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Autore: Panenutella    26/08/2011    3 recensioni
Questa ff è basata sulla canzone "Ti regalerò una rosa" di Simone Cristicchi. Se ho sbagliato categoria, non esitate a dirmelo e provvederò immediatamente. Racconta com'è andato (secondo me) quel fatidico incontro tra Antonio e Margherita di cui si parla nella canzone. Per maggiore comprensione, vi suggerisco di ascoltarla. Spero vi piaccia!
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ti regalerò una rosa

20 agosto 2003

Come ogni mattina mi alzo, scendo giù al bar, bevo un caffè e poi compro il giornale all’edicola all’angolo della strada. Poi mi siedo sull’autobus e mi dirigo verso il mio posto di lavoro, la stazione dei Carabinieri.
Entro e vado nel mio ufficio: sistemo le mie carte, aggiorno la mia agenda… oggi non ho impegni. Bene, appena finisco potrei andare al parco. Chiudo l’agenda, sbuffo e mi guardo intorno: ho già svolto il lavoro indietro ieri sera, quindi non mi è rimasto niente da fare. Niente scartoffie, niente casi arretrati… Noia mortale.
Qualcuno bussa alla porta.
- Margherita?
È il mio capo. Entra e mi dice di seguirlo: dei ragazzi hanno trovato un cadavere in un vecchio manicomio.
Ci dirigiamo con due pattuglie verso il luogo del ritrovamento e quando scendo dall’auto, mi fermo. Non posso credere che sia proprio quello, il posto. Non a distanza di vent’anni. Impedisco alla memoria di tornare indietro a quel giorno ed entro insieme ai miei colleghi. Un agente di polizia ci guida fino a una saletta con un paio di poltrone sgangherate. L’aria afosa d’agosto entra dalle finestre con i vetri rotti. Intorno non c’è niente, solo erbacce e nuda terra. La strada principale è a qualche chilometro di distanza. Non mi sorprende che dei ragazzi siano entrati proprio in questo posto: le voci di un manicomio vecchio e abbandonato pieno di fantasmi avevano attratto anche me, all’epoca.
Ci avviciniamo a una poltrona rivolta verso la finestra bucata, e vedo il cadavere. È un uomo, seduto malamente sulla poltrona: il braccio destro penzola dal bracciolo, mentre il sinistro è appoggiato sulla gamba. Intorno a lui ci sono contenitori vuoti di medicinali scaduti da decenni. Anche se è invecchiato, non faccio fatica a riconoscerlo. Antonio. È proprio come lo ricordavo.
Dei poliziotti cominciano a raccogliere le scatole di medicinali con dei guanti di lattice e io do una mano. Mentre sto raccogliendo le scatole alla destra della poltrona, proprio sotto al braccio penzolante, scorgo qualcosa di giallognolo e appuntito per terra, sotto il sedile. Guardo se non ci sono curiosi che mi stanno osservando e lo raccolgo. È una lettera, due fogli piegati che portano un nome sopra. Margherita. Per poco il cuore non mi esce dal petto. Nascondo la lettera sotto la tunica igienica e continuo il lavoro. Sto compromettendo le prove, lo so, ma non m’interessa.
Finita la mia giornata di lavoro, vado al parco. Ho sempre la lettera nascosta, al sicuro. Cerco un luogo appartato e mi siedo ai piedi di un albero, all’ombra. Col cuore a mille e le mani che tremano apro la lettera. O meglio, spiego i fogli.
È scritta con una grafia tremolante, con le lettere tonde, come se a scriverla fosse stato un bambino. È piena di errori di ortografia e di doppie sbagliate, ma non me ne curo. Leggo solo il testo della lettera.

Ti regalerò una rosa
Una rosa rossa per dipingere ogni cosa
Una rosa per ogni tua lacrima da consolare
E una rosa per poterti amare
Ti regalerò una rosa
Una rosa bianca come fossi la mia sposa
Una rosa bianca che ti serva per dimenticare ogni piccolo dolore.


15 maggio 1974

È sabato. Tutti i miei amici parlano in continuazione del manicomio stregato. Dicono quant’è bello avere qualcosa di stregato da queste parti, ma nessuno di loro ci è mai entrato. Ci stiamo organizzando per decidere chi entrerà per primo. Durante la pausa pranzo della biblioteca mettiamo tutti i nostri nomi in un astuccio e mescoliamo. Poi Giuseppe tira fuori un bigliettino.
- Margherita! – urla, e parte un applauso. Ho un po’ di paura, ma annuisco. Poi è il turno di Claudia, che estrae un altro nome.
- Claudia… - sussurra. Noi ridiamo e applaudiamo. Claudia è una fifona. Tocca a Francesco. Abbiamo deciso che tre di noi saranno i primi a entrare nel manicomio.
- Alberto! – annuncia Francesco, e lui comincia a tremare. Anche Alberto è un cacasotto.
Tutti i non-estratti decidono che entreremo nel manicomio quella stessa notte, ma loro non verranno. Io, Claudia e Alberto abbiamo il compito di andare a curiosare e poi riferire tutto quello che abbiamo visto agli altri, a scuola.

Quella notte ci ritroviamo tutti e tre sotto casa mia. È mezzanotte passata e anche se è maggio, tira un vento gelido. Saliamo sui nostri motorini. Claudia non smette di battere i denti mentre guidiamo verso il vecchio manicomio abbandonato.
Una volta davanti all’entrata rivolgo uno sguardo d’incoraggiamento ai due ragazzi dietro di me, che battono i denti per il freddo e la paura, e apro la porta. Dentro è buio e polveroso, e il vento entra dai vetri spaccati delle finestre. I vetri intatti sono opachi per lo sporco. Alberto si tappa il naso. Oltre ad essere occhialuto e fifone, è anche allergico agli acari.
- Non starnutire, mi raccomando. Potresti svegliare il fantasma! – Gli sussurro nell’orecchio. Claudia corre a prendermi la mano. Continuiamo a esplorare il piano terra: i nostri passi riecheggiano nel silenzio del palazzo e fanno scricchiolare le assi del pavimento di legno. Alberto non ce la fa più a trattenere il respiro. Si riempie i polmoni d’aria e accumula una quantità tale di polvere che farebbe starnutire anche me. Proprio come Eolo in Biancaneve e i sette nani, lancia uno starnuto che si potrebbe sentire fino all’autostrada. Il fragoroso “Etchiumm!” riecheggia in tutto il palazzo, e dietro di noi sentiamo cadere qualcosa di pesante. Claudia e Alberto cominciano ad urlare e scappano via, fuori dal manicomio, lasciandomi sola nel palazzo. Impreco: Alberto oltre alle chiappe ha portato via anche la torcia che avevo rubato a mia madre. Mi giro e mi dirigo verso quello che avevamo sentito cadere: solo un bastone di legno. Mi chino per guardarlo meglio. Sento qualcuno dietro di me, mi volto e sbatto contro qualcosa di duro. Cado a terra: non vedo nient’altro che stelle, poi chiudo gli occhi.

Io sono come un pianoforte con un tasto rotto,
L’accordo dissonante di un’orchestra di ubriachi,
Che giorno e notte si assomigliano
Nella poca luce che trafigge i vetri opachi.

Mi sveglio alla luce di una candela, poggiata davanti a me. Cerco di muovermi, ma ho il polso sinistro legato con dello spago ad un termosifone arrugginito. Una volta abituatami alla luce della piccola fiamma, guardo dove sono. È una stanza diversa da quella in cui ero prima. C’è sempre il pavimento di legno, ma intorno alla candela, appoggiata per terra, ci sono un sacco di palline bianche. Ce ne sono anche intorno a me. Con la mano destra ne prendo una e la guardo: polistirolo.
- N-non toccare la mia neve!
Sobbalzo. La candela illumina anche la sagoma di qualcuno, semi nascosto nella penombra. È seduto per terra e si avvolge le ginocchia con le braccia, dondolandosi spasmodicamente avanti e indietro.
- Chi sei? – chiedo. Adesso ho paura.
La sagoma si muove e spegne la candela. Per pochi istanti siamo nel buio più completo, poi scatta un vecchio interruttore e una lampadina appesa sul soffitto s’illumina con qualche difficoltà. La figura dell’uomo viene illuminata completamente. Non è un uomo, è un ragazzo di circa vent’anni… o comunque di qualche anno più grande di me.  È in piedi e mi guarda impaurito. Ha l’aspetto trascurato, è vestito con un giaccone lurido e i capelli sono tagliati malissimo, come se se l’avesse fatto da solo senza uno specchio. Forse è un barbone.
- Chi sei? – ripeto.
Viene scosso da un fremito e dice:
- Prendete un telescopio e misurate le distanze…
- Cosa?
- Guardate, tra me e voi, chi è più pericoloso.
- Io non sono pericolosa – affermo.
- Io non sono pericoloso – ripete lui, ma ha cambiato il soggetto.
La mia paura si acquieta un po’. – Io mi chiamo Margherita, tu chi sei?
- Se ne sono andati via senza di me – dice.
- Chi?
- Ero nascosto.
- Chi se n’è andato via? – incalzai.
- Gli altri. – Si avvicina di un passo.
Riflettei un attimo. – Intendi gli altri ricoverati? – Lui annuisce.
- Le guardie mi picchiavano. Ma io ero un bambino. Io non sono pericoloso.
- Io non voglio picchiarti – gli assicuro. Tendo una mano verso di lui. Indietreggia.
 - Tranquillo, non ti farò del male. – Agito le dita, e lui timoroso si avvicina. Ora è in piedi davanti a me e mi sovrasta.
- Tu non sei una guardia?
- No, io sono Margherita.
Si mette in ginocchio davanti alla mia mano. Io la alzo e gli scompiglio i capelli sporchi. Lui trema. Gli faccio una carezza. Chiude gli occhi, beato, e poi mi guarda con occhi lucidi. Di scatto allunga le braccia verso il polso legato al termosifone e scioglie il nodo. Abbasso il braccio e mi massaggio il polso. Mi avvicino poco a lui.
- Come ti chiami?
- Antonio. – risponde.
- Come sei finito qui?
- Avevo otto anni. Parlo col demonio.

Credevo di parlare col demonio
Così mi hanno chiuso quarant’anni dentro a un manicomio.
Ti scrivo questa lettera perché non so parlare
Perdona la calligrafia da prima elementare
E mi stupisco se provo ancora un’emozione
Ma la colpa è della mano che non smette di tremare.

- Antonio, mi aiuti a tirarmi su?
È riluttante a prendermi la mano, ma poi me la stringe e fa forza per tirarmi in piedi. Appena mi alzo si allontana in fretta, appiattendosi contro una parete.
- Perché? – gli chiedo semplicemente.
- Me la faccio sotto. Ho paura.
- Perché?
- Tu sei sana.
- E allora?
- Per la società dei sani siamo sempre stati spazzatura.
Guardo in basso, imbarazzata. – Tu non sei spazzatura – sussurro. Non dice una parola. Mi dondolo sui talloni. – Quanti anni hai? – Scuote la testa.
- Non lo so. Sono nato nel ’54.
- Hai vent’anni, quindi. Io ne ho quindici.
Inclina la testa e mi guarda, come se l’età non avesse importanza in un posto come quello.
- Mi fai vedere la tua casa?
Mi guarda sorpreso, riflette. Poi apre una porta sul lato della stanza e scompare. Io lo seguo. Mi conduce attraverso corridoi, scale, stanze di legno.
- Puzza di piscio e segatura. – dice passando davanti a quelli che sembrano i bagni.

I matti sono punti di domanda senza frase
Migliaia di astronavi che non tornano alla base
Sono dei pupazzi stesi ad asciugare al sole
I matti sono apostoli di un dio che non li vuole.

- Questo è l’archivio?
- Le cartelle cliniche.
Ha aperto una porta di acciaio al secondo piano, alla quale aveva rotto la maniglia anni prima, e mi sono ritrovava tra scaffali pieni di cartelle ingiallite.
- Sai qual è la tua?
Scuote la testa. -  Sono tutte morte.
- Chi?
- Le cartelle cliniche. A volte noi ci sentivamo vivi.
Non capisco. Poi vedo che le cartelle hanno copertine di colori differenti, ma sono tutti sbiaditi e consumati. Comprendo.
- Erano di diverso colore. Per questo erano vive? – Annuisce.
- Verde, innocuo. Arancione, camicia di forza. Nero, elettroshock.
- Di che colore era la tua?
- Il demonio è malvagio. È nero. Parlare con lui è sbagliato. Io sono pazzo. Ma lui non mi aveva detto di essere il demonio. Lui si chiamava Giovanni.
- Lui chi?
- Io giocavo con lui, ma dicevano che lui era il demonio. Loro non potevano vedere Giovanni. Ma lui era l’unico con cui giocare, su nei campi. Papà non capisce. Giovanni era l’unico della mia età. Papà mi ha mandato qui. Papà non voleva che badassi alle pecore. Papà diceva sempre: “Potresti usarle per sfamarti, demonio!”. Poi un giorno mi hanno portato qui.
Continuava, parlando, a ripetere il soggetto della frase.
- Quindi ti facevano l’elettroshock? – Si prende ciuffi di capelli e si dondola avanti e indietro.
- Io sono matto.
L’avevano rinchiuso perché parlava con il suo amico immaginario. Soltanto per questo. Era finito in manicomio perché si era inventato un amico con cui parlare. E la sua vita era stata rovinata dall’elettroshock. Crede di essere pazzo, ma non lo è.
- Non sei matto.
- Sì, sono matto – ribatte.
- No-oo!
Mi guarda, con occhi vuoti e pieni di terrore al tempo stesso. – Perché dici questo?
- Anch’io avevo un’amica immaginaria con cui giocare. Si chiamava Priscilla. – Sorrido al ricordo. - Anche lei era l’unica della mia età, ma io sono sana. Anche tu sei sano. Tutti hanno un amico immaginario.
Comincia a piangere. – Anch’io sono sano? – chiede con la voce rotta dal pianto. Lo abbraccio.
- Certo che sei sano – lo rassicuro. – Tutti hanno un amico immaginario. Tu sei solo rimasto solo troppo a lungo.
Singhiozzando risponde all’abbraccio. All’improvviso, il suono dei rintocchi di una campana trasportati dal vento mi dice che sono le due di notte.
- Antonio – dico. – Adesso devo tornare a casa, ma farò in modo che tu esca da qui. Per sempre.
Lo prendo per mano e lo trascino verso la porta da cui io, Claudia e Alberto siamo entrati.
Prima di uscire, gli faccio un’altra carezza. Lascio la sua mano e varco la porta, incamminandomi verso il punto dove avevo lasciato il motorino.
- Margherita? - Mi volto verso di lui. È la prima volta che lo sento chiamare il mio nome. – Tornerai? – mi chiede, speranzoso. Sorrido.
- Sì, tornerò. Te lo prometto.

20 agosto 2003

Quella notte tornai a casa e mi buttai sul letto, ma non riuscii a dormire. Continuavo a pensare ad Antonio, quel ragazzo la cui infanzia era stata ridotta in cenere dalle fobie di un padre pazzo e antiquato che l’aveva fatto rinchiudere in un manicomio all’età di sei anni. Decisi di raccontare tutto a mia madre o alla polizia, e che sarei tornata da lui il giorno dopo.
Ma quella domenica mattina mia madre mi aveva comunicato, prima che io aprissi bocca, che quello stesso giorno saremmo partite alla volta di Verona, per trasferirci nella casa dei nonni. Avremmo comprato lì tutto il necessario. Cercai di ritagliare un momento per avvertire Antonio, ma quel momento non mi fu concesso. Mia madre mi caricò su un treno e mi portò a Verona, dove restai fino al 1994. Poi tornai nella mia città natale, dove passai il corso per diventare poliziotta. Durante quei vent’anni non passò giorno senza che pensassi al povero Antonio, rimasto solo in attesa che io tornassi.
Finisco di leggere la lettera.

Dei miei ricordi sarai l’ultimo a sfumare
Eri come un angelo legato ad un termosifone
Nonostante tutto io ti aspetto ancora
E se chiudo gli occhi sento la tua mano che mi sfiora.

Gli occhi si riempiono di lacrime. Alcune cadono sul foglio. Leggo le ultime frasi.

Mi chiamo Antonio e sto sul tetto
Cara Margherita, sono vent’anni che ti aspetto.
I matti siamo noi quando nessuno ci capisce
Quando pure il tuo migliore amico ti tradisce.
Ti lascio questa lettera, adesso devo andare
Perdona la calligrafia da prima elementare
E ti stupisci che io provi ancora un emozione
Sorprenditi di nuovo perché Antonio sa volare.

Mi asciugo con una manica della felpa le lacrime che mi rigano le guance, chiudo la lettera e me la rimetto in tasca. La nasconderò. Nessuno la troverà mai.

24 agosto 2003

L’autopsia ha stabilito che Antonio è morto per overdose di farmaci scaduti negli anni tra il 1955 e il 1967. Dato che nessuno ha reclamato il corpo, Antonio è stato cremato come anonimo. Ora mi trovo nel cimitero, davanti ad una lapide simbolica che ho appena comprato e fatto installare. Sopra ho fatto incidere:

Antonio
1954 – 2003

Ti regalerò una rosa bianca
che ti serva per dimenticare
ogni piccolo dolore.
   
 
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