Un giorno lo sapremo
And that's why i know that I can say,
I'm lucky today,
and that's how I know that it's time…
to be brave.
Elisabeth
Kübler-Ross. Per alcuni questo nome potrebbe non significare
niente, ma di certo ognuno di noi nella propria vita è
passato, o passerà,
attraverso quelle cinque fasi che, quarantuno anni fa, la donna ha
elaborato.
Cinque fasi, cinque difficili ed insopportabili fasi che fanno parte di
un
pezzo di vita che spesso ci cambia irrimediabilmente.
Passiamo attraverso le cinque fasi del
dolore, senza nemmeno saperlo.
Rifiuto: una perdita tanto impensabile, tanto assurda che non ci sembra
possa
essere vera. Ci rifiutiamo di credere di poter vivere senza quella
persona. Un
mondo senza essa non può esistere.
Rabbia: la rabbia ci investe, ci travolge. Ci arrabbiamo con tutti,
ognuno
diventa colpevole.
Patteggiamento: riusciamo a riprendere un po’ di controllo
sulla vita, quel che
basta per andare avanti. Un giorno un più. Ecco cosa
vorremmo. Saremmo disposti
a donare un organo, la nostra stessa anima per un giorno un
più.
Depressione: prendiamo consapevolezza della perdita subita. Negazione e
rabbia
sono sostituite dal senso di sconfitta. Capiamo che abbiamo fatto tutto
ciò che
ci è stato possibile fare.
Accettazione: è l’ultima fase. Ci si abbandona e
si accetta la perdita.
Il dolore arriva per tutti, in momenti e in modi diversi, ma
arriva… per tutti.
Il mondo va avanti, la terra continua a girare. E tu non puoi fare
altro che
guardare avanti. Mettere un piede davanti all’altro ed alzare
lo sguardo,
alzare la testa al cielo.
Arriva per tutti, quella dannata ora e tu non puoi fare altro che
continuare a
vivere la tua vita anche senza quella persona cara, anche se ti sembra
impossibile… ma quello che non sai è che dopo
c’è speranza… una nuova vita,
un’altra possibilità di essere felice.
Io, ora, lo so.
«Avanti, Ginevra, faremo tardi!»
«Arrivo!» urlai chinandomi sul pavimento, cercando
sotto il divano i sandali
per il viaggio.
«Perderemo l’aereo!» urlò
ancora Cristina, una mia compagna di viaggio.
«Sì, un secondo!» urali in ansia,
alzandomi dal pavimento, non avendo trovato
ciò che cercavo. «Mamma,» urlai ancora,
«non li trovo!»
«Tesoro, non so più dove cercare!»
rispose lei dalla cucina.
«Gin, se entro trenta secondi non trovi quei sandali giuro
che ti molliamo
qui!»
Fu allora, che ricordai. Corsi in bagno ed aprii la portella del mobile
sotto
il lavandino, dove riponevo l’asciugacapelli.
«Trovati!» esclamai correndo in soggiorno. Afferrai
la valigia, mi portai la
borsa alla spalla.
«Ti chiamo mamma, non dar fuoco alla casa.» dissi
baciandole velocemente una
guancia.
«E tu non annegare.»
«Impossibile, nuoto meglio di un pesce.» risposi
facendole l’occhiolino e
dirigendomi per le scale.
Correvo trascinando la grande valigia e tenendo i sandali in mano.
«Potrei
almeno mettermi questi malefici sandali ai piedi?» chiesi a
Cristina.
«No, no che non puoi. Siamo in ritardo.» rispose
correndo.
«Ehi, non correre così veloce
altrimenti…» mentre dicevo questo, sì,
accadde
l’inevitabile: rotolai per l’ultima rampa di scale,
seguita dalla valigia.
Ci fu un momento di silenzio, più che altro di terrore, e
non era per paura che
mi fossi fatta male rompendomi un qualche osso o slogandomi una
caviglia o un
polso, ma di perdere l’aereo.
Alzai lo sguardo su Cristina che mi fissava con occhi sgranati. Mi
portai le
mani all’altezza del petto, con i palmi rivolti verso lei:
«Sto bene!»
«Andiamo!» esclamò lei recuperando la
mia valigia e trascinandola verso l’auto dove,
Valentina, al posto di guida, non faceva che suonare il clacson.
«Sveglierà tutti l’isolato.»
sibilai.
Gettai la valigia nel bagagliaio e mi fiondai in auto. Appena chiudemmo
le
portiere Valentina partì.
«Ma che diavolo è successo? Perché sei
a piedi nudi?» mi chiese guardandomi
dallo specchietto retrovisore.
A rispondere però fu Cristina, che mi batté sul
tempo. «Si è addormentata. Si è
addormentata!» disse voltandosi e fulminandomi con lo
sguardo.
«Oh, scusami, tanto se la sveglia non ha suonato.»
sbuffai allacciandomi i sandali.
«L’avevo detto che era una pessima idea partire
all’alba.» ci canzonò
Valentina.
Sbuffai e mi allacciai l’altro sandalo.
Avevamo organizzato quel viaggio a Marzo, ed eravamo a Luglio. Ci era
sembrata
un’ottima idea partire presto… ovviamente ci
sbagliavamo.
Stavamo partendo per la solita vacanza estiva, ma per me era il viaggio
post
laurea. Ad Aprile avevo infatti conseguito la laurea in psicologia.
Sia Cristina (laureata in ingegneria) che Valentina (che si sarebbe
laureata in
medicina veterinaria l’anno successivo) era non
più grandi di me di un anno, ed
io ne avevo venticinque. Sarei già dovuta essere laureata,
fanatica dello
studio quale ero, aspiranti ricercatrice di comunicazione
non verbale… ma la vita, non sempre ci permette di
realizzare in nostri
piani a tempo debito.
Voltai il capo verso il finestrino, guardando il sole
sorgere… alla fine, ero
andata avanti… o quasi.
«Non mi hai ancora risposto.»
Guardai Valentina. «Uhm?»
«Perché eri a piedi nudi?»
«Oh,» mi grattai la nuca, «beh,
ecco… avevo preso il phon e… ho messo i sandali
nel mobile del bagno.»
Cristina di voltò verso Valentina, Valentina verso Cristina,
prima che
scoppiassero in una fragorosa risata.
«Certo, certo… ridete di me, burlatevi di me!
Belle amiche che siete!»
Scossi il capo prima di sprofondare nel sedile e inclinare il capo
all’indietro. Davanti mi si prospettava una giornata davvero
lunga.
Come
previsto il
viaggio fu molto lungo. Da Roma (città in cui sono nata e in
cui vivo tutt’ora)
prendemmo un aereo che ci portò a Madrid, da Madrid
attendemmo l’aereo che ci
avrebbe portate a Tenerife. Sì, Tenerife, isola
dell’arcipelago delle Canarie,
era la nostra destinazione. Risparmiavo da un anno per quel viaggio,
evitando qualsiasi
tipo di spesa inutile. Era la mia vacanza, la vacanza della vita,
quella dopo
la laurea, una tappa che finalmente mi introduceva nel mondo. Ma basta
perdersi
in queste sciocche speculazioni.
Una volta arrivate sull’isole, nel tardo pomeriggio, un
autobus ci condusse in
un villaggio sulla costa, meta turistica.
Camminare fino alla nostra camera affittata, molto lontano dalla costa,
fu
un’impresa. In particolar modo per Valentina che, come al
solito, aveva la
valigia più grande e pesante di tutte.
«La prossima volta cerca di portare meno roba.»
disse Cristina voltandosi verso
lei, rimasta indietro.
Valentina alzò il capo, per guardarla sotto
l’ampia visiera del suo capello di
paglia. «C’è il necessario,
qui.» rispose risoluta prima di continuare a
camminare trascinandosi la valigia.
Sistemate le valigie, quella sera, decidemmo di non uscire. Il viaggio,
l’attesa del voli, ci aveva stremate, così, dopo
una doccia decidemmo di andare
a dormire, anche se non avevo molto sonno. Con mia grande sorpresa,
però,
appena la mia testa toccò il cuscino, caddi in un sonno
profondo.
A svegliarmi, il mattino successivo, fu Cristina che
spalancò gli scuri in
legno blu facendo entrare la luce del sole.
«Chiudi la finestra. Ti prego, chiudila.» mugugnai
mettendo la testa sotto il
cuscino.
«Mi sto sciogliendo.» si lamentò
Valentina coprendosi col lenzuolo bianco.
«Beh, se ti copri con questo caldo è certo che ti
scioglierai.» disse. Poi
afferrò il lenzuolo di Valentina (come appresi poco dopo) ed
il mio cuscino,
sfilandoceli via.
«Andiamo, ragazze!» esclamò,
«Una spiaggia meravigliosa dalle acque cristalline
ci attende!»
«Ti odio.» gemetti mettendomi a sedere sul letto.
Cristina sorrise. «Io invece ti voglio bene.»
Dieci minuti dopo, mi ritrovai in bagno, davanti allo specchio. Quando
guardai
la mia immagine riflessa, sobbalzai.
«Oddio…» sussurrai passandomi una mano
fra il groviglio di capelli rossi che
avevo in testa. Cercai di pettinarli con le dita, lisciandoli fin sotto
lo
spalle, per tutta la loro lunghezza. Aprii il rubinetto
dell’acqua e mi bagnai
il viso. Gli occhi mi parvero essere molto gonfi e rossi, tanto che il
grigio
delle iridi risaltava più del solito, in netto contrasto con
la pelle diafana.
Le labbra piene erano arricciate in una smorfia. Sì,
l’immagine che vidi non mi
piacque e diedi colpa alla luce sopra allo specchio.
Sospirai e, scuotendo il capo, mi legai i capelli. Rimasi a guardarmi
allo
specchio, in attesa che arrivasse, esattamente come ogni mattina.
Aspettai che
arrivasse quell’ondata di sofferenza e dolore che mi
abbandonava nel momento in
cui uscivo di casa, respirando aria fresca. Aspettai, chiudendo gli
occhi, poi,
sentii la sua voce. Ogni volta era così chiara da apparirmi
vera, reale, mi
echeggiava nella mente, tuonando all’inizio, cullando alla
fine.
Aprii gli occhi e lo vidi, riflesso nello specchio.
Non sorrisi, non potevo farlo. Quell’ondata di nostalgia e
dolore era talmente
tanto forte da togliermi addirittura il fiato, da farmi dolermi il
petto come
avessi ricevuto una pugnalata.
Per un attimo osservai i corti capelli biondi, la labbra distese in un
sorriso,
il viso ovale, gli occhi piccoli, incavati negli alti zigomi.
«Ciao, Ginevra.» disse, ma sapevo che era solo
frutto della mia mente, né la
sua immagine, né la sua voce era reali.
«Ciao, Claudio.» sussurrai.
«Sei bellissima.» non dissi nulla, sentii la gola
bruciarmi. Erano le parole
che mi ripeteva ogni volta che mi vedeva.
«Mi manchi.» mormorai.
«Ti amo.» disse con voce della stessa consistenza
del miele.
«Ti amo anch’io, sempre.» chiusi gli
occhi e mi voltai. Gli riaprii, la sua
immagine non c’era più.
Quando uscii dal bagno, ero sempre io, Ginevra. Mi ero lavata,
ricomposta,
vestita.
Avevo fatto colazione, ero scesa in spiaggia, ed ora, distesa su un
telo da
mare, prendevo il sole sperando che colorasse la mia palle quasi bianca.
Intorno a noi le persone di muovevano caoticamente, giocando a palla,
altri
passeggiavano sollevando sabbia. Ero da poco uscita dal mare ed avevo i
capelli
umidi e la pelle impregnata di crema solare e salsedine. Mi era mancata
quella
sensazione.
Alla mia destra c’era Cristina, alla mia sinistra Valentina.
La prima parlò: «Io
e il sole ci stiamo amando.»
Risi. «Sei disgustosa.»
«No, è una bugiarda. Sei una bugiarda, Cris. Il
sole sta amando me.» ribatté
Valentina.
Scossi il capo. «Rettifico: siete disgustose.»
«E’ nella natura umana, Gin. Dovresti amare
più spesso anche tu. E’ da quando
Cl-»
«Vale…» sibilò Cristina.
Deglutii. Non ebbi il coraggio di aprire gli occhi. Il ricordo della
mia ultima
notte d’amore, tre anni prima, quasi mi fece rabbrividire. Ci
volle tutta la
mia concentrazione e
la mia forza di
volontà per scacciare quel ricordo e richiuderlo nel
cassetto del mio cuore. Non
mi permettevo di ricordare, di pensare che un giorno Amore potesse
nuovamente
bussare alla mia porta.
«E’ tutto okay.» mormorai, sforzandomi di
sorridere.
Sì, l’avevo accettato… ma…
ma mi mancava terribilmente, e questo non sarebbe
mai cambiato.
«Il tuo costume è orribile.» mi voltai
verso Cristina che mi guardava
attraverso le scure lenti degli occhiali da sole.
Spalancai la bocca. « Non è vero!»
ribattei guardandomi il costume blu a
piccoli pois bianchi.
«Potevi scegliere una fantasia decente, un qualcosa di
più elaborato.»
«Ehi, a me piace. Il tuo è orribile. Cashmere
viola e giallo? Andiamo!»
«E quei laccetti sui fianchi? Sono gialli.»
«Malefica.» sibilai portandomi gli occhiali da sole
sul naso e sistemandomi il
grande cappello di paglia.
Cristina rise, prima di tirarmi un pizzicotto.
«Dite che c’è una spiaggia per nudisti,
qui?»
Entrambe ci voltammo verso Valentina, scioccate.
«Cosa?»
Lei sbatté più volte le palpebre.
«Scherzavo.»
Scossi il capo e tornai a guardare dinanzi a me, stesa, poggiata sui
gomiti. I
raggi del sole del mattino si riflettevano sull’acqua e
sembrava che la luce si
rincorresse sulle increspature. Fu allora che qualcosa
attirò la mia
attenzione. A pensarci, ora, non riesco a reprimere le risate.
Avete presente quando in Baywatch Pamela Anderson correva a
rallentatore sulla
spiaggia? Ecco, in quel momento successo un qualcosa di analogo.
Osservando il
mare cristallino notai un paio di ragazzi uscire dall’acqua.
Alti, statuari e
ricoperti di perle salate. Sorridevano e ridevano fra loro. Il
più alto dei due
si passò una mano fra i capelli scuri, facendo volare
goccioline d’acqua.
Istintivamente dischiusi le labbra e mi sfilai i grandi occhiali da
sole per
guardare meglio.
«Oh, mio, dio…» sentii mormorare alla
mia destra.
«Cris… mi sono innamorata.»
mormorò Valentina alla mia destra.
I due, di fronte a noi, sulla battigia, alzarono lo sguardo e fecero un
risolino, divertiti probabilmente dalle nostre facce sconcertate.
Quello più alto mi sorrise. Sentii il sangue affluire alle
guance e quel
repentino aumento di pressione sanguigna mi ridestò da
quella specie di trans
in cui ero caduta. Chiusi di scatto la bocca e mi misi a sedere,
voltandomi
prima verso Cristina, poi verso Valentina.
«State sbavando.» dissi tirando una scappellotto ad
entrambe, mentre i due
ragazzi si dirigevamo ad una decina di metri da noi, dove avevano
lasciato la
loro roba.
Le due li seguirono con lo sguardo ed io, mio malgrado, mi ritrovai a
fare lo
stesso.
«Come abbiamo fatto a non vederli prima?» chiese
Cristina.
«Non lo so. Dove sei stato fino ad’ora, padre dei
miei figli?»
Le guardai, scuotendo il capo. «Vado a farmi un
bagno.»
«Sì, brava, vai… placa i bollenti
spiriti!» esclamò divertita Valentina.
Mi voltai e la fulminai con lo sguardo, poi sospirai e mi diressi in
acqua,
gettando di tanto in tanto fugaci occhiate ai due ragazzi che,
portatisi gli
zaini in spalla sparirono fra la moltitudine delle persone, dirigendosi
verso
il villaggio.
Quella
sera decidemmo
di uscire, cercare un locale carino dove cenare e poi andare a bere
qualcosa
sulla spiaggia, in un pub che avevamo visto nel pomeriggio, mentre
tornavamo a
casa.
Indossai una maglietta a manica corta, scollata dietro quanto davanti,
un paio
di pantaloncini di jeans e sandali dai mille corallini colorati. Avevo
la pelle
accaldata, leggermente arrossata per via del sole, che combinato
all’acqua
salata, aveva permesso ai miei capelli di asciugarsi in morbide e
leggere onde.
Non mi truccai, non mi piaceva farlo. Con riluttanza lasciai che
Cristina mi
allungasse le ciglia con del mascara.
Mangiammo una pizza e bevemmo una birra, poi andammo in un locale, uno
dei più
frequentati del villaggio, vicino al mare.
Quando entrammo fummo quasi sopraffatte dalla calca.
«Bene, ho bisogno di qualcosa da bere!» urlai
mentre ci dirigevamo verso il
bar. Presi un Mojito, il mio preferito e mi sedetti al bancone.
«Ho voglia di ballare!» esclamò su di
giri Valentina.
«Andiamo, andiamo!» gridò Cris.
«Io vi aspetto qui!»
«Sei una rompiscatole!» sbuffò Cristina
scuotendo il capo mentre Valentina la
trascinava in pista, nella calca.
Presi la cannuccia fra i denti e bevvi un sorso, mentre mi guardavo
intorno.
Il locale era illuminato da diverse luci colorate e la musica non
faceva che
tuonarmi nella testa, dopo un po’ cominciò a
dolermi, tanto che fui costretta
ad uscire dal locale con una smorfia di dolore sul viso.
Mi feci spazio fra la calca, cercando di non far cadere il contenuto
del mio
bicchiere. Quando uscii mi parve di riprendere a respirare come se
avessi
trattenuto il fiato troppo a lungo. Mi avvicinai al muretto che
circondava il
locale, dove altre persone chiacchieravano e altri si perdevano in
effusioni
d’amore. Quella vista mi destabilizzò per un
attimo. Mi sedetti, guardando la
luna riflettersi sul mare lasciare una scia argentea sul manto nero
sottostante.
L’aria era calda e un po’ umida, tanto che sentii i
capelli incollarli
fastidiosamente alla nuca.
«I remeber you.» nell’udire quella voce
calda e bassa, sobbalzai.
«Come?» chiesi istintivamente, voltandomi, ma,
quando capii chi aveva parlato,
spalancai gli occhi.
Sorrise. «Mi ricordo di te.» ripeté alla
fioca luce di un lampione.
Deglutii guardandolo negli occhi scuri. «Anche io.»
Fece un risolino porgendomi una mano. «Andrea.»
«Ginevra.»
«Come Ginevra di Camelot.»
«Sì, come lei.» balbettai.
«Aspetti le tue amiche? Il tuo ragazzo?» chiese
portandosi la bottiglia di
birra alle labbra.
«Non ho il ragazzo. Loro, sono dentro. Sono venuta fuori da
sola.»
«Troppo caos?» chiese inclinando il capo, sorrise
mostrando una schiera di
denti perfettamente dritti e bianchi, in contrasto con la pelle scurita
da sole,
e abbassando leggermente la mandibola.
Inclinai il capo e le parole che mi uscirono di bocca furono tanto
spontanee
che non riuscii a fermarle. «Sorriso a mandibola abbassata.
Usati per generare
reazioni piacevoli ed ottenere consensi.»
Corrugò la fronte, confuso. «Prego?»
Fu allora che mi accorsi di ciò che avevo appena detto.
Sentii il sangue fluire
alle guance e mi
morsi immediatamente la
lingua, portandomi una ano sulla fronte. «Perdonami. Scusa,
non volevo.» cercai
di scusarmi.
Sorrise, sincero.
«Sono un’appassionata di comunicazione non
verbale.»
«Oh, ora è tutto chiaro.»
annuì. «Suppongo tu sia quindi una
studente.»
«Ora no. Ora posso felicemente dire che mi sono
laureata.» sorrisi.
«Qualcosa mi fa supporre che sia una laurea in
psicologia.»
Sorrisi, sollevando un angolo della bocca verso l’altro. Feci
spallucce.
«Esatto.»
«Quindi suppongo tu abbia
un’ètà intorno ai…
ventiquattro o ventisei anni.»
«Venticinque.»
«Venticinque.» ripete guadandomi negli occhi.
«Mentre tu…» esordì.
«Andrea Baldi, nato e vissuto a Firenze, laureato in
Architettura, residente da
due anni a Roma. Ventinove anni.»
Spalancai appena gli occhi. «Roma.»
Fece un cenno col capo. «Roma.»
Sorrisi. «Ginevra De Santis, nata e vissuta a Roma, laureata
in psicologia,
residente a Roma.»
«Roma.»
«Roma.»
«Ehi, Andrea, andiamo!» una voce
richiamò la sua attenzione, lui si voltò.
«Arrivo.»
«E’ stato un piacere, Ginevra.»
«Piacere mio, Andrea.»
Per alcuni istanti i suoi occhi chiari rimasero nei miei, poi sorrise e
si
avvicinò. Quell’improvviso vicinanza mi fece
balzare il cuore il gola e
affluire il sangue al viso.
«Hai… un ciglio…»
mormorò premendo delicatamente l’indice sul mio
zigomo
sinistro.
Deglutii a fatica. «Oh.» soffiai senza staccare il
mio sguardo dal suo.
«Esprimi un desiderio.» mormorò a poche
spanne dal mio viso.
Aspettai un paio di secondi, poi soffiai sul suo dito.
«Ci vediamo, Ginevra.» disse con voce calda,
avvolgente.
Sentii il resto del corpo scollegarsi piano dal cervello. Parlai
nuovamente senza
pensare.
«Come?»
Un sorriso sghembo gli colorò il viso dai forti lineamenti
mascolini.
«Semplice, ti troverò.» poi si
voltò allontanandosi.
Presi nuovamente la cannuccia fra i denti e sorrisi, inclinando il capo
in
avanti. Lui mi fece un occhiolino.
Sorriso con lo sguardo di traverso: amato dagli uomini di
tutto il mondo, perché,
quando una donna lo abbozza risveglia in loro sentimenti paterni e
protettivi;
usato per toccare il cuore delle persone.
Mi misi eretta di scatto, scioccata, resami conto del sorriso appena
fattogli.
Ma cosa…?
«Ti
troverà lui? Oh, andiamo, che idiozia è
questa?» sbuffò Cristina
lasciandosi cadere sul letto.
«Dai, lasciala sognare!» ribatté
Valentina lasciandosi cadere sul suo letto.
«Ehi, io sono qui!» esclamai slacciandomi i sandali.
Cristina alzò il capo, inarcando un sopracciglio.
«Era sincero?»
«A me è parso di sì. E poi non
m’interessa,» tagliai corto.
«Oh, ti ci vuole un flirt, Gin! Diamine, hai venticinque anni
e non vai a letto
con un ragazzo da-»
Ad interrompere Cristina, fu Valentina, le diede una gomitata.
«No, ora basta! Sono stanca! Sono passati tre anni! Tre anni!
Il tuo lutto
l’hai elaborato tesoro…»
Mi voltai dandole le spalle, no, non potevo sentire altro. Avvertii la
mano di
Cristina sulla schiena, mi strinse le spalle parlandomi
all’orecchio con voce
dolce.
«L’hai accettato. Sono passati tre anni,
è ora di guardare il futuro, è ora di
provarci ancora, Ginevra. Vivi e buttati tesoro, fallo
perché solo così potrei
essere finalmente, del tutto, libera da te stessa.»
«Mi manca, mi manca sempre.» mormorai con voce
incrinata.
«Lo so, tesoro… lo so. Ma sono certa che lui non
avrebbe voluto vederti così.
Avrebbe voluto vederti vivere.»
«Non so come si fa.», sentivo le gambe molli;
chiusi gli occhi.
Lei sospirò. «Oh, Ginevra… nessuno lo
sa. Si va avanti e si cerca di fare del
proprio meglio per essere felici.»
Sospirai. «Vado a farmi una doccia.»
E mi diressi in bagno, chiudendo a chiave.
L’indomani mi ritrovai di nuovo in bagno, come ogni volta, i
capelli erano
arruffati, gli occhi leggermente gonfi… e la sua immagine
era lì.
«Ciao, Ginevra.»
«Ciao, Claudio.»
«Sei bellissima.»
«Mi manchi.»
«Ti amo.»
«Ti amo, sempre.»
Mi voltai e sparì.
In spiaggia non facevo che guardarmi intorno. Non facevo che cercare
con lo
sguardo Andrea, sperando che gli occhiali da sole potessero ripararmi
dagli
sguardi indagatori di Cristina e Valentina.
«Da quando siamo in spiaggia non ti sei ancora stesa. Sei
sempre seduta e non
fai che guardarti intorno. Qualcosa mi dice che cerchi il tuo principe
azzurro.»
«Non cerco nessuno, idiota. Guardo solo la baia. Mi godo il
paesaggio.»
sospirai passandomi una mano fra i capelli rossi.
«Certo, il paesaggio.» sospirò
Valentina. «Uh, eccolo!» esclamò
mettendosi a
sedere, di scatto di voltai per individuarlo.
«Ah, ci sei cascata! Visto?»
«Ah-ah. Vado in acqua. Vi odio.»
«Ti vogliamo bene!» esclamarono in coro mentre
correvo verso la battigia.
«E il tuo costume è orrendo!»
gridò Cristina.
Mi voltai e le feci la linguaccia.
Entrai lentamente in acqua che, fredda, mi fece venire la pelle
d’oca. Mi godei
la sensazione della sabbia sotto i piedi, morbida e sottile, il sole
bruciarmi
quasi la pelle chiara, i capelli bagnarsi e fluttuare. Nuotai per
diversi metri
lungo la costa. Nuotai sott’acqua ad occhi aperti per evitare
eventuali
persone, ma quando intravidi una sagoma dinanzi a me, nuotare verso me,
mi
spaventai e istintivamente cacciai un urlo, senza contare che ero in
acqua,
così bevvi una sorsata d’acqua e cercai di
annaspare in superficie. Avrei
voluto tanto darmi una spinta con i piedi, ma non toccavo. Sentii una
mano
afferrarmi per il braccio e portarmi a galla. Una volta fuori
dall’acqua tossii
tanto che la gola cominciò a bruciarmi, seccata inoltre
dalla forte acqua
salata dell’oceano.
«Ehi, ehi. Piano. Respira. Ti reggo io.»
ridacchiò una voce.
Immediatamente la riconobbi e mi voltai a guardare
l’individuo in volto.
«Andrea.» gracchiai.
«Già.» sorrise. «Andrea. Ma se
vuoi chiamarmi Salvatore, fallo pure.»
«Non c’è nulla di divertente in tutto
questo. Sarei potuta affogare, sai? Ed è
colpa tua.»
«Beh, non è di certo colpa mia se sei una pessima
nuotatrice.»
La mia gamba sfiorò la sua e il mio cuore
accelerò i batti.
Tossi ancora. Lui si portò una mia mano sulla spalla, in
modo tale che potessi
prendere fiato a modo.
«Ehi, ma tu tocchi il fondale.»
Rise. «Sono alto un metro e novanta. Tu sei uno scricciolo.
Sembri Nemo.»
«Nemo?»
«Sì, Nemo di Alla Ricerca di Nemo. E’ il
film d’animazione preferito di mia
nipote.»
«Non è vero.»
«Quando sei alta? Un metro e sessanta?»
«Quattro. Un metro e sessanta quattro. Quattro centimetri
fanno la differenza,
sai?» sorrisi, e solo allora mi resi conto di quanto il suo
viso fosse vicino
al mio.
«Probabile.»
I suoi occhi illuminati dal sole erano nocciola, tanto liquidi da
apparire
mille volte più seducenti e, nonostante il sole le sue
pupille non erano in
condizione di miosi, erano normali.
Quando un individuo si trova in uno stato
di eccitazione le pupille possono dilatarsi anche quattro volte
più del
normale.
Sorrisi inebetita guardando i suoi occhi.
«Tutto okay?» chiese lui arricciando le labbra in
un sorriso, come a
reprimerlo.
Annuii, «Sì, tutto okay. Siamo destinati a
incontrarci per caso.»
Scosse il capo. «Ti ho trovata, Ginevra.»
La sua voce era grave, le spalle leggermente sollevate, lo sguardo
fisso nel
mio.
Sì, lui mi aveva trovata.
«Magari di troverà anche questa sera.»
disse Cristina portandosi una caramella
in bocca.
«Sì, ti troverà ancora… e tu
farai ciò che fanno le venticinquenni in vacanza.»
Sospirai. Eravamo lungo il mare, camminavano fra il mercatino di
conchiglie,
mangiando gelatine alla frutta da un sacchetto di carta bianca.
«Oh, smettetela.» sbuffai, masticando.
«Non sai divertirti.» disse Valentina, prima di
allontanarsi per guardare borse
in paglia intrecciata.
«So divertirmi invece!» esclamai mentre Cristina la
raggiungeva, invece io
rimasi a guardare i bracciali di coralli e conchiglie.
Un braccialetto di cuoio intrecciato attirò la mia
attenzione, lo presi e me lo
portai sul polso nudo.
Qualcuno schioccò la lingua. Mi voltai e alla mia destra,
lui, sorrise.
Il mio cuore sobbalzò.
«Non ti piace?» chiesi corrugando la fronte.
Fece una smorfia di disapprovazione. «Prova
questo.» mormorò afferrando un
braccialetto in corallo e legandomelo al polso.
«E’ bellissimo.» soffiai girando il
polso. Alzai gli occhi sul suo viso.
Le labbra piene di distesero in un sorriso. «Lo so.»
Mi morsi l’interno della guancia. «Uhm.»
«Sì, lo prendo.» sorrisi guardando il
braccialetto, poi ancora lui. Feci per
prendere il portafoglio dalla borsa in pelle, ma Andrea mi
batté sul, tempo.
«Cosa fai?» chiesi corrugando la fronte e
stringendogli il braccio. Un movimento
naturale, inconscio e quando me ne resi conto ritrassi subito la mano.
«Un regalo, semplice.»
Feci un risolino. «Grazie.»
«Prego.»
Per alcuni istanti rimanemmo a guardaci negli occhi, annuendo piano col
capo.
«Voglio farti vedere una cosa.»
«Posso fidarmi?» lo stuzzicai.
«Sì. Al massimo cercherò di tagliarti
la gola.» disse cercando di reprimere un
sorriso.
«Non se lo faccio prima io.»
Rise. «Bella risposta.»
Mi voltai verso Cristina e Valentina che intanto sollevano i pollici
verso
l’altro e saltellando mi indicavano di andare con lui. Andrea
si voltò,
seguendo il mio sguardo. Nell’esatto momento in cui i loro
sguardi si
incontrarono le due si bloccarono, si grattarono la nuca e fecero finta
di
osservare le borse.
«Le conosci?» chiese lui divertito.
«Uhm… non ho idea di che siano quelle due
pazze.»
Rise ancora prima di stringermi la mano e trascinandomi altrove.
«Allora, Ginevra, da quanto sei qui?» mi chiese
Andrea bevendo un sorso di
birra.
«Solo un paio di giorni. Tu?»
«Quattro giorni. Sono qui con mio fratello. Ha appena
divorziato, gli serviva
una distrazione.»
«Mi dispiace.»
Corrugò la fronte. «Perché?»
«Beh, non deve essere facile divorziare da
qualcuno… credo.»
Sorrise. «Sì, non è lo
è.»
«Sembra che tu ne sappia qualcosa.» dissi bevendo
anche io un sorso di birra.
«Come fai a dirlo?»
Stavamo camminando su un molo lungo la spiaggia, ad un tratto scese un
paio
saltò su una duna, scendendo un spiaggia. Mi porse una mano
per aiutarmi. La
mia pelle parve prendere fuoco. Lo seguii senza chiedere dove stessimo
andando.
Anche perché, come mi aveva già riferito, non mi
avrebbe detto la destinazione.
«Fanatica di comunicazione non verbale. La studio da un
po’. Ho una specie di
talento innato. E mi sembra che tu stia dicendo la
verità.»
«Perciò… pensi che sia un uomo
sincero?»
Annuii, sorridendo flebilmente.
«A sedici anni ho avuto una ragazza. Mi ha lasciato a
ventisei anni. E’ stata
dura. Non è la stessa cosa, ma… quando qualcuno
che ami ti lascia, ti abbandona
senza una parola, sparendo nel nulla… beh, non è
di certo facile. Non credi?»
«Già, non lo è.» mormorai
guardando il mare. Per un istante i miei pensieri si
posarono su Claudio.
«Sembra che tu ne sappia qualcosa.»
Deglutii. «No, non lo so.» mi limitai a mormorare,
ma la mia voce non era affatto
convincente.
Nelle due ore successive non facemmo che parlare, come era avvenuto
quella
stessa mattina, seduti sulla sabbia, i piedi nudi immersi in essa,
fresca e
morbida. La luna gettava luce argentea sul mare e quasi sembrava che
giocasse
con le increspature dell’acqua. Eravamo in un una
piccolissima baia a quindici
minuti dal villaggio, raggiungibile solo scendendo lungo il molo.
Dietro di noi
scogliera e alberi, il rumore del mare che si infrangeva dolcemente
contro la
roccia resa nera dalla notte.
«E’ bellissimo qui.»
«Già. L’ho scoperto la prima sera,
quando sono arrivato. Camminavo solo lungo
il molo e all’improvviso mi era venuta una gran voglia di
camminare sulla
spiaggia.»
«Solo?»
«Sì. Mi aiuta a pensare… e mi
rilassa.»
«Perché mi hai portata qui?» chiesi
voltandomi a guardarlo e carezzandomi
lentamente le gambe nude accarezzate dalla brezza marina.
Non rispose subito. Ci pensò un attimo, guardando
l’oceano, poi si voltò a
guardarmi e il suo viso illuminato dalla luce argentea della luna mi
mozzò il
fiato. «Perché mi fa pensare a te.»
«Cosa intendi?» soffiai e solo allora mi resi conto
quanto il suo viso fosse
vicino al mio. La sua spalla sfiorava la mia.
«Sei bellissima.» quelle parole ebbero la forza di
una tempesta. Mi scossero
come un uragano fa con le abitazioni, mi travolsero come una slavina fa
con uno
sciatore.
«Io…»
Le sue dita mi sfiorarono il viso, lentamente, chiusi gli occhi.
Va’ vai, Claudio…
lasciami libera… io ci
sto provando davvero…
«Prima mi ha detto se sapevo cosa si prova ad
essere abbandonati.»
mormorai, ma lui non riespose, la sua mano smise di sfiorarmi. Aprii
gli occhi.
«E’ morto tre anni fa. E’ stato il mio
unico ragazzo, l’unica persona che ho
amato in tutta la mia giovane vita. E’ sempre stato
l’unico. Prima e dopo di
lui nessuno più mi ha sfiorata. Scapperai a gambe levate,
adesso.» continuai.
Il suo sguardo rimase fisso sul mio.
«No, non voglio farlo.» sussurrò serio.
«Non posso.»
«Perché?»
«Sei come la forza di gravità.»
Non dissi nulla, mi limitai a chiudere gli occhi e godermi la
sensazione delle
sue dita sul mio viso, del suo naso contro il mio collo. Mi venne la
pelle
d’ora e tremai appena.
«Vorrei baciarti.» mormorò a poca
distanza dal mio viso.
«Potrei non ricordare come si fa.»
Nel suo petto tuonò una risata… e le sue labbra
furono sulle mie. Fu un tocco
tanto leggero che, ora, mi fa pensare ad un petalo di rosa adagiato
sull’acqua.
Le sue labbra si mossero piano sulle mie, plasmandosi ad esse, mentre
le nostre
mani prendevano confidenza con il viso dell’altro. Sentii le
sue dita infiltrarsi
fra i miei capelli, carezzarli, stringerli appena e tirarmi il capo
all’indietro per baciarmi
dolcemente
l’incavo del collo, mentre il mio respiro diventava sempre
più corto.
Istintivamente portai anch’io le mani fra i suoi capelli,
morbidi ed
incredibilmente setosi, mentre le sue labbra scesero a baciarmi fino
all’incavo
sei seni, prima di ritornare sulle mie labbra.
«E’ così tanto che non sono che un uomo
che… oddio, mi sento così
impacciata….»
risi istericamente.
«Ssst… questo non è possibile,
Ginevra…» mormorò ingabbiandomi il viso
fra le
grandi mani e guardandomi negli occhi. «Questo non
è possibile.» ripeté
baciandomi ripetutamente le labbra.
Mi baciò con passione facendomi adagiare sulla sabbia,
mentre le sue mani mi
carezzavano gambe legate ai suoi fianchi. Mi lasciai andare ai sensi,
quasi
potessi sciogliermi e legarmi indissolubilmente alla sabbia
sottostante.
Mi carezzò il viso, i capelli. Mi guardò negli
occhi, mentre il marrone delle
sue iridi si mescolò al grigio delle mie. E fu lì
che capii che non servivano
parole… che non sarebbero mai servite.
Mi chiamo Ginevra De Santis, ho trentacinque anni e un figlio di cinque
anni
che dorme nella stanza accanto.
Mi guardo allo specchio, come ogni mattina per lavarmi i denti ed il
viso.
Attendo che quell’immagini arrivi, quell’immagine
tanto familiare da mozzarmi
ancora il fiato e farmi dolere di cuore dall’emozione.
E poi eccola. I suoi occhi mi guardano, mi scrutano e mi sorridono. Mi
dicono
ancora quanto immensamente mi amino.
Sorrido. Mi volto e la cosa bella… è che
quell’immagine è ancora lì.
«Ciao, Andrea.»
«Ciao, mia regina.»
Sorrido… perché, sì, amare ancora
è possibile.
*
Salve,
gente, eccomi qui con una
one-shot. L’idea è stata improvvisa e quasi
inaspettata. Mi è balenata in testa
e ho sentito il bisogno di scriverci qualcosa.
Spero sia stata di
vostro gradimento. :)
A presto, Panda