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Autore: Kukiness    27/08/2011    16 recensioni
PRIMA CLASSIFICATA al concorso "La loro prima volta - Rosso con classe", di Jakefan e Kagome_86
Non mi ero mai visto così. Non avevo mai visto niente così. Limpido, immenso, perfetto. Fu come se la nebbia nella mia testa si fosse diradata. Quil mi sorrise, mi sorrise come può fare solo un lupo, in un’altra dimensione, dove non si può mentire.
[Embry/Quil]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quileute
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: New Moon
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La lunga strada verso casa
 






My body is a cage
that keeps me
from dancing with the one I love



 
Per come la vedo io, esiste un tacito accordo secolare tra i frequentanti degli spogliatoi maschili di palestre e piscine varie: tieni i tuoi occhi da maschio alla larga dal mio coso.
E con ‘alla larga’ intendo proprio alla larga, che più largo di così si muore. Già indugiare sul petto di qualcuno è, beh, disturbante, perché per quel qualcuno i tuoi occhi da maschio saranno comunque troppo vicini alle sue palle, accuratamente occultate sotto diversi strati di asciugamano. E se i tuoi occhi da maschio vogliono superare quell’invisibile e invalicabile confine – che credo sia situato più o meno all’altezza delle clavicole, ma comunque “Amico, perché mi stai fissando le clavicole?” – allora è perché vuoi proprio vedere lì. Sotto l’asciugamano. Il coso.
Da che mondo è mondo, se vuoi vedere il coso è perché il coso ti piace. Non ci sono scuse. Non può essere ‘semplice curiosità’, perché il tuo, di coso, lo vedi e lo smanacci praticamente tutti i giorni; non può essere uno scherzo, perché, ehi, su due cose non si scherza: sulla mamma e sul coso. O meglio, sì, si può anche scherzare, però il punto è questo: puoi scherzare sulla vita sessuale della madre di qualcuno solo se non ti sei effettivamente fatto la suddetta madre. Vale lo stesso discorso per il coso.
Nello spogliatoio, comunque, ci sono infiniti modi per tenere gli occhi occupati. L’armadietto, ad esempio, è pieno di oggetti e di scritte interessanti. Tipo il mio deodorante, che contiene cyclopentasiloxane, alcol sterile, C12-15 alkyl benzoate e talco, e ha un’efficacia anti-odore testata per ventiquattr’ore! E questo di solito mi tiene occupato mentre David si allaccia l’asciugamano in vita. Quando Michael, seduto vicino a me sulla panca, si cambia i jeans, conto i bottoni della mia camicia, o rileggo l’elenco dei nostri sponsor sul retro della mia divisa. Quando proprio non so che altro fare, mi allaccio e mi slaccio ripetutamente le scarpe, cercando di fare il Nodo Perfetto.


Lo trovo che corre, veloce e lontano, lungo uno scuro pendio.
È perfetto.
Non ha la forma d’uomo né di bestia, ma un corpo segreto che solo io conosco, di fiammante bellezza e di pensieri puliti.
Il suo odore è rimasto impigliato nell’erba nera, una scia scintillante che potrei seguire anche a occhi chiusi. Il pensiero mi fa sorridere.
La foresta è silenziosa. In cielo brillano le stelle e sono stelle che non ho mai visto, che un occhio umano non potrebbe immaginare, eppure conosco ad uno ad uno i nomi di tutte queste costellazioni. Sono le stelle che non tramontano, le stelle che nessuna aurora può far impallidire, la storia del mondo, la mappa del cielo e della Terra, e io la conosco perché ne faccio parte anch’io.

Che fai, cosa guardi, cosa aspetti, mi chiede Quil da lontano, la voce più simile a un odore che a un suono. Seguimi. Non vieni? Hai cambiato idea? Non vuoi venire?
Certo che voglio.


Mi sono accorto di non voler assolutamente mai e poi mai guardare il coso di un altro uomo più o meno la sera della mia prima ronda nei boschi, con Sam e gli altri.
Mi ero già trasformato per i fatti miei due volte, prima di quella sera. Era stato figo e traumatico allo stesso tempo – più o meno come la prima volta che cadi dalla moto. Sapevo che i vestiti facevano una brutta fine: avevo sacrificato alla causa della licantropia un paio di felpe e dei pantaloni mimetici che mi piacevano pure parecchio. Sam aveva escogitato il metodo del laccetto alla caviglia e il mio primo pensiero era stato “Wow, figo, il mio guardaroba è salvo”. Non avevo realizzato che per legarti i vestiti alla caviglia devi prima toglierteli. Tutti. Mutande comprese, ovviamente. Perché non funziona come con Hulk, a cui esplodono tutti i vestiti addosso tranne i jeans in quel posto lì; a noi licantropi tocca toglierci le mutande! E non funziona nemmeno come con Superman e le sue dannate cabine del telefono: devi farlo davanti a tutti, in gruppo, evviva!, senza deodorante anti-imbarazzo su cui fissare lo sguardo.
«Embry? Ci vogliamo dare una mossa?»
Paul non vedeva l’ora di tuffarsi nel bosco. Saltellava davanti a me, completamente nudo e impaziente, facendo ballonzolare tutto quanto sotto i miei occhi. Avrei voluto morire. O gridare. O nascondermi. O tutte queste cose insieme, pur di non vedere.
Mi girai di scatto per dargli la schiena, ma mi resi subito conto che quella era una cosa troppo sospetta da fare, così ruotai di nuovo sui talloni come un disperato: il risultato fu una goffa piroetta su me stesso, il tutto per ritrovarmi esattamente al punto di prima, con il corpo nudo e perplesso di Paul davanti a me.
«Che diavolo stai facendo? Non è mica così che ci si trasforma,» mi disse e mulinò un dito in aria. «Non sei mica Wonder Woman, idiota.» Mi diede le spalle e balzò in avanti. L’aria si fece elettrica e più densa, il corpo di Paul si allungò in lampo scuro e quando toccò di nuovo terra era su quattro zampe, sotto forma di grosso lupo dal pelo grigio.


Gli corro dietro.
L’aria è umida, profuma di sale e di nebbia. Neppure il mare ha più segreti, la provenienza delle onde, i venti che le gonfiano, i colori delle profondità, le creature che vi abitano. Ogni cosa ha un nome, ed è un nome che posso pronunciare e conoscere solo adesso, perché nell’altro mondo non avrebbe senso, sbiadirebbe e non potrei raggiungerlo.

Eccolo, eccolo, dice Quil. Lo trovo con le quattro zampe affondate nella sabbia, la schiuma che gli solletica le caviglie, gli occhi lucenti verso di me.
Sei bellissimo. La mia lingua usa parole nuove e antiche nello stesso tempo. Dice cose che sapevo e che ho scoperto solo adesso. Sei bellissimo.
Non mi bastano più due occhi per guardarlo. Affondo il muso nel pelo del suo collo e inspiro forte. Quil ride, mi lecca uno zigomo. Lo spingo con la testa, strofino il naso sotto la sua mandibola. Non servono mani per accarezzarlo, gambe troppo lunghe, gomiti appuntiti, dita ossute. La carne che ho addosso è mia, mio il pelo, mie le ossa, ed è tutto al posto giusto.

Sei bellissimo, dice, dico, diciamo, siamo.


Ho sempre pensato che bastasse non guardare.
Del resto, quando sei umano, è così che va. Il coso del tuo vicino non fa mica rumore – in condizioni normali – quindi puoi tranquillamente ignorare la sua esistenza, finché non entra nel tuo campo visivo.
Basta non guardare. Basta non pensarci.
Da quando il mio corpo funziona da lupo, però, le cose sono un tantino cambiate.
Sono circondato dai corpi. Da muscoli in tensione, da pelle salata, da respiri profondi, dal calore del ventre, dal pelo folto, dai nasi bagnati; riconosco la cadenza del passi di ciascuno, il battito del cuore, l’odore della pelliccia. So che la cerniera dei pantaloni di Paul è rotta, perché l’ho sentita schioccare tra le sue dita. So che la maglietta rossa di Jared è troppo pesante e che lo fa sudare – ha un odore salato, simile a quello del rame – ma lui si ostina a metterla, perché gli porta fortuna. So con che velocità si scioglie una caramella al miele sotto la lingua calda di Sam. E io non posso nascondermi da tutto questo.
Non posso non sentire queste cose.


La trasformazione fa vibrare l’aria intorno a noi. L’elettricità mi fa pizzicare i peli sul retro del collo.
Il corpo di Quil è bollente. Ha le dita affondate tra i miei capelli, le gambe incastrate tra le mie, la bocca premuta contro il mio collo. Le mie mani sono sulla sua schiena, il mio naso è schiacciato contro la sua tempia. Solleva la testa, mi bacia la bocca. È salato. L’acqua del mare mi scroscia contro le orecchie, sono sordo, sono cieco.
Adesso ho le mani, le dita, i pollici, eppure è vero che non servono mani per accarezzarlo. Strofino le gambe contro le sue, pancia contro pancia, lo stomaco caldo. Gli afferro i fianchi, li premo contro i miei, lo bacio, lo bacio, lo bacio. È una lotta di gomiti e di braccia che si incastrano nei posti sbagliati. Quil ride contro la mia bocca. Lo spingo di lato, per farlo cadere sulla schiena. La sabbia mi gratta la lingua quando gli bacio il petto, si intrufola sotto i denti mentre scendo verso lo stomaco.
Il cuore mi pompa nelle orecchie, furioso come il mare. Lecco l’ombelico, lo spessore delle anche, affondo il naso nella peluria scura e riccia – la legna bruciata, l’erba nera, il sale del mare.
Non riesco a respirare.
Dio, come si fa a respirare mentre si fanno certe cose?



C’era un’altra cosa che mi terrorizzava, le prime volte.
Spogliarmi così, in mezzo al nulla, insieme a tutti gli altri, mi metteva a disagio, ma mi veniva quasi da vomitare all’idea di condividere i miei pensieri con loro. Soprattutto quello che non pensavo. Non sapevo cosa avrebbe potuto rimanermi in testa, dopo esserci spogliati tutti insieme, schegge di pensieri che non potevo controllare, che mi si conficcavano ovunque, seppelliti sotto mucchi di parole inutili, come gli additivi chimici del Gatorade – il suo fosfato monopotassico è più facile da ricordare del cyclopentasiloquelrobolì del deodorante.
Che cosa mi galleggiava in testa? Che cosa avrei potuto ricacciare sotto, e cosa no? Mi immaginavo già qualcosa tipo un’insegna al neon sulla mia fronte, che lampeggiava “Non guardare il coso di Paul, che sennò se ne accorge” – seguito dalle urla di Paul “Ma che diavolo di problema hai col mio coso, amico?”.
Poi però no.


Quil affonda le mani nella sabbia. Irrigidisce le gambe, inarca la schiena, sibila qualcosa tra i denti che mi arroventa la pancia. Mi trovo stretto tra le sue ginocchia. Gli afferro un polso alla cieca, tuffo le sue dita tra i miei capelli.
Stringi me. Stringimi. Ricordami come si respira. Aiutami.



Mi ritrovai in un mondo senza parole. Ero io ed ero tutti, nello stesso momento. Non li ascoltavo, io li sentivo. I loro pensieri prendevano forma nella mia mente e non sapevo più dove cominciavo io e dove finivano gli altri.
Però io c’ero, e intorno a me c’era la foresta. Improvvisamente il disagio dei vestiti, che penzolavano dalle nostre caviglie, era scomparso. Vestiti? Roba da umani. Cosa c’è da nascondere? Che cosa assurda. L’erba cresceva sotto le mie zampe, la terra grassa mi si schiacciava tra gli artigli. Qualcuno nella riserva stava bruciando della legna, e io lo sapevo, e sapevo dove fossero il nord e il sud, perché improvvisamente tutto, intorno a me, aveva un senso e un posto. La Terra ruotava e io sapevo in che verso lo faceva, senza segreti, senza vestiti, ed era meravigliosa.
Meravigliosa.
L’ansia tornava a montarmi addosso nel momento in cui dovevamo tornare umani. Mi ritrovavo nudo come un verme, vulnerabile e solo nella mia testa. Quelli intorno a me tornavano a essere corpi estranei che non potevo guardare.


Troppo forte. Troppo lento. E se lo ferisco con i denti? E se lo stringo troppo? E se lo stringo troppo poco? E se la lingua gli dà fastidio?
E se gli facessi il solletico? Credo che morirei se sapessi di fargli il solletico. Eppure non sembrava tanto difficile, in quel porno. La tizia si limitava ad andare su e giù. Però era una tizia. Forse se sei una ragazza è diverso. Forse con una ragazza è diverso.
Quil mi stringe i capelli e geme piano. Anche con l’acqua che ci scroscia intorno riesco a sentirlo, un ringhio impaziente, selvatico. Gli piace. Gli piace! Mi esplodono i fuochi d’artificio nel cervello.
Non solo nel cervello.



Poi un giorno accadde una cosa strana.
Era sera. L’aria profumava dello spezzatino di Emily che bolliva sul fuoco e di erba appena tagliata. Io e Quil stavamo tornando dal bosco. Lui trotterellava qualche passo davanti a me. Facevo sempre in modo di essere l’ultimo della fila, durante le ronde: mi trasformavo prima degli altri e mi rivestivo velocemente. Non volevo rischiare di pensare qualcosa di... inappropriato. E così feci quel giorno. Mi ritrovai a piedi nudi sull’erba. Mi chinai in fretta per sganciarmi i pantaloncini dalla caviglia. Quando alzai lo sguardo, scoprii Quil immobile davanti a me che mi fissava.
Era ancora in forma di lupo, ma i suoi occhi erano lucenti ed espressivi, umani, e in quel momento erano fissi sul mio corpo nudo. Credo di essere arrossito fino alla radice dei capelli. Non ho avuto nemmeno la prontezza di riflessi di coprirmi con i pantaloncini che stringevo tra le mani. Mi sono trasformato di nuovo senza pensarci. Volevo solo nascondermi, sparire, scappare, desideravo chili di pelo addosso e non essere più un ragazzo nudo.
Mi ritrovai a ringhiargli addosso, non so neppure io perché.
Che diavolo hai da fissare? Che problemi hai col mio coso?
Non feci in tempo a sentirmi stupido per averlo detto. Fu una specie di lampo. Mi vidi attraverso gli occhi di Quil. Nell’abbagliante limpidezza dei suoi pensieri, mi vidi come lui mi aveva visto in quel momento: bruno, nudo, slanciato, venato di luce, circondato dal mormorio del mio potere di lupo.
Nessun problema, mi disse con voce tranquilla e senza suono, sei bellissimo.


Il tempo riprende a scorrere normalmente qualche minuto dopo.
Quil appoggia la testa sulla mia pancia. Gli faccio fare su e giù respirando.
«Mi fai venire il mal di mare.»
Rido e la mia pancia trema.
«Così è anche peggio!»
«Puoi lamentarti tra cinque minuti? Al momento sono ancora nell’iper-spazio. Appena scendo ti richiamo, promesso.»
Mi sogghigna contro l’ombelico. «Tra cinque minuti me ne sarò dimenticato. Si sta così bene, qui.»
Si lascia cadere al mio fianco. Il mare ci scivola intorno. Cerco la sua mano tra la schiuma.
«Si chiederanno che fine abbiamo fatto,» mormora.
«M-mh.»
Quil ridacchia. «E poi mi è venuta fame. Che dici, torniamo a casa?»



Non mi ero mai visto così. Non avevo mai visto niente così. Limpido, immenso, perfetto. Fu come se la nebbia nella mia testa si fosse diradata. Quil mi sorrise, mi sorrise come può fare solo un lupo, in un’altra dimensione, dove non si può mentire.
Vieni con me, mi disse, mi chiese, mi promise, mi pregò. E di nuovo le sue parole presero forma, le immagini mi scivolarono in testa e mi completarono.
Sì. Sì.
E lo seguii.
Ero libero.


«Siamo già a casa.»


 
but my mind holds the key
Arcade Fire – My body is a cage










notenotevoli
Questa storia è stata scritta per il concorso La loro prima volta – Rosso con classe, organizzato da Jakefan e Kagome_86, a cui ho tirato un sacco di accidenti quando mi hanno comunicato la coppia predefinita. Ho rotto le palle a San Abraxas Martire per circa una settimana, per cavare un ragno dal buco. Il signor scrocco e mia sorella Caterina mi hanno supportata e sopportata.
Ogni fatica è stata ripagata dal meraviglioso commento che mi hanno lasciato le due organizzatrici. Mi hanno illuminato la settimana.
   
 
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