento. Indossava un camice da laboratorio ed era seduto sulla sua
sedia dietro la cattedra piena di fialette, becker e
fornellini, intento a sfogliare un giornale.
Sentii distintamente un’ondata di
panico invadermi il corpo. ‘Ma che
diavolo, Allen, non sei mai stato così codardo in passato’, mi insultai
liberamente a mente. Cercai di convincere il mio corpo ad alzare un mano per
afferrare la maniglia, ma qualcosa mi bloccava.
All’improvviso, una mano calò
sulle mie spalle. Voltai di scatto la testa e vidi Lavi che mi osservava con
un’espressione che temevo essere compassione. Odiavo la compassione.
“Lo sai che non ti morde, vero?”
mi prese in giro, ridendo sommessamente.
Alzai gli occhi al cielo, e mi
scrollai di dosso la sua mano.
“Grazie, Lavi, mi hai chiarito un
dubbio esistenziale,” lo informai pieno di sarcasmo.
Lavi sfoderò un ampio sorriso che
ormai avevo imparato a temere, “Di niente, tappo.” E mi diede un colpetto sulla
testa.
Lo guardai più torvo che potei,
cercando di trasmettergli visivamente tutto il mio disprezzo e sottraendomi in
un attimo alla sua mano, e con uno scatto aprii infuriato la porta della classe
e mi ci fiondai oltre, chiudendomela alle spalle con un colpo secco e
appoggiandoci contro la schiena.
Una volta dentro – dopo i primi
secondi di magra soddisfazione per essermi allontanato da Lavi senza salutarlo
– mi resi conto che avrei potuto evitare un’entrata del genere: il professore e
gli altri studenti già presenti mi stavano fissando, alcuni con gli occhi
sgranati e altri curiosi.
Odiavo Lavi – c’erano parecchie
cose che odiavo quel giorno.
Sentii le mie guance diventare
più calde, e in cuor mio sperai di non essere diventato paonazzo. Mi staccai
dalla porta e mi avvicinai al professore, che aveva completamente perso
interesse nel suo giornale.
“E tu chi saresti?” mi chiese
educato.
“Allen Walker,”
risposi, ignorando un paio di occhi sgranati in prima fila dietro due spesse
lenti rotonde che mi osservavano senza pudore, “Sono, ehm, il nuovo studente…?”
Il professore aprì la bocca in
una ‘o’ perfetta e si batté una mano sulla fronte, “Oh! Già, mi avevano
avvisato del tuo arrivo, me n’ero dimenticato. Io sono Reever
Wenham, il tuo professore di Chimica.”
Mi sorrise gentilmente, e indicò
con una mano il gruppo di banchi davanti a lui. “Puoi sederti dove vuoi… Walker, giusto? Hai già i
tuoi libri di scuola?”
Annuii, incerto. “Sì, ma oggi ne
sono sprovvisto,” precisai imbarazzato.
Il professore scrollò le spalle,
“Non importa, vai pure a sederti. Puoi guardare da quello di un tuo compagno nel
caso. Ehi, voi, muovetevi ad entrare, la lezione comincia!”
Effettivamente dietro di me altri
studenti erano entrati in classe e stavano avvicinandosi ai loro tavoli.
Ignorandoli, mi diressi frettolosamente verso uno dei tavoli da tre vuoti a
fondo classe e mi accasciai sul primo sgabello che incontrai. Mollai lo zaino a
terra non prima di aver tirato fuori quel poco che c’era dentro, un quaderno
nuovo e un lungo astuccio blu.
Proprio mentre prendevo in mano
la penna, il professore si voltò verso la lavagna dopo il breve appello e
cominciò a scrivere con il gessetto alcune formule chimiche, di cui spiegò il
significato. Ma quando alzai la testa dal foglio pronto a copiare, notai una
presenza accanto a me che mi fissava da dietro un paio di lenti rotonde, gli
stessi grandi occhi nocciola che ero quasi sicuro di aver visto in primo banco
poco prima.
“Ehm…
posso aiutarti?” chiesi a bassa voce, impacciato, alla ragazza davanti a me.
Era abbastanza carina: era minuta, più bassa di me – grazie al cielo – e aveva,
incorniciato da una chioma di crespi capelli castano scuro raccolti in due
lunghe trecce voluminose che cadevano sul petto, un viso tondo che sembrava
sempre un po’ sorpreso date le sopracciglia alte e inarcate e gli occhi che di
natura sembravano costantemente un po’ sgranati, dietro la sottile montatura
dei suoi occhiali rotondi.
La ragazza, inspiegabilmente,
arrossì. “Ah, io… no,” si prese tra le dita la fine
di una treccia e prese a tormentarla, “Volevo sapere se ti serviva aiuto con il
programma di chimica e scienze.” Il suo volto si illuminò, prendendo più
fiducia. “Sono brava sai. Ho preso quasi il massimo dei voti nell’ultimo test.
Quindi se ti serve una mano…” la sua voce si
affievolì e distolse lo sguardo, “posso aiutarti.”
Le sorrisi, pensando che fosse
molto gentile. Effettivamente avevo perso alcune settimane di scuola a causa
del trasferimento, quindi non ero esattamente al passo con il programma – per
questo, ero entrato in classe con la ferma intenzione di prendere appunti senza
tentare di capire. D’altra parte, quel giorno non mi sentivo molto in vena di
stringere amicizie – non che amassi la solitudine, ma spesso trovavo faticoso e
rischioso trovarsi nuovi amici.
La mia mente vagò
inaspettatamente verso Lavi. “Grazie mille, è molto carino da parte tua. Ma non
credo sia il caso di disturbarti tanto per me…”
tentai di rifiutare il più gentilmente possibile.
La ragazza si morse il labbro con
tanta forza che temevo l’avrebbe rotto.
“N-no!
Non è assolutamente un problema! Voglio dire, potremmo f-fermarci anche solo un
pomeriggio in biblioteca, così ti spiego quello che non capisci…”
“Grazie…
ma davvero, penso di potercela fare da solo. Non credo di essere rimasto molto
indietro, infatti.” Contando che nell’altra scuola non avevo studiato quasi
nulla, due mesi di programma non sembravano così
impossibili da recuperare. Anche se si trattava di due mesi di tutte le
materie. O magari sì.
La ragazza, d’altronde, sembrò
demoralizzarsi. “S-scusa, non volevo insinuare che tu
fossi stupido o qualcosa del genere… volevo solo…”
Cercai di non ridere davanti al
suo imbarazzo, che era una cosa parecchio dolce, e cercai di rimediare in
qualche modo. “Non preoccuparti. Anzi, se tu ad esempio…
ehm… potessi prestarmi degli appunti da copiare, te
ne sarei grato.”
La ragazza divenne praticamente
paonazza, e quando stavo per chiederle se si sentiva bene, mi sorrise con una
tale intensità che ebbi paura le si dislocasse la mandibola.
“Assolutamente sì! Ho appunti di
quasi tutte le materie, adoro prendere appunti, e credo siano anche fatti
abbastanza bene, sono sicura che ti saranno utili quando dovrai studiare!”
Le sorrisi gentilmente. “Grazie mille… eh, il tuo nome?” Non riuscivo a ricordarlo
dall’appello, anche se mi sembrava di ricordare fosse un nome particolare.
“Rou
Fa,” sussurrò con aria esageratamente felice la ragazza. Il nome mi suonava
vagamente familiare, ma non capivo il perché. La guardai, un po’ stupito, “Rou Fa? Non è un nome cinese? Eppure non lo sembri
fisicamente.”
Rou Fa rise, una risata sommessa e
un po’ pastosa, ma piacevole. La vidi lanciare uno sguardo al professore,
ancora intento a indicare alcuni dati alla lavagna.
“Sì, il mio bisnonno era cinese,
ma l’eredità genetica è andata un po’ perdendosi…
quello che di sicuro è rimasto in famiglia temo sia l’altezza.” Si inclinò
verso di me, portando una mano alla bocca e abbassando ulteriormente la voce,
“Tutti nani. Anche mio padre. Soprattutto mio padre.”
Ridacchiai con lei, cercando di
non farci beccare dal professore. Notando che Rou Fa
stava osservando la lavagna con la testa appoggiata sul palmo di una mano e
l’espressione pensierosa, ne approfittai per riprendere la copiatura – andando
un po’ a caso, per la verità.
“Senti, Allen…”
mi sentii chiamare, e mi girai verso la ragazza, che si stava mordendo il
labbro inferiore con espressione un po’ preoccupata e incerta. Di nuovo si
stava tormentando l’estremità di una treccia con le dita, mentre le guance si
erano ritinte di un lieve rossore.
Annuii, continuando a copiare,
per farle capire che ero in ascolto e di continuare. Lei lanciò un’occhiata
agli altri.
Intorno a noi, infatti, quasi si
dessero in turni, continuavano a voltarsi verso di noi alcuni studenti, con
facce curiose e sospettose – in particolare il ragazzo che stava accanto al
posto precedentemente occupato da Rou Fa, si voltava
più spesso del dovuto e continuava a indirizzare alla ragazza sguardi
inquisitori e duri che venivano puntualmente ignorati. Pareva un po’ frustrato,
in effetti.
“Posso…
posso chiederti come ti sei fatto quella cicatrice?”
Beh, non c’era da stupirsi. Prima
o poi questa domanda, educata o meno, arrivava sempre. Anzi, ero stupito che
Lavi non me l’avesse chiesto per primo, dato che sembrava alimentato da una
curiosità quasi ossessiva. Quasi mi distrassi dalla conversazione, facendo
improvvisamente caso al fatto che Lavi mi aveva fissato con tanto interesse ma
alla fine non aveva chiesto nulla della mia vita o del mio aspetto, se non
l’anno scolastico che frequentavo.
Misi su il mio sorriso migliore.
“Ah, non è niente, solo un brutto incidente alcuni anni fa…
e, se la tua prossima domanda è se i miei capelli sono tinti, no, sono
naturali. Nessuna grande storia dietro, mi dispiace. E per i guanti,
semplicemente mi danno conforto. Non esco mai senza, neanche d’estate.”
Rou Fa mi stava guardando come se
fosse lì per bere ogni mia parola come fosse nettare. Mi sconcertava un po’.
“O-okay,
scusa se te l’ho chiesto,” balbettò imbarazzata, abbassando lo sguardo.
“Non fa niente, davvero. La gente
me lo chiede spesso, ci sono abituato.”
Quando rialzò la testa, Rou Fa aveva un’espressione decisa che non mi aspettavo di
vedere. “No, non è stato educato chiedertelo. E comunque,” e di nuovo si
riportò la mano a coprire la bocca da sguardi indiscreti, “riferirò agli altri
quello che hai detto così nessuno te lo chiederà di nuovo.”
Quasi risi davanti a tanta
premure che non capivo perché mi fosse riservata. Questa ragazza era troppo
dolce.
“Grazie mille, Rou Fa.”