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Autore: Stars_Daughter    21/08/2011    23 recensioni
In fondo è un medico e ha visto di peggio, ha visto crani aperti a metà, corpi spezzati in angoli innaturali e arti sparsi al suolo come i bastoncini di quel gioco da tavolo con il nome cinese, quello in cui non devi muovere le asticelle mentre le estrai una alla volta. Ha visto così tanto orrore da pregare di perdere la vista. La sorte deve avere un gran senso dell’umorismo.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Obscurity

 

 

Quando John si sveglia è tutto buio. Buio sul serio, non quello di Londra, cosparso di lampioni e insegne luminose, e nemmeno il buio formicolante di vita degli anni in Afghanistan, con gente che fumava e sussurrava e aspettava e temeva. E’ solo buio, buio e silenzio e nulla.

-John.-

John allunga la mano, ma è davvero troppo, troppo faticoso, e la lascia ricadere giù. Deve essere sdraiato su un letto, perché è morbido e caldo e sente le lenzuola ruvide sotto le dita.

-Sherlock? E’ tutto buio, dove siamo?- E’ come se la sua gola fosse rivestita di carta vetrata, ogni parola brucia e gli manca il respiro.

-In ospedale. Sono le tre del pomeriggio.-

-E’ tutto buio, cos’è successo?-

Sente l’altro sospirare, ma non come quando è frustrato perché nessuno riesce a seguire il filo dei suoi pensieri. E’ un altro tipo di sospiro, e John ha paura di sapere che cosa possa significare.

-Hai subito un trauma cranico. Moriarty.-

E’ come se gli fosse sfuggito qualche pezzo, come quando, ai tempi del liceo, arrivava sempre in ritardo al cinema con gli amici e loro erano già dentro e il film era già iniziato e non capiva nulla. Moriarty, Moriarty... Gli ricorda qualcosa. Bomba. Piscina. Sherlock. Muro. Luci rosse. Di nuovo bomba. Pistola. Sherlock. BUM. Trauma cranico, a quanto pare.

-E’ permanente?- Cerca di assumere un tono professionale, perché in fondo è un medico e ha visto di peggio, ha visto crani aperti a metà, corpi spezzati in angoli innaturali e arti sparsi al suolo come i bastoncini di quel gioco da tavolo con il nome cinese, quello in cui non devi muovere le asticelle mentre le estrai una alla volta. Ha visto così tanto orrore da pregare di perdere la vista. La sorte deve avere un gran senso dell’umorismo.

-Sì.-

Non risponde, e Sherlock tace, e c’è tanto silenzio, e magari è tutto solo un sogno e si sveglierà con la luce del sole negli occhi ringraziando Dio di essere vivo.

-John?-

Niente sogno e niente luce e niente Dio. Vorrebbe urlare, ma andiamo, è già un miracolo che riesca a emettere qualche suono, la sua gola potrebbe prendere fuoco sul serio e non sa se c’è dell’acqua abbastanza vicino. Sprofonda nei cuscini e chiude gli occhi, come se servisse a qualcosa.

-John?- Sente la mano di Sherlock arrampicarsi sulla sua e stringere un po’, incerta. –John?-

-Va tutto bene, sto bene. Tu stai bene?-

-Una slogatura al polso.-

Vorrebbe dire “mi dispiace”, ma ha appena perso la vista e si sente idiota a dispiacersi per una slogatura al polso che in un paio di settimane sarà completamente guarita.

-John. Scusami.-

Annuisce. –Va tutto bene. Mi aumenteranno la pensione di invalidità, per lo meno.- tenta di ridacchiare, ma ha un attacco di tosse che lo lascia stremato contro il cuscino. Sente Sherlock alzarsi e versagli dell’acqua minerale da una bottiglia, poi un bicchiere gli si avvicina alle labbra e beve, ed è buono e fresco e finalmente qualcosa va bene davvero.

 

Gli hanno messo una sveglia sul comodino. E’ a forma di coniglio e dice l’ora ogni sessanta minuti, con una voce metallica da robot dei cartoni animati. Dice l’ora anche se le schiacci la coda, ma è già abbastanza umiliante così, grazie, si sotterrerebbe scavandosi la fossa a mani nude prima di mettersi a palpare un giocattolo per bambini. Sarah gli ha portato una piantina di qualcosa, non è mai stato bravo in botanica, e teme che le infermiere lo siano ancora meno, perché sono passati quattro giorni e puzza già di cadavere di vegetale, quell’odore misto di marcio e muffa. Da qualche parte ci sono anche dei volantini, posti dove addestrano cani per ciechi, negozi specializzati, corsi di Braille, terapie di gruppo, tanti bei volantini che tanto non può leggere.

Vorrebbe che tutti la smettessero di cercare di dargli una mano, vorrebbe che lo lasciassero in pace e basta, niente sveglie che dicono l’ora, niente piante morte, niente volantini. Non vuole rifarsi una vita. Vuole solo restare lì e non pensare a niente, niente, niente.

 

Stanotte Sherlock ha dormito, dopo circa una settimana. Gli si è accoccolato accanto e si è tirato addosso il lenzuolo senza dirgli nulla. John ha appoggiato il mento ai suoi capelli e fanculo alle terapie di gruppo, tutto ciò che gli serve è avere Sherlock lì con lui. E’ rimasto fermo, avvolto dal silenzio come da una coperta, e ha aspettato che la sveglia segnasse mezzanotte, l’una, le due, le tre, Sherlock sempre tra le braccia come una bambola rotta. Non vuole dormire perché ha paura di non riuscire a svegliarsi, così languisce in una sorta di dormiveglia aspettando che succeda qualcosa, che uno scienziato da qualche parte nel mondo scopra una cura, che cada un po’ di polvere magica dal cielo e gli riattivi il nervo ottico, qualunque cosa. Ma la sveglia segna le quattro e le cinque e le sei e le sette, e non succede nulla.

 

Hanno detto che lo dimetteranno a giorni, così si è degnato di alzarsi e farsi una doccia e vestirsi, e Sherlock gli ha rasato il viso mentre lui arrossiva sotto la schiuma da barba. Poi ha preso una valigia che non usa dai tempi dell’università, una vita fa, quando il mondo era bello e c’era luce ovunque, e colori, e tutte quelle cose che ora ha perso. Ha preso la valigia, e ci ha messo dentro i vestiti, la sveglia, i volantini. La pianta gli fa troppo schifo anche solo per toccarla, quindi rimarrà ad appestare l’aria dell’ospedale finché una mano misericordiosa non la getterà nell’immondizia o nel water o fuori dalla finestra. Ha impacchettato la sua vita, di nuovo dopo l’Afghanistan, di nuovo dopo l’albergo, di nuovo dopo Baker Street, di nuovo dopo tutte quelle volte in cui ha dovuto ricominciare tutto da capo, ancora, ancora, ancora.

 

L’appartamento è freddo, come ogni appartamento in cui non entra nessuno da due settimane. E’ freddo e John vuole uscire e andare a rifugiarsi da qualche parte, tra le braccia di qualcuno, vuole tornare bambino e nascondere il viso tra le pieghe della gonna di sua madre come quando Harry lo faceva piangere. Sente la mano di Sherlock cercare la sua e guidarlo gentilmente sulla poltrona, e si raccoglie stretto intorno a un cuscino, forse quello con stampata la bandiera inglese, forse un altro, non ricorda quanti cuscini c’erano, non ricorda un sacco di cose insignificanti che ora saranno tutta la sua vita.

-E’ quello con la bandiera inglese, sì.-

Sherlock deve essersi appollaiato sul bracciolo, perché riesce a sentire il calore delle sue parole tra i capelli.

-John?-

-Sto bene.- John annuisce, sì, sta bene, magari non sembra, ma sta bene, sul serio.

Sherlock sa che non è vero, ma sta zitto perché non potrebbe dire nulla in grado di migliorare le cose. –Ti preparo un tè.-

Si alza ed è tutto molto più freddo, e John seppellisce il viso nel cuscino e vorrebbe piangere ma non ci riesce, così resta ad aspettare il sibilo del bollitore e la tazza sbrecciata e caldissima.

-Grazie-

Sherlock rimane in piedi e aspetta qualcosa da fare, qualunque cosa.

Vorrebbe che il telefono squillasse e fosse chiunque, anche suo fratello con uno di quegli stupidi noiosi casi che risolverebbe in venti minuti compresi di viaggio in taxi, uno di quegli stupidi noiosi casi che non hanno mai fatto del male a nessuno, che non hanno mai fatto del male a John.

-Sei ancora qui?-

Si volta impercettibilmente verso John. –Naturalmente. Ti serve qualcosa?-

-Mi accompagni di sopra?-

-Puoi dormire nella mia stanza, non sono stanco.-

John sa che non è vero, sa che sono passate due settimane ed è pur sempre umano, deve essere stanco per forza, ma sta zitto e annuisce e si lascia portare fino al letto. Sherlock esita sulla porta prima di augurargli una buona notte e chiudersela alle spalle. John si toglie le scarpe e si sdraia a pancia in giù sulle lenzuola, e ha tanto tanto sonno, e vuole solo scomparire tra le coperte morbide che sanno di Sherlock, nascondersi finché non sarà tutto finito.

 

Sarah è venuta a trovarlo. Gli ha preso la mano nelle sue e se l’è portata in grembo, e ha parlato e parlato e parlato, ha parlato e pianto e detto che le dispiace, che se ci fosse stata magari avrebbe potuto salvarlo, che non lo lascerà solo, che ci sarà sempre, chiamami a qualunque ora.

Sherlock ha ringhiato, da qualche parte nel buio.

 Prima di uscire Sarah lo ha preso da parte e gli ha parlato di un centro di riabilitazione, lo gestisce un suo amico, lì John potrebbe essere seguito e avrebbe tutto ciò di cui ha bisogno. Sherlock le ha risposto che a John ci pensa lui, e che ora avrebbe da fare, quindi gradirebbe che lei se ne andasse, grazie. Le ha offerto il soprabito e aperto la porta, e ha aspettato che sospirasse e salutasse e si degnasse di lasciarli in pace.

 

Sherlock non sa cucinare. E’ una di quelle cose che non gli servono, che occuperebbero inutilmente lo spazio del suo hard disk mentale, che può fare qualcun altro al posto suo. Questo spiega perché ora mangino cinese. E messicano. E giapponese, thailandese, indiano. E pizza, e schifezze da fastfood, e qualunque cosa sia commestibile dopo una decina di minuti nel microonde. Ogni tanto Mrs Hudson porta qualcosa, un arrosto con patate, una torta salata, un dolce. Ci sono volte in cui John non mangia, o mangia e vomita tutto pochi minuti dopo. Ci sono volte in cui rompe il bicchiere, il piatto, la caraffa dell’acqua. Sherlock non sa come togliere le macchie dalla stoffa. Non sa come pulire il pavimento dall’unto. Non si è mai preoccupato di scoprire cosa succedesse ai piatti dopo averli lasciati nel lavello, tramite quale arcano processo tornassero puliti e accuratamente riposti nella credenza. E’ frustrante. Tutto, tutto, tutto quanto.

 

Pietà. Gli si appiccica alla pelle ad ogni loro sguardo, gli infermieri, Sarah, Mrs Hudson, una volta anche il postino. Tutti lo trattano con gentilezza, come se fosse un bambino malato, tutti cercano di non parlare di lui di fronte a lui, tutti gli dicono riposati, non sforzarti, vedrai che starai meglio, devi solo avere pazienza. E poi c’è Sherlock, ma è un’altra storia, è sempre un’altra storia. Sherlock si prende cura di John senza bisogno di farglielo sapere. Sherlock è lì, non sopporta tutto questo così come non lo sopporta lui, ma è lì e, finché resta, John può sobbarcarsi tutti gli infermieri, tutte le Sarah, tutte le Mrs Hudson e tutti i postini del mondo.

 

Moriarty ride. Ha un cadavere tra le braccia e le labbra sporche di sangue. Tutto sta girando intorno a lui, turbini di sabbia e vento, vento e sabbia, tutto sta girando e lui è fermo al centro, l’occhio del ciclone. John sente la sabbia negli occhi, e la luce del sole troppo calda sulla pelle, e la gola secca e l’elmetto che gli cinge la testa troppo stretto. Tra le mani ha una Browning L9A1 e cerca di puntarla verso Moriarty, ma il vento è troppo forte e forse l’uomo che ha tra le braccia non è ancora morto, forse può ancora salvarlo, forse c’è speranza. Cerca di fare un passo avanti ma la gamba cede sotto il suo peso, e atterra su un fianco nella sabbia. Prova a muoversi, ma la sabbia lo avvolge e lo porta sempre più giù, sempre più giù, e Moriarty gli dice non fare così Johnny boy, gli dice ti stai sforzando troppo, goditi lo spettacolo; si alza reggendo sopra di sé il cadavere come un trofeo e il cadavere è Sherlock, il volto bianchissimo solcato da rivoli di sangue che colano dagli occhi, dal naso, dalla bocca socchiusa...

John si sveglia soffocato dalle lenzuola sudate. Può sentire ancora la risata di Moriarty, da qualche parte nella sua testa. Cerca di alzarsi, ma le lenzuola lo trattengono e lo fanno cadere sul pavimento, e per un attimo è sicuro di sentire la sabbia sotto le dita. C’è odore di sangue, forse il suo, forse quello del cadavere di Sherlock. Il confine tra sogno e realtà è quel momento in cui apri gli occhi e vedi la tua stanza intorno a te, ed è tutto a posto, tutto a posto, era solo un sogno. John si aggrappa alla prima cosa che trova allungando la mano, e in qualche modo si rimette in piedi. Allunga il braccio per trovare la porta, inciampa in qualcosa e atterra contro la maniglia. Dall’altra parte c’è tanto vento e sente la sabbia volargli addosso. Barcolla in avanti appoggiandosi al muro del salotto.

-John?- sente Sherlock muoversi verso di lui, forse era sul divano, forse stava finalmente dormendo e lui l’ha svegliato.  Gli crolla addosso appena è abbastanza vicino, e si stringe alla sua camicia e cerca di non piangere perché è già abbastanza patetico così.

-John, cos’hai sognato? L’Afghanistan, presumo. E oh, Moriarty, naturale. Non vorrei sembrare egocentrico, ma è già stato appurato che sono egocentrico... C’ero anch’io, non è vero? Sì, non può essere altrimenti.-

John lo ascolta parlare premuto contro il suo petto, la voce che rimbomba nella cassa toracica. Sherlock gli ha messo un braccio intorno alle spalle e gli dà delle pacche leggere a intervalli regolari. E continua a parlare. Sherlock è lì, non è morto, Sherlock è il suo confine tra sogno e realtà. Sherlock è tutto quello che di approssimativamente buono gli è rimasto.

 

A volte John pensa a chi sarebbe potuto essere. Da bambino aveva intenzione di diventare un astronauta o un agente segreto con tante pistole. Le pistole le ha avute. E i fucili. E le bombe. Bisogna sempre stare attenti a cosa si desidera. Quand’era un adolescente voleva fare il cantante e avere una grande macchina, così avrebbe aspettato la ragazza della classe di fronte all’uscita da scuola e le avrebbe detto sali, ti faccio fare un giro, e lei avrebbe annuito con un sorriso smagliante. E poi ha dovuto scegliere sul serio e ha scelto medicina, e poi c’è stato l’Afghanistan, e poi Sherlock. Ora c’è una poltrona circondata da cose tra cui non è in grado di orientarsi, e no, non è come aveva sperato che andasse a finire.

 

Ieri ha telefonato Harry. Gli ha detto che è solo un coglione, che l’Afghanistan non gli ha insegnato nulla, che continua a fare le scelte sbagliate. John le ha risposto tu hai appena divorziato e sei alcolizzata, fossi in te non parlerei di scelte sbagliate. Harry l’ha mandato affanculo e ha chiuso la chiamata. Sembrava ubriaca. Che novità. Harry è sempre ubriaca, e ha sempre troppo bisogno di aiuto per essere in grado di dare una mano a qualcun altro, magari a lui, magari ora che sta singhiozzando aggrappato a un cuscino.

John ha sperato stupidamente che richiamasse e gli dicesse scusa, ero nervosa, ora sto meglio e oh, mi dispiace tanto per quel che è successo, ma Harry non è il tipo di persona che richiama qualcuno dopo avergli sbattuto il telefono in faccia, e il cellulare rimane silenzioso sul bracciolo della sua poltrona.

 

A volte Lestrade chiama, ma Sherlock dice no. Un omicidio in uno scantinato? Un furto in un museo? Una famiglia che si assottiglia giorno dopo giorno? No, non posso venire. No, ho da fare. No, davvero, non adesso. C’è Moriarty nella sua testa. Moriarty che è al suo stesso livello, la nemesi che ha sempre sperato di trovare, da qualche parte nel mondo. Moriarty che ha fatto del male a John. E’ stato un gioco, all’inizio, è stato eccitante. Ora è solo una necessità, come bere e mangiare e dormire. Più di bere e mangiare e dormire. Vorrebbe uscire di casa e non rientrare prima di avere il suo teschio da esporre sulla mensola del caminetto, ma c’è John che ha bisogno di averlo lì, accanto a lui. E John viene prima di tutto.

 

-Ventidue persone muoiono ogni anno per incidenti nella vasca da bagno, e questo solo in Gran Bretagna. Immagina quanto potrebbero aumentare le probabilità includendo la totale e recente perdita della vista.-

John sbuffa nell’aria calda della stanza da bagno. L’acqua sta riempiendo la vasca, e può sentire il profumo dei sali alla rosa che Molly ha regalato a Sherlock lo scorso Natale. Vorrebbe sprofondare nei meandri di qualsiasi cosa lì intorno abbia dei meandri.

-Quindi resterai qui... tutto il tempo?-

-Naturalmente. E’ un problema?-

John si sente avvampare sotto il maglione. –Sì, be’, sì, è abbastanza un problema. Sarò nudo. E tu sarai qui. E io sarò nudo.-

-L’hai già detto. E John, siamo entrambi abbastanza esperti di anatomia da conoscere le fattezze di un corpo umano adulto. Non vedo perché dovrebbe essere imbarazzante.-

John vorrebbe che Sherlock provasse a fingere di essere una persona normale, una volta ogni tanto. Solo per vedere com’è. –Non vedi perché...? Sherlock, è il mio corpo umano adulto! Non voglio che tu... che qualcuno... Non potresti aspettare fuori?-

Sherlock sbuffa. –Certo che no, potrebbe essere rischioso.-

-Strano che parli di rischi la persona grazie alla quale mi sono ritrovato legato a una sedia con una pistola puntata alla tempia. O con una bomba addosso. O cieco.-

Sente un fremito nel respiro di Sherlock, e gli fa male. Gli fa male tutto, e tutto insieme. –Volevo solo dire... Non fa niente, resta pure. Non c’è nessun problema. Grazie. Di preoccuparti per me, e... Scusami, io...-

-Va tutto bene, John. So ammettere di aver sbagliato. Ti ho messo in pericolo, è stata colpa mia. Mi dispiace.-

John allunga la mano e si arrampica lungo la camicia di Sherlock fino alla sua spalla. -No che non è stata colpa tua. Sapevo cosa avrebbe comportato lavorare con te. Me l’hai detto. E’ stata una mia scelta. E non tornerei indietro.-

-Certo che torneresti indietro, qualunque persona con un QI minimo lo farebbe. Forse persino Anderson.-

John ridacchia, e Sherlock abbozza un sorriso, ed è una delle cose più belle che siano successe da un mese a quella parte.

-Vado... Vado a svestirmi...-

-C’è un paravento alla tua sinistra, e dubito che le tue parti intime siano così interessanti da spingermi a guardarle, quindi rilassati.-

John annuisce e si toglie i vestiti, e l’acqua è così calda e così bella che può passare sopra anche ai sali da bagno alla rosa. Si lascia scivolare nella schiuma e respira piano, ascoltando il silenzio. Da qualche parte dietro di lui Sherlock apre un flacone di qualcosa, e pochi istanti dopo sente le sue dita sottili tra i capelli massaggiargli delicatamente la cute. E John sa che no, non tornerebbe indietro per nulla al mondo.

 

Da bambino gli piaceva andare a messa, la domenica mattina. La mamma diceva che ci si doveva vestire bene, e gli abbottonava il maglione sopra la camicia fresca di bucato, mentre Harry scalpitava nel suo vestitino rosa e nelle sue scarpette di vernice. Gli piaceva quando erano in chiesa ed era tutto così grande e bello, e tutte le persone dicevano insieme le stesse cose, e cantavano e sembravano così felici e in pace con se stesse. La mamma diceva sempre che Gesù ti aiutava, se recitavi una preghiera tutte le sere. John ha smesso di recitare preghiere in Afghanistan e ha stabilito che, se anche c’è un Dio da qualche parte, ha probabilmente di meglio da fare. Ora languisce su una poltrona attorcigliato intorno a una gamba che sta bruciando o marcendo, una delle due, e spera sul serio che Dio non esista, che ci fa una figura migliore.

 

Sherlock ha gli occhi chiari. Questo John lo sa. E sa anche che ha gli zigomi alti e i capelli scuri e ricci e morbidi. Ma il resto, i dettagli, le linee delle sue sopraciglia, la forma delle sue orecchie, tutto sta cominciando a svanire lentamente. Sherlock ha gli occhi chiari, ma sono grigi o azzurro ghiaccio? John ha paura che possa diventare solo una voce, una delle tante che gli riempiono la testa ogni volta che si lascia scivolare nel sonno per qualche minuto, ha paura che i suoi contorni sfumino nella nebbia fino a non lasciare altro che buio. Ha paura di perdere la persona più importante della sua vita.

 

John ha una scheggia di legno nel dito, gentile ricordo dello stipite della porta del bagno. Ha un livido sul ginocchio, per essere inciampato in una pila di libri accastellati in salotto. Ha una slogatura alla caviglia perché era assolutamente certo che quella non fosse la porta che dà sul pianerottolo. Si è ustionato il braccio cercando di farsi un tè mentre Sherlock era sotto la doccia. La gamba gli fa così male che a volte gli manca il respiro e strizza le palpebre e inizia a contare, uno, due, tre, finché il dolore non gli lascia il tempo di riprendere fiato. A questo punto gli occhi non dovrebbero essere un grande problema. Ma i lividi sbiadiscono e le ferite guariscono, e le fitte alla gamba prima o poi vanno via. La luce del sole, i colori, tutte quelle cose belle che la vita offre per farsi perdonare del resto, tutto questo lo ha perso per sempre.

 

-Avanti, Sherlock, ti sto solo chiedendo un piccolo aiuto!-

Sherlock pizzica le corde del violino con violenza, e John può sentire lo strumento implorare pietà tra le sue mani. John. John non lo sa che ci fa lì, sprofondato in una poltrona tra due persone che stanno per azzannarsi al collo e succhiarne via il sangue del loro sangue. John sta solo zitto nel suo angolino di salotto, ad aspettare che Mycroft se ne vada – arrivederci signor Holmes, ma certo, torni pure a trovarci quando vuole.

-Non ho intenzione di fare nulla per te. Sono impegnato.-

-Strano, non mi pare tu abbia lavorato a nessun caso di recente.-

-E tu come...?-

-Lestrade. Mi sono tenuto informato.-

Sembra che Sherlock abbia la ferma intenzione di staccare le corde dal violino una ad una. –Ma certo, avrei dovuto aspettarmelo. Dopo i servizi segreti fare due telefonate non deve essere stato così impegnativo.-

Mycroft ridacchia, battendo piano la punta dell’ombrello contro la gamba del tavolo. –Allora, lo farai?-

-Certo che no. Non esco da qui, ho... da fare.-

John si sente osservato, e inizia a rigirarsi un filo del maglione tra le dita.

-Oh, Sherlock, sii ragionevole, non puoi chiuderti qui dentro per sempre!-

Sherlock si alza e sbatte il violino sul tavolo. –Non sta a te dirmi cosa posso o non posso fare, mi pare.-

Si alza anche Mycroft, e John appoggia le mani ai braccioli della poltrona chiedendosi se sia il caso di fare altrettanto. –Ma certo. Bene, spero solo che la smetterai presto con questa storia della crocerossina. Non ti fa bene. Mi sto solo preoccupando per te.-

-Nessuno te l’ha chiesto, grazie.- La porta sbatte, e Sherlock torna sul divano a pizzicare le corde del violino ringhiando.

John china la testa, le mani ancora sui braccioli. Sente una stretta allo stomaco. –Ha ragione, sai.-

Sherlock smette infliggere sofferenza gratuita allo strumento e se lo appoggia in grembo. –Che vuoi dire?- chiede brusco.

-Ha ragione, non ti fa bene tutto questo, restare chiuso qui a prenderti cura di me come se fossi un bambino... Esci, vai a risolvere casi, vivi la tua vita e lasciami qui!- Si alza in piedi, finalmente i braccioli sono serviti a qualcosa, e allunga la mano alla ricerca del muro. Sherlock lo ferma stringendogli l’altro braccio.

-John, non è un problema per me. Ti resterò accanto per tutto il tempo in cui ne avrai bisogno.-

John cerca di liberare il braccio, ma Sherlock non molla. Sherlock non molla mai niente. –Non voglio che tu sprechi il tuo tempo con una persona inutile, non voglio essere un peso, non capisci? Va’ fuori, vai a fare il tuo lavoro, è la cosa più importante del mondo per te!-

-Ci sono altre cose importanti per me, e tu sei una di queste. Non ho alcuna intenzione di lasciarti indietro. Continuerò ad aspettarti.-

John riesce a divincolarsi e si appoggia al muro. –Sono io che so di non poterti mai più raggiungere.-

Sparisce in camera, e Sherlock non tenta di fermarlo. A letto, disteso nel buio, John sente la melodia calda e intensa di un violino. E sa che sta suonando per lui.

 

Una volta il tempo non gli bastava mai. Aveva troppe cose da fare, tavole anatomiche da imparare a memoria, pazienti da curare, casi da risolvere. Ora ha ventiquattro eterne ore, e dopo altre ventiquattro, ogni tanto dorme, ogni tanto resta sdraiato e ascolta. C’è sempre un cane che abbaia, da qualche parte. Un vicino che litiga con la moglie. Un’autoradio a volume troppo altro. Un bambino che piange. Una tv accesa su un canale di musica country. Macchine in coda, tamponamenti, venditori di frutta e verdura, turisti. C'è sempre qualcosa che si muove, qualcuno che vive. John resta fermo, aspettando che la polvere gli si depositi addosso e le ore gli scivolino sulla pelle, e magari domani, o il giorno dopo, o quello dopo ancora, prima o poi succeda qualcosa.

 

Ieri è venuta la terapista. Ha detto che passava di lì e ha pensato di salire a vedere come stava. Per caso aveva con sé gli appunti delle sue sedute precedenti, e altrettanto per caso sapeva tutto della discussione con Sherlock. Si è seduta accanto al letto e gli ha chiesto cosa fa durante la giornata, se esce, se non ha pensato di iscriversi a un corso di Braille o di partecipare a terapie di gruppo. Gli ha detto che deve capire che la sua vita non è finita, che ha solo bisogno di imparare tutto da capo, che se si troverà un hobby sarà tutto più semplice. John è rimasto zitto, e l’ha sentita scrivere sul suo taccuino. Non sopporta che la gente continui a dirgli cosa deve fare e cosa deve sentire, non sopporta che continuino a raccontargli bugie in cui non crederebbe nemmeno un bambino. Non sopporta più niente e nessuno.

 

Sherlock cerca di farlo uscire. Gli propone tè da Mrs Hudson, passeggiate nel parco, caffè in bar italiani. John a volte dice di no, a volte non dice niente ma non esce dalla stanza. A volte non mangia, spesso non dorme. Passa giorni interi a letto senza nemmeno aprire la finestra. Aspetta che Sherlock capisca che con lui non c’è proprio niente da fare e torni a vivere la sua vita, perché sa che andrà a finire così, prima o poi. Cosa succederà dopo, oh, non ne ha la minima idea. Ma Sherlock non demorde. Gli ha comprato un ipod, dei cd. Gli legge trattati di criminologia seduto sul bordo del letto, come quando la mamma raccontava le fiabe della buonanotte e Harry strepitava perché voleva sentire racconti di pirati. Gli resta accanto, giorno dopo giorno, con la testardaggine di un bambino. E John si odia perché vorrebbe sul serio che andasse avanti così per sempre.

 

-Usciamo.-

John si chiede se valga la pena di rispondere. Decide che in fondo troppo male non farà.

–No. Ne abbiamo già parlato, non voglio uscire-

-Non ti ho chiesto se lo volessi o meno, la mia era un’affermazione.- Lo solleva quasi di peso, di recente ha mangiato così poco, e gli infila un maglione dalla testa.

John cerca di divincolarsi, ma le braccia sono incastrate nel maglione e riesce a malapena a muoversi. –Sherlock, cosa stai..?-

Sherlock lo aiuta a districarsi e gli mette il giubbotto. –Mi pare chiaro, ti sto aiutando a vestirti, fuori fa freddo. Avanti, siamo in ritardo.-

John trova un paio di scarpe sul tappeto e si lascia prendere per mano. Gli sembra strano come si muove Sherlock, come se avesse bisogno di aiutarsi col muro per arrivare alla porta. Trova la maniglia solo dopo qualche istante. –Sherlock, che cos’hai?-

E’ assolutamente certo che stia sorridendo. -Sei perspicace, John. Non ci vedo nemmeno io.-

John si blocca con uno strattone, pietrificato. –Sherlock, cosa ti sei fatto?- Per la mente gli passano gli scenari da film horror del suo coinquilino che si fora gli occhi con un chiodo arrugginito, con un cacciavite, con un palo di legno.

-Niente di così melodrammatico, è solo una benda.-

John si scioglie per il sollievo, ed è così debole che deve reggersi allo stipite per non cadere. Si sente sospingere gentilmente avanti. Dopo la porta c’è il salotto, e nel salotto ci sono cumuli di roba tra cui ha avuto mesi per imparare ad orientarsi, e Sherlock invece non sa dove mettere i piedi, e doverlo guidare lo fa sentire importante, è quasi come valere di nuovo qualcosa. Si accorge suo malgrado di star sorridendo.

Fuori dal palazzo, fuori da tutto quello che ha conosciuto negli ultimi tempi, fuori il freddo lo coglie di sorpresa. Si stringe nel giubbotto tremando, e Sherlock gli mette la sua sciarpa intorno al collo.

Da lì in avanti John non sa bene che è successo. Sa che c’è stato il taxi, e che si è accorto solo dopo un buon quarto d’ora della mano di Sherlock ancora stretta nella sua. C’è stato un ristorante italiano, un bicchiere rotto e delle macchie di ragù sui vestiti. C’è stata l’opera, l’aria del soprano. Sa che ha creduto di poter morire e morire felice. Sa che, quando si è chiuso la porta di casa alle spalle, si è raggomitolato sul pavimento a piangere col viso nascosto tra le braccia, sfogando tutto quello che si è tenuto dentro per mesi. Sa che Sherlock si è chinato alla sua altezza, gli ha messo una mano tra i capelli e gli ha detto va tutto bene, va tutto bene, andiamo a dormire. Sa che si è tolto i vestiti ed è sprofondato nel cuscino, sa che Sherlock gli si è acciambellato accanto come un gatto soddisfatto, tirando il piumone a coprirli fino al collo.

E no, non sa come sia successo, ma forse gli infermieri, Sarah, Mrs Hudson, la terapista, il postino, forse non avevano tutti torto. Immerso nel buio, John ha sentito di avere di nuovo gli occhi pieni di luce.

 

 

 

 

Angolino

*infila il naso nel fandom* Ehm. Salve! :D

Dunque. 5k in sei mesi, direi che anche la mia vicina matta avrebbe fatto più in fretta. Forse pure il suo gatto. Ma comunque. Devo ringraziare tantissimo nacchan (no, non so inserire i collegamenti, ma sì, dovete assolutamente andare a leggere tutto quello che ha scritto, nel caso alquanto remoto che non l’abbiate ancora fatto). Dicevo, devo ringraziarla tantissimo perché ha betato la fic ed è merito suo se è presentabile e se io non sono nascosta sotto al divano piangendo su quanto scrivo male. Ecco, quindi graziegrazie grazie *stritola*

E boh, direi che sono già fin troppe note per una fic sola, qualunque cosa abbiate da dire ditela, non siate timidi, venghino signori, venghino! <3

 

   
 
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