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Autore: HopeToSave    01/09/2011    3 recensioni
La sorte o l'apatia lo portarono nuovamente alla finestra, in cerca di qualche oggetto interessante, che magari lo ispirasse [...]
Nulla lo attirò più di un gatto maculato.
Nulla lo attirò, dopo, più di un netturbino.
Nulla lo attirò, ancora dopo, più del suo nuovo, interessantissimo, vicino di casa.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Autore: HopeToSave

Titolo: Due lacrime, come parole.

Fandom: Originali, Romantico

Genere: Romantico, Drammatico

Rating: Arancione

Avvertimenti: One Shot, Lime, Slash, Yaoi

 

 

Due lacrime, come parole.

 

 

 

Tancredi si fermò ad osservare fuori dalla finestra. Continuò a tenere stretto tra le dita il libro che stava leggendo, provando ad immaginare la terra straniera ma a lui in particolare molto vicina. Il protagonista parlava di cose fuori dal mondo, del suo rapporto morboso con quell'altro affascinante personaggio, di gesti che eliminavano ogni forma di privacy o dignità.

Non sopportava, Tancredi, quel genere di uomini.

Era così strano che lui cercasse un rapporto normale con un uomo normale conosciuto in maniera normale? Perché bisognava sempre strafare con scene melodrammatiche, personalità tenebrose e scelte difficili?

Fuori dalla finestra al sesto piano di una via qualunque in una città qualunque – come Tancredi era solito presentare il luogo in cui abitava – si presentava l'abituale facciata di un palazzo dall'intonaco scorticato a lasciar vedere i mattoni rossi. La vicina di fronte passò davanti alla finestra, sempre coi capelli legati, sempre a fare le pulizie in quella stanza probabilmente splendente. La guardò compiere gesti ormai di routine, gesti che compiva da mesi, forse due, forse tre, in ogni caso da quando si era trasferita lì.

Portò nuovamente gli occhi sulle pagine di quella storia irritante che rovinava il bellissimo stile di narrazione. Tancredi si chiese come fosse possibile che certi scrittori scadenti guadagnassero delle fortune con libri da quattro soldi in cui l'ipotassi era un concetto sconosciuto; si chiese anche come, invece, un autore di talento come quello che aveva tra le mani, sprecasse le sue doti parlando di concetti così assurdi, presi di prima mano.

A Tancredi non capitava spesso di leggere: nella sua vita, il tempo aveva una mente propria e decideva quando scorrere troppo velocemente e quando lentamente, indi per cui non trovava mai gli attimi per rilassarsi. Quando essi si presentavano beffeggiandolo, si trovava preso alla sprovvista e con solo un vecchio libro in mano di cui non ricordava l'ultimo capitolo letto. Certo avrebbe potuto idearsi col fare qualcos'altro, ma non aveva la minima intenzione di concentrarsi su cose come giocare ai videogiochi, di cui aveva la nausea completa, e per quanto riguardava gli amici, beh, non sempre il tempo, di cui sicuramente era il pupillo, concedeva gli attimi di libertà negli stessi istanti alle persone lui care.

Ebbene, quel lungo, afoso, sabato pomeriggio, Tancredi si era ritrovato di nuovo chiuso in casa, senza un gelato con cui consolarsi ma anche senza il coraggio di uscire fuori a comprarne uno solo per paura di morire sciogliendosi sulla strada acciottolata che conduceva al mini-market. Ora, dopo appena mezzora di lettura, si era ricordato perché aveva interrotto quel libro. Lo chiuse con stizza, ripromettendosi che sì, un giorno l'avrebbe finito!, ma molto tempo avanti.

Si alzò dal divano e si avvicinò alla finestra dalla quale prima aveva cercato una via di fuga dal mare di parole. Scostò la tenda semitrasparente si mise a guardare i movimenti della donna di fronte: una grande finestra permetteva la visuale dell'intero ambiente, probabilmente la sala; a lato della stanza c'erano degli attrezzi ginnici, cosa che stupì parecchio Tancredi, dal momento che quella donna non sembrava utilizzarli parecchio. Non ci volle molto perché si stufasse.

Si aggiustò gli occhiali, li tirò un po' su, li abbassò leggermente, arricciò il naso per adattarli, li tolse, li pulì, li mise nella custodia rigida. Tancredi era così, perennemente indeciso sulle cose più futili, ciecamente fermo sulle cose importanti. E importante era uscire di casa, in quel momento. Si avvicinò alla porta del bagno, fece tutto quello che pensava facessero anche le persone normali, si osservò: afferrò una ciocca dei capelli tra le dita e constatò che stavano diventando troppo lunghi; inoltre, il blu lo aveva stufato.

Entrando nella piccola camera da letto scivolò sul un foglio; aprì il cassettone e prese una maglietta pulita e un paio di pantaloni a caso, si cambiò e si mise delle scarpe senza badare all'abbinamento.

Una volta fuori di casa, respirò a fondo l'aria di strada. Tossì. Che schifo.

Si avviò e giunse al vicino barbiere. Dopo essere entrato, si accomodò direttamente sulla sedia davanti all'uomo. Sorridendo come un ebete, disse: «Sono tutto tuo».

 

Okay, va bene, il taglio non era stato dei più celebri, si era solo spuntato qualche ciocca e al momento aveva sempre i soliti capelli disordinati non lunghi non corti non medio-lunghi non medio-corti. Però almeno non erano più blu. Saltavano dalla sfumatura rosso fuoco alla più accesa arancione.

Tancredi si sorrise allo specchio, notando che gli occhi di un banale marrone risaltavano con i capelli così chiari e non uniformi. Ah, non aveva pensato al problema barba: era solito non radersi per pura pigrizia, ma notare solo in quell'attimo che la peluria sulle guance era di un bruno scuro e contrastava in maniera quasi imbarazzante con i capelli accessi non era proprio bellissimo.

Si diede dello stupido. Dopo il barbiere era stato per un intero pomeriggio con un amico e la sua fidanzata incontrati in libreria con in testa quel cespuglio più simile ad una fiamma che a dei capelli.

Si strofinò gli occhi e pensò che la sua giornata era trascorsa lenta; la serata si preannunciava noiosa, dal momento che le sue serate tipo erano quasi sempre occupate dal pensiero del sonno impellente, mentre quella sera, come poche altre, era riposato, tranquillo e annoiato. Le pulizie erano fuori questione, la lettura era un ricordo lontano e internet aveva deciso di abbandonarlo da tempo. La sorte o l'apatia lo portarono nuovamente alla finestra, in cerca di qualche oggetto interessante, che magari lo ispirasse, come un uomo ubriaco girare zigzagando per la strada acciottolata o come una donna disposta a vendersi per guadagnare nell'attimo stesso di concedere la propria mano per un'ora a un signore di mezza età o come una coppia di innamorati di qualsivoglia genere tenersi per mano sfiorandosi con gli occhi – sfiorandosi col cuore.

Nulla lo attirò più di un gatto maculato.

Nulla lo attirò, dopo, più di un netturbino.

Nulla lo attirò, ancora dopo, più del suo nuovo, interessantissimo, vicino di casa.

 

Dopo quindici minuti o forse sedici ma anche di più – dopo quindici minuti da quando si era affacciato alla finestra, Tancredi notò una luce accendersi precisamente di fronte a lui: quello che pensava fosse l'appartamento abitato da una giovane e abbondante donna altro non era che l'abitazione di un... qualcosa di molto intrigante, tanto per sminuire la cosa. Inizialmente aveva pensato ad un ladro, ma la sua postura e i suoi movimenti erano troppo rilassati, i suoi gesti troppo abituali, i suoi muscoli, d'improvviso, troppo interessanti.

Da lontano non riusciva a distinguere bene il volto dell'uomo, ma riusciva a notare i capelli corti probabilmente castani e il fisico, liberato in quel momento dalla maglietta, di una perfezione inquietante. Era alto, tremendamente alto, e quel corpo si stagliava dal pavimento alla parte più alta della finestra in maniera sublime: sottile, allenato, segnato.

Tancredi si chiese che razza di lavoro facesse quell'uomo per riuscire a non farsi vedere per mesi, facendo credere che l'abitante di quella casa fosse una donna addetta probabilmente alle pulizie.

Osservandolo con più attenzione per qualche secondo riuscì a notare che forse non era così perfetto come aveva creduto – più magro di quanto avesse immaginato, più basso di quanto gli fosse sembrato, col viso allungato e ispido per la barba. Rimase affascinato dalla figura che vagava per la stanza in cerca di qualcosa di sconosciuto alla mente di Tancredi ma probabilmente di importanza abituale per il nuovo vicino.

Tancredi scostò la tenda, dischiuse leggermente le labbra come ogni volta che qualcosa attirava la sua attenzione, reclinò leggermente la testa, ringraziò se stesso o qualcuno in particolare di essere solo presbite; si morse un labbro e seguì i movimenti dell'uomo fino a che esso non si spostò in un'altra stanza.

La magia s'interruppe.

Tancredi si riscosse e si accasciò sul divano verde. Di certo interessarsi ad una persona come quella non era il principio di una relazione normale come quella che lui desiderava.

 

Quella notte Tancredi sognò una porta nera, carbonizzata; sognò di aprirla, vedendo la propria mano come estranea; sognò di entrare in un mare di fiamme che non gli facevano male.

Quando si svegliò, il mattino dopo, si sentì vuoto, senza uno scopo. Era iniziato un periodo di pausa dopo aver completato un videogioco di cui lui era stato lo sceneggiatore – videogioco che aveva imparato ad odiare in quanto gli aveva tolto all'incirca il respiro, videogioco che aveva imparato ad amare in quanto gli aveva fruttato non pochi soldi. Gli era stato concesso un periodo di riposo che nonostante tutto non desiderava, ma decise di mettersi a lavorare su un nuovo sceneggiato il prima possibile.

Osservò attraverso la tapparella e notò che fuori faceva ancora scuro, quindi ne approfittò per riprendere un'abitudine che da un po' di tempo aveva perso. Alzandosi dal letto inciampò su una scarpa, quindi si diresse in cucina, in cui prese un bicchiere capiente e vi versò dentro un succo di frutta di pessima qualità che gli faceva assolutamente ribrezzo ma che non doveva sprecare. Dopo una breve serie di preparativi, Tancredi chiuse dietro di sé la porta di casa e si avviò giù per le scale.

Una volta sul portone fece stretching e iniziò la sua corsa. Si era quasi dimenticato del piacere di quel gesto, della soddisfazione nel percepire il lavoro dei muscoli – si era dimenticato della sorpresa nel vedere qualcosa di assurdo in quell'orario inconcepibile. Si fermò, sbarrò gli occhi, vide davanti a sé una figura alta: studiò il più in fretta possibile ogni dettaglio riuscisse a notare. Il suo vicino di casa si stagliava di fronte a lui con le spalle curve, sostenendo un passo pesante, lo sguardo basso. Era biondo scuro, a discapito di quanto aveva pensato la sera prima, e le iridi erano di un colore chiaro ma da lontano indistinguibile. Tancredi, fermo in mezzo alla strada acciottolata, incrociò gli occhi del proprio vicino di fronte, il quale, passandogli al fianco, lo osservò attentamente a sua volta, girando un poco il volto, ma staccando per primo lo sguardo.

Aveva le occhiaie e gli occhi verdi.

Tancredi rimase immobile per svariato tempo, non trovando il coraggio di voltarsi nonostante fosse impossibile che l'altro gli fosse ancora alle spalle. Riprese la corsa, mosso dall'inquietudine.

Quando ritornò a casa, l'inquietudine era stata sostituita naturalmente dalla curiosità più assoluta, senza essere desiderata. Cominciò a chiedersi come quell'uomo fosse riuscito a mantenere l'incognito per così lungo tempo, che genere di lavoro facesse per uscire la sera e ritornare la mattina preso da quella stanchezza che segna il fisico; si chiese come il suo corpo potesse sembrare così mutevole – allenato e sottile a fasi alterne, bellissimo nella sua volubilità – e come i suoi capelli potessero cambiare colore da un momento all'altro, se fosse colpa delle luci o della vista che diventava scadente. Si domandò quanti anni avesse, che scopo lo avesse portato proprio in quella città, quante ore trascorresse a casa, perché fosse così stanco da avere bisogno di una donna delle pulizie per mantenere in ordine un piccolo appartamento.

Quel giorno e quelli seguenti li passò a farsi innumerevoli domande, trovando anche, così facendo, ispirazione per la sceneggiatura di un videogioco in stile giallo o thriller. Ogni sera cercava di vedere il nuovo, ai suoi occhi, vicino di casa, ma riusciva a notare ben poco della vita dall'altra parte della strada, dal momento che dall'altra parte della strada non sembrava esserci vita. Ogni mattina si alzava presto per andare a correre, ma non capitò più di incontrare la persona agognata per almeno un'altra settimana, quindi, proprio quando stava per arrendersi, rivide il volto stanco del suo vicino la domenica seguente al primo incontro.

Sembrava più stanco della precedente occasione e nuovamente si poteva notare la sua mutevolezza: senza barba ma con le basette folte, i capelli più scuri, più lunghi, gli occhi non più luminosi. Mentre alzava un braccio per grattarsi la testa, Tancredi notò che aveva una cicatrice ancora rosea lungo il braccio, ma non fece in tempo a notarne la possibile causa, poiché quello riabbassò il braccio per poi sollevare lo sguardo. I loro occhi s'incontrarono di nuovo e per un attimo Tancredi vide l'altro fermarsi.

Fu davvero un attimo. Non ebbe il tempo di pregustare quel momento che già era finito. Ricordava di aver studiato a scuola un termine latino che rappresentava esattamente quello che aveva provato, ma non ricordava quale.

Nelle mattinate a seguire riuscì ad incontrare più spesso quell'uomo ombroso e a notarne altri dettagli, come la dentatura imperfetta – notata durante uno sbadiglio – o un'altra piccola cicatrice sulla tempia o il naso storto o le dita lunghe e callose o la rigidità delle spalle al confronto con la stanchezza della testa. Dettagli che nell'insieme creavano un essere affascinante nei suoi difetti e nelle sue caratteristiche. Nel corso di quel mese, Tancredi aveva deciso di cambiare nuovamente look e aveva finito per dare un bel taglio ai capelli, colorati, ora, di un verde acceso nascosto da chiome nere. La mattina seguente a quel fatto, aveva notato con piacere che il vicino di casa l'aveva osservato più a lungo del solito e non con disprezzo o compassione – almeno, così aveva sperato – bensì con puro interesse, di natura ancora ignota. Questi incontri fugaci con quegli occhi verdi o gialli o verde-gialli o chi lo sa lo rendevano attivo, allegro, energico, tanto che ogni giorno gli venivano nuove idee per la sceneggiatura che stava elaborando; ne stava uscendo una storia così complessa e intrigante per lo stesso scrittore che ogni tanto non sapeva dove andare a parare ed era costretto a fare ricerche alle stazioni di polizia e negli internet point per documentarsi. Ma tutto ciò lo esaltava, non si sentiva così vivo da molto tempo.

Una sera, tuttavia, decise che non poteva comunque andare avanti così. Aveva parlato con i suoi datori di lavoro e aveva chiarito che stava lavorando ad uno scritto e per questo aveva ancora a disposizione molto tempo, ma prima o poi quel tempo che non era mai stato con lui così clemente sarebbe finito. Doveva agire: doveva conoscere il suo vicino di casa. Il problema era come.

Trovò la risposta quella medesima sera nella parola che tempo addietro non si era ricordato: Carpe diem! - cogli l'attimo, quell'attimo che appena lo pensi ormai è già passato! Avrebbe dovuto prendere lui l'iniziativa, non c'era altra soluzione.

 

Tre giorni dopo Tancredi trovò finalmente il coraggio di farsi avanti e conoscere quell'uomo, ma il tempo evidentemente decise che voleva riprendere il proprio lavoro di torturalo. Quando uscì per la sua solita corsa mattutina, non incontrò il suo vicino di casa. Corse per un'ora ma di lui neanche l'ombra. Era così frustrato che si lanciò in scatti di velocità massima fino allo sfinimento e così pure al ritorno.

Forse il tempo ce l'aveva con lui, ma la sorte magari no.

Durante il tragitto di ritorno era così stremato per l'ennesimo sprint che si dovette fermare in mezzo a quella strada acciottolata, tenendosi con le mani sulle ginocchia. Accadde in quell'istante che una voce rise divertita. Tancredi si voltò di scatto per insultare la fonte di quelle risa – a cazzo, per essere fini – ma gli improperi gli si mozzarono in gola.

«Ah! Mi dispiace, mi dispiace, non ridevo di te!»

Tancredi rimase di sasso. Come prima discussione si immaginava qualcosa di meglio, qualcosa di più sensuale, un flirt da fare invidia al capostipite dei playboy, ma forse le sue erano solo fantasie. Gli tremavano le gambe, ma probabilmente era per la stanchezza.

«Beh, allora per cosa ridi?»

«Per la tua energia. Ti ho visto correre, alcune volte, ma mai con questa enfasi.»

L'aveva visto. L'aveva visto. Quell'uomo alto dal fisico multiforme l'aveva visto e gli stava parlando in quel momento. Neanche nelle fantasie più favorevoli si era immaginato che fosse l'altro a rivolgersi a lui per primo. Tancredi si era preparato tanti di quei discorsi nella sua testa che, ora, non sapeva più che dire. Lo scoglio principale era l'attacco iniziale, il seguito sarebbe stato un problema secondario, ma ora che quel problema secondario era giunto, Tancredi era per così dire in crisi.

Si limitò a sorridere, non trovando niente da dire. L'altro rispose allo stesso modo, forse imbarazzato da quello strano silenzio. Rimasero a studiarsi per un intero minuto, che passò così velocemente da sembrare un secondo. Tancredi riuscì finalmente a guardare il suo vicino con una calma placidissima e notò che ad illuminargli gli occhi erano delle scaglie dorate in mezzo al verde di una tonalità profonda.

«Io... scusami. Mi hai colto di sorpresa.»

«Non ti scusare, anzi, forse dovrei farlo io. Comunque io mi chiamo Aaron.»

 

Tancredi non riusciva a concepire ancora il fatto di aver finalmente scoperto il nome del suo vicino, quando quello si avvicinò e gli tese la mano. Gli offrì la propria e sentire la stretta ferma di quelle dita callose per poco non lo fece svenire. Deglutì, sorrise, e finalmente disse: «Io sono Tancredi.»

«Un nome insolito», ribadì Aaron.

«Me lo dicono spesso. È italiano.»

«Sei italiano?»

«No, no, solo da parte materna. Era fissata con un personaggio di un poema epico. Non so se lo conosci.»

Aaron rise. «L'unico Tancredi che conosco sei tu.»

E sentire pronunciare da quelle labbra, quelle sottili labbra che nascondevano una dentatura imperfetta ma una lingua certamente capace, sentire pronunciare da quelle labbra la parola, neanche il nome, Tancredi fece capire a lui, Tancredi, che era perdutamente, irrimediabilmente attratto da quell'uomo alto, altissimo, alto non come se l'era visto la prima volta, ma comunque irraggiungibile per una persona normale come quello sceneggiatore di videogiochi.

Si rese conto di quanto fosse interessante il suo vicino anche dal fatto che non avesse minimamente badato al tempo verbale con cui aveva parlato della madre, come non ci avesse badato per gentilezza o per menefreghismo. Voler sapere quale delle due opzioni, la curiosità, sconfisse la cortesia e Tancredi sussurrò un debole e imbarazzato Grazie.

«Di cosa?»

«Per non aver chiesto di mia madre.»

Aaron perse il sorriso. Si limitò a guardare Tancredi con una serietà così profonda che gli fece salire agli occhi le lacrime e gli riempì il cuore di profonda commozione. Abbassò lo sguardo, non riuscendo a mantenerlo, e notò la gentilezza ancor più grande di Aaron dal fatto che non badò al suo turbamento e gli chiese di proseguire la strada insieme.

Nel tragitto, parlò perlopiù Aaron, che gli disse di averlo visto spesso, in quelle mattine, e di essere rimasto incuriosito – se non era troppo indiscreto – da quella persona che girava per la città in un orario così insolito. Disse che anche per lui, in effetti, sarebbe valsa la stessa stranezza, ma si giustificò dicendo che era per lavoro. Era stato trasferito dalla caserma di pompieri precedente da tre mesi e, una volta giunto lì, gli erano stati assegnati i turni notturni. Forse più avanti sarebbero stati spostati, ma la situazione attuale era questa: andava verso le nove di sera e usciva alle sei del mattino. Si scusò del fatto che parlasse tanto, ma, giustificandosi nuovamente, disse che non conosceva nessuno, lì, se non la donna delle pulizie, e che non aveva molta occasione di parlare, dati anche i suoi orari. Ammise che era molto felice di aver conosciuto un'altra persona del posto.

Tancredi era stordito. Non si era aspettato una personalità così forte e, come il fisico, multiforme: quel corpo aveva dentro di sé una genuinità sprizzante e allo stesso tempo una serietà commovente. In quel tragitto fino a casa parlò poco e ascoltò molto. Pochi passi prima del proprio portone si fermò. Aaron lo guardò interrogativo.

«Io abito in quel portone a sinistra.»

«Davvero? Io in quello di fronte a destra.»

Tancredi sorrise: «Lo so. Una sera ti ho notato dalla finestra.»

Aaron lo guardò stupefatto e ammirato. I suoi occhi risero.

«Vuoi salire?»

A Tancredi venne un colpo al cuore. Non era possibile che lui stesse provandoci. Era solo pura immaginazione. Sbatté le palpebre e pensò razionalmente che quell'uomo non conosceva ancora nessuno – se non i suoi colleghi, sia chiaro – e stava ingenuamente cercando di fare amicizia.

«Se mi lasci il tempo di lavarmi, con piacere. Se non hai notato, sono fradicio della corsa.»

Aaron rise: «E se tu non hai notato, io sono ancora sporco di fuliggine.»

 

Tancredi entrò trafelato in casa e con un sospiro entusiasta di gettò nel divano. Si mise le mani nei capelli e si ricordò solo in quel momento che... li aveva verdi! Si chiese disperato che avesse pensato Aaron, ma poi si rese anche conto che probabilmente non l'aveva neanche notato. E si rese conto che in quel pezzo di strada che avevano fatto, Aaron non aveva fatto domande su di lui, per rispettare il suo silenzio e la sua privacy.

Si sfilò le scarpe e mentre andava in bagno si spogliò; si gettò sotto la doccia, si asciugò e si cambiò il più velocemente possibile, cercando anche un abbigliamento semplice e poco appariscente. Passando per il salotto guardò attraverso la finestra e, dall'altra parte, vide Aaron. Si stava stirando mentre si tirava indietro i capelli. Che stupido: Tancredi era così concentrato su se stesso che non aveva neanche pensato allo sforzo fisico che aveva richiesto quella cortesia. Allora perché l'aveva fatta?

Scese le scale e una volta al portone di Aaron si chiese, finalmente, quale fosse il suo cognome. Rimase impalato davanti al citofono per ben due minuti, quando dall'alto lo richiamò una voce, che nel silenzio del mattino lo fece sobbalzare.

«Quanto pensi di rimanere lì, Tancredi?»

Ebbe solo il tempo di notare un sorriso fuggevole per poi sentire la serratura del portone sbloccarsi.

Salì le scale, colto da un'ansia profonda.

Ad aprirgli fu un bellissimo Aaron coi capelli umidi e le guance appena sbarbate. Il cuore di Tancredi prese a battere velocemente.

«Entra pure. Vuoi qualcosa da bere?»

Tancredi decise di darsi una svegliata. Fino a quel momento gli era sembrato di vivere in un sogno, ma adesso era il caso di cominciare a dare corda a quell'uomo. Averci una storia sentimentale era un'idea ancora lontana, quindi bisognava cominciare dalle piccole cose, come sorridere, scherzare e fare amicizia.

«Alle sette e mezza del mattino?»

Aaron rise di gusto. «Hai ragione, hai ragione! Perdonami, io sono ormai abituato male, ma tu sei una persona ancora normale!»

«Non saprei dirti. Sono uno sceneggiatore di videogiochi: non credo ci sia tanto di normale.»

«Forse intendi dire “ordinario”. Tu mi dai molto l'idea di persona che cerca una tranquillità normale. Non sei ordinario -certo dettaglio non insignificante- ma normale sì. Lo trovo molto bello.»

Tancredi si girò a guardare fuori dalla finestra per nascondere il rossore sul proprio volto.

«Perché?»

«Perché cosa?»

«Perché lo trovi bello?»

«Perché ho conosciuto troppe persone che pretendevano di andare controcorrente.»

E di nuovo un peso piacevole colpì Tancredi, poiché di nuovo era sorta l'espressione tremendamente seria si Aaron. Preso dalla commozione, Tancredi espresse il suo dubbio: «Perché mi hai invitato qui se sei così stanco dal lavoro?»

Aaron lo guardò fisso, con uno sguardo così gelido da sembrare minaccioso, ma non lo era, tutt'altro!

Con afflizione disse: «Si nota così tanto?»

Tancredi non rispose.

«Il fatto è che nelle mattine che ci siamo incrociati ho notato nei tuoi occhi la mia stessa curiosità. Perché gira così presto? Perché si stanca quando potrebbe riposare?»

«Perché è così stanco senza poter riposare?»

Risero entrambi.

Aaron tese la mano e guardò Tancredi con uno sguardo completamente differente, tagliente.

«Finalmente è un piacere fare la tua conoscenza.»

 

Aaron chiese a Tancredi di vedersi qualche volta e fu stranamente entusiasta dell'esito positivo della richiesta. Nei giorni seguenti si videro perlopiù la mattina, andando a fare colazione nei bar vicini. Tancredi non andò più a casa del vicino, né lo invitò nella propria. Si erano come allontanati come è giusto nel periodo iniziale dell'amicizia e si raccontavano fatti e persone della propria vita per conoscersi, comprendersi. L'esplorazione psicologica dell'altro veniva naturale, le domande nascevano spontanee come spontanee fluivano le risposte – senza timori, senza imbarazzi. Tancredi era così concentrato sul suo nuovo amico e vicino che per un breve periodo di tempo accantonò il suo progetto lavorativo.

Si frequentarono per un mese pieno, quando d'improvviso Aaron fece una domanda che non aveva mai fatto prima: «Tancredi, tu sei fidanzato?»

Tancredi fu preso alla sprovvista. Era abbagliato dallo sguardo genuino di Aaron, come se quella domanda non avesse avuto nessun secondo fine. Rispose solo “No” e non aggiunse altro. Aaron capì che aveva toccato un tasto che non doveva sfiorare, almeno non nel germogliare di quella amicizia che si stava facendo importante, quindi passò oltre, senza chiedere altro, ma si sentì comunque soddisfatto della sua nuova scoperta. Al contrario, Tancredi passò i giorni seguenti preso dalla più profonda disperazione: non aveva pensato al discorso “sessualità” fino a quella domanda. Come poteva dire ad Aaron che gli piacevano gli uomini? Che gli piaceva lui, in particolare, per il momento si poteva saltare, ma come nascondergli il fatto che fosse omosessuale?

Non avevano mai parlato dell'argomento, quindi non sapeva cosa ne pensasse. Avrebbe potuto accettare la cosa con la sua solita gentilezza e indifferenza oppure mandarlo a quel paese con un bel “Crepa, finocchio!”. Inutile dire che gli era già capitata la seconda opzione. Era così terrorizzato all'idea di un'altra esperienza simile, e in particolare con lui, che per tre giorni finse un malessere e non uscì di casa. Non aveva ancora capito che Aaron era meravigliosamente attratto dalla sua persona, di conseguenza questo gesto fece sì che il biondo lo venisse a trovare.

Un pomeriggio, quindi in un orario insolito, Tancredi sentì citofonare. Sentire la voce di Aaron alla cornetta gli provocò quasi un mancamento, ma lo fece salire comunque, non potendo fare altrimenti. Alla porta incrociò gli occhi ansiosi di Aaron. Aveva uno sguardo bellissimo e ne rimase per l'ennesima volta commosso.

«Hai gli occhi lucidi. Allora stai male davvero.»

La sua apprensione fece sentire orribile Tancredi. Abbassò lo sguardo e lo fece accomodare in casa, scusandosi per il disordine causato dalle centinaia di fogli sparsi in giro. Lo fece sedere sul divano verde affianco alla finestra da cui l'aveva visto la prima volta. Andò proprio da essa, appoggiandosi al davanzale. Mentre parlava, non osò guardare Aaron in faccia.

«Devo confessarti una cosa.»

L'altro fu preso alla sprovvista. «Ti ascolto.»

«Ho paura della tua reazione.»

«Così mi metti ansia. Dai, parla.»

«Sono gay.»

Aaron non rispose. Rimase per qualche istante a guardare la sua schiena. Poi, come se nulla fosse, sorrise e disse: «Tutto qui?»

Tancredi si voltò di scatto con le sopracciglia corrucciate: «Come “Tutto qui”?!»

«Non mi pare un grande problema.»

«Io... io ci ho messo tutto il coraggio possibile per dirtelo e tu rispondi “Tutto qui”?»

«Che avrei dovuto dirti? “Che schifo”?»

«Io... io non lo so! Ma “Tutto qui”?!»

«Ehi, ehi, calmati! Non è forse positiva, la mia reazione? Dove sta il problema?»

«Tu...», Tancredi rimase interdetto. Prese il respiro. Rielaborò la situazione. Comprese la propria stupidaggine. Comprese la gentilezza di Aaron. Pianse.

Il biondo si alzò di scatto, preso dal panico.

«Ehi, un attimo! Che ho detto?»

L'altro non rispose, allora Aaron lo prese per le spalle e lo scrollò. «Cazzo, Tancredi, parlami!»

La visione di un uomo in lacrime colpì profondamente Aaron, che non era abituato generalmente alle lacrime. Eppure, il turbamento attuale non evitò che ne arrivasse uno ulteriore, a coprirlo, quando Tancredi, tra i singhiozzi, esclamò: «Il problema sta nel fatto che sono innamorato di te!»

Allora Aaron mollò la presa, come scottato.

 

Tancredi non ricordava bene i fatti svoltisi in seguito alla sua dichiarazione. Ricordava solo lo stupore di Aaron, il suo “Ah! Questa sì che è una sorpresa” e la sua affermazione di stanchezza. Se ne andò di lì a dieci minuti. Tancredi lo vide poco dopo dall'altra parte della strada, nella sala che si vedeva dalla finestra. Si era seduto su una sedia, tenendo la bocca appoggiata alle mani. Si era alzato, aveva camminato in cerchio, ma i suoi gesti seguenti si confondevano e Tancredi era chiuso nella più totale apatia. Passò la notte nel proprio letto, al buio. La mattina seguente decise di andare a correre.

Gli fece bene: la stanchezza fisica non gli permetteva di pensare. Era felice, rilassato, in pace con se stesso, perché dopo il turbamento della sera precedente era arrivato alla conclusione che non c'era più nulla da fare, la mossa successiva era di Aaron e la loro amicizia dipendeva da lui. Tuttavia non si aspettava una mossa così veloce, difatti lo vide di fronte a sé durante la corsa.

«Ciao»: fu tutto quello che riuscì a dire. La risposta che ricevette fu un sorriso.

«Parliamo?»

Tancredi annuì.

Rimasero in silenzio per qualche minuto, mentre lentamente camminavano per la via del ritorno. Il primo a rompere il silenzio fu Aaron, che aveva gli occhi solcati da profonde borse scure.

«Perdonami per il mio comportamento di ieri. Non volevo essere così impulsivo. Ma mi hai colto alla sprovvista.»

«Oh, tranquillo, lo comprendo.»

«Il fatto è che... devo confessarti che fin dal primo istante ho avuto un'attrazione molto strana verso di te.»

Tancredi rimase interdetto. Svolta decisamente inaspettata.

«Non so descriverla. Io sono sempre stato etero. E ora che sento questa attrazione, tra l'altro corrisposta, sono stordito. Mi piaci tantissimo, ma non è la solita sensazione. Non riesco a considerarmi bisessuale.»

Tancredi non disse niente.

«Non ci riesco. Eppure...», Aaron allungò una mano verso un ciuffo verde dei capelli di Tancredi e lo prese tra le dita, guardandolo affascinato. «Eppure io...»

Le loro labbra erano a un soffio le une dalle altre. Tancredi deglutì e questo sembrò risvegliare Aaron, che si riscosse e si allontanò. Guardò seriamente gli occhi dell'altro e dopo pochi istanti disse: «Domani è lunedì, ho giornata libera. Ti va di uscire a cena?»

 

A Tancredi sembrava di aver ricevuto un pugno in piena pancia, da quanta ansia lo assillava. Era così dolorante che non riusciva neanche ad alzarsi dal divano: in quei mesi era così cambiato che stentava a riconoscersi. Troppo insicuro delle proprie azioni, troppo dipendente dalle parole di un altra persona. Non sapeva neanche cosa aspettarsi da quella serata, mentre nelle relazioni precedenti aveva sempre avuto la situazione in pugno.

Si alzò a fatica e guardando fuori dalla finestra incrociò lo sguardo di Aaron: quello gli sorrise. Già da lontano aveva un aspetto magnifico nonostante il caldo premente e ciò non aiutò Tancredi, il quale si sentì sotto pressione. Si tolse gli occhiali e uscì di casa. Trovò al portone Aaron e quello che poteva sembrare il loro primo appuntamento ebbe inizio.

Il biondo sembrava tranquillo, mentre Tancredi era preda delle paturnie più incredibili. Avrebbe rovesciato le pietanze a cena? Avrebbe bevuto troppo fino all'ubriacatura? E se il cameriere lo avesse preso in antipatia e gli avesse tirato qualche brutto scherzo? E se Aaron si stesse prendendo gioco di lui? O se invece fosse stato sincero?

Nonostante tutto la cena si svolse placidamente e Tancredi riuscì a rilassarsi. Dopo cena decisero di andare da qualche parte, da qualsiasi parte, e finirono per arrivare in una festa all'aperto in onore dell'inaugurazione di chissà che cosa. Dopo di essa erano così fatti di risate e stanchezza che quasi non si reggevano in piedi e procedevano barcollando. Si avviarono per la via di casa passando per un parco desolato.

Sempre ondeggiando, Aaron si accasciò su un'altalena, continuando a ridere. Tancredi riuscì e ritrovare un respiro regolare e si appoggiò alla parete rossa di uno dei giochi per bambini.

«Tancredi.», Aaron si era zittito per un momento e ora lo chiamava. «Tancredi...»

Tancredi aprì gli occhi e vide che Aaron si era alzato e gli si avvicinava.

«Tancredi, io ne ho bisogno. Lasciamelo fare.»

Non ebbe neanche il tempo di chiedere a cosa si riferisse che Aaron gli prese la mano nella propria e lo premette contro la parete, baciandolo. Tancredi non si sentiva più le forze, percepiva solo le labbra di Aaron che premevano sulle sue e lentamente si schiudevano, facendo passare la lingua, quella lingua che tempo addietro aveva scommesso capace di far provare le più divine sensazioni, e ci aveva preso, ci aveva preso in pieno. Perché nelle sue caratteristiche e nei suoi difetti, Aaron era un grandissimo baciatore e Tancredi si lasciò assuefare in un solo, singolo bacio da quelle labbra. Con la mano libera si aggrappò ai capelli di Aaron e si strinse a lui con le ultime forze che gli rimanevano. Sentendosi dare corda, Aaron diede più enfasi al bacio e afferrò con forza l'estremità della parete, temendo di non riuscire a reggere l'emozione.

Quando si separarono erano esausti psicologicamente. Si guardarono negli occhi e a Tancredi parve di vedere dell'incertezza in quelli di Aaron, come se tutto a un tratto si fosse reso conto di un errore incancellabile. Provò paura per quello sguardo insicuro, perché non era certo che sarebbe riuscito e separarsi da quell'uomo proprio ora che aveva raggiunto un punto che non si sarebbe mai aspettato di calpestare.

Forse Aaron ebbe davvero un attimo di incertezza, ma vedere come Tancredi era sopraffatto dai sentimenti che provava per lui lo riscosse e si rese conto di come la situazione era nelle sue mani. Se doveva nascere una relazione, era solamente Aaron a poterlo stabilire, poiché Tancredi aveva già detto la sua idea in proposito ed era palese che fosse interessato. Inoltre, sembrava preso in maniera maggiore da Aaron, perché lui amava gli uomini, mentre Aaron... Aaron amava le donne, eppure aveva appena desiderato furiosamente baciare un uomo, che gli si era concesso per debolezza o desiderio. Quale delle due non poteva saperlo con precisione, perché inizialmente aveva percepito una resistenza e non riusciva a capacitarsene. Era come se col suo atto prepotente l'avesse spaventato, spaventato come lo era ora: lo vedeva, temeva la sua prossima azione, perché non sapeva cosa aspettarsi, e a maggior ragione, poiché neanche Aaron stesso sapeva cosa avrebbe fatto.

Il biondo si morse un labbro, così facendo potette gustare nuovamente il sapore dell'altro e ne rimase inebriato, come lo era stato durante il bacio. Strinse la mano che aveva tenuto fino a quell'istante, portò l'altra alla vita di Tancredi e nel toccarlo si sentì fremere. Lui, dal canto suo, non si era mosso dall'interruzione del bacio: immobile, con la mano ancora sulla tempia di Aaron, immobile, con il cuore pieno di timore e amore. Leggeva il turbamento di Aaron nei suoi occhi espliciti, che davano un'espressione confusa e feroce al volto. Ad un certo punto, però, lo vide sorridere con un sorriso malinconico. Aaron, dolcissimo, mosse lentamente la mano dalla vita di Tancredi al suo volto e con le lacrime agli occhi lo baciò: fu completamente diverso, perché in quello precedente era stato furioso, passionale, mentre ora sembrava solo commosso, felice di avere trovato una nuova parte di sé capace di amare un uomo, nonostante i pregiudizi, nonostante le esperienze. Lasciò libera la mano che aveva stretto spasmodicamente e abbracciò Tancredi, il quale gli afferrò la maglia per non cadere proprio in quel momento.

Fu con un piacere indescrivibile che assaggiò le lacrime di Aaron che scendevano, due, sole, per le guance ispide fino alle labbra. Erano come due parole non pronunciate che neanche lo stesso Aaron avrebbe saputo di voler dire.

 

Pochi passi prima di giungere ai rispettivi portoni, i due vicini si fermarono. Non dissero nulla.

La mente di Tancredi era in subbuglio: gli era capitato, una volta, di aver desiderato così tanto un uomo da farlo salire in casa al primo appuntamento. Era ancora ingenuo, smanioso di nuove esperienze, e gli era anche piaciuto, non c'è che dire, tuttavia non aveva mai più compiuto quel gesto.

Ora, dopo anni, desiderò di nuovo far salire un uomo fino al suo appartamento, portarlo in camera, spingerlo sul letto e spogliarlo. E poi, di solito, possedeva.

Si voltò verso Aaron e vedere il suo profilo pensoso gli sciolse il cuore. Come poteva portarlo in casa? Come poteva chiedergli di compiere gesti che fino a quel momento aveva compiuto con delle donne? La sua attrazione attuale poteva essere esclusivamente di tipo caratteriale, non aveva mai parlato di fisico. Inoltre, gli sembrava una richiesta inopportuna, come se nel farlo avrebbe rovinato qualcosa di sacro. Non era il momento, nonostante tutto il desiderio che lo affliggeva.

Finalmente il biondo si voltò a guardarlo, riprendendosi da chissà quali pensieri. Sorrise e accarezzò dolcemente il volto di Tancredi.

«Sei stanco?»

«Non lo so. Sono ancora emozionato.»

Aaron arrossì lievemente; fu strano vedere le sue guance prendere quel colorito, perché era una nuova faccia di Aaron, una faccia appena scoperta, un nuovo lato di lui. Comunque fu questione di un nonnulla, in quanto si chinò subito a nasconderla baciando Tancredi. Mosse lentamente i piedi verso il portone di sinistra e una volta davanti ad esso si fermò ed interruppe il contatto delle labbra.

Aspettava qualcosa. E Tancredi sapeva cosa. Aspettava che lo liberasse dall'ansia.

«Ci sentiamo, Aaron.»

Probabilmente non era quello che si era aspettato Aaron, ma per un secondo parve sollevato, come se fosse stato avvisato che la grande prova si sarebbe affrontata in un momento seguente.

Si salutarono con tranquillità, come se tutto quello che si era svolto durante quella serata fosse abituale.

Quando Tancredi chiuse la porta di casa erano ormai le due e il suo cuore stava quasi letteralmente urlando. Dopo pochi minuti aveva rielaborato la serata e si era reso conto che l'emozione era così forte che non sarebbe riuscito a prendere sonno. Era in fibrillazione, così energico che non esitò a riprendere in mano il lavoro ormai praticamente abbandonato. Così innamorato che decise di inserire le possibilità di relazioni sentimentali nel gioco, non previste nel progetto iniziale.

Lavorò fino alle tre e mezza, quando la stanchezza cominciò a farsi sentire. Tuttavia, l'agitazione lo tenne in un faticoso dormiveglia che lo sfiancò. Si svegliò la mattina intorno alle dieci: si sentiva uno schifo. Guardandosi allo specchio in bagno si vide orribile, con profonde occhiaie e le labbra screpolate; il mal di gola lo attanagliava nonostante il caldo. Poi gli tornò in mente la serata precedente e si sentì ancora peggio, lo stomaco fu invaso da farfalle invisibili e i brividi cominciarono a tempestarlo. Cosa avrebbe fatto adesso? Perché la sicurezza lo aveva abbandonato? Avrebbe dovuto chiamare Aaron? Oppure aspettare che fosse l'altro a chiamare lui?

Si fece una doccia gelida e si sentì meglio. Si sentì ancora meglio sorseggiando uno di quei pessimi succhi di frutta che si era fissato a comprare. Si sentì ancor meglio immaginando di ricevere una chiamata da Aaron che gli chiedeva se lo aveva svegliato. No, certo che non l'aveva svegliato! E come aveva dormito? Beh, ci sarebbe stato da ridire, ma niente di cui lamentarsi troppo. Oh, lui non aveva chiuso occhio, non aveva fatto che pensare a lui. Troppo lusinghiero: stava dicendo che era già pazzo di lui dopo una sola uscita?

Tancredi si gettò in faccia una manata d'acqua di lavandino. Dove diamine stava andando con la fantasia?

Aprì il frigo: il latte era finito. Doveva comprarlo. Meglio restare con i piedi per terra.

 

Quel giorno la telefonata di Aaron arrivò davvero. Fu una chiamata lunghissima, in cui per la prima mezzora parlarono di tutto e niente e per quelle seguenti si occuparono a esprimere i sentimenti. Aaron gli chiese di vedersi la mattina seguente, quando lui sarebbe tornato dal lavoro, e Tancredi accettò con gioia. A quel secondo appuntamento andò con incredibile tranquillità e fu una giornata splendida, perché si accordarono sul fatto che da quel momento si sarebbero impegnati in una relazione. Aaron aveva anche chiarito che, in quanto prima storia omosessuale, avrebbe dovuto essere aiutato, dal momento che era tutto nuovo e incredibile e già quella discussione era incredibile, perché non era mai stato così chiaro con una donna. Tancredi, da parte sua, non aveva mai avuto una storia dall'inizio così rilassante.

Si frequentarono per settimane, fino al raggiungimento di tre mesi. In quel lasso di tempo, la loro relazione si sviluppò lentamente, come se ogni singolo giorno ci fosse qualcosa da scoprire dell'altra persona. Si rendevano conto che il loro rapporto pareva loro strano, a fasi alterne, perché loro per primi si comportavano in maniera normale, senza cercare di strafare, mostrando il meglio di sé all'altro. Non lo facevano, né volevano che l'altro lo facesse. Erano come bambini che imparavano lentamente le leggi di una storia d'amore, se leggi esistono per questo. Tuttavia bambini proprio non erano e a testimoniarlo erano i loro impulsi fisici.

Per fare un esempio, una mattina, in uno degli incontri dopo il lavoro di Aaron, quest'ultimo, vedendo Tancredi seduto su una panchina ad aspettarlo, fu così attratto da lui, dalla sua posa, dal suo insieme, che senza neanche salutare lo afferrò per un braccio, sollevandolo, e lo tirò di peso verso un vicolo vicino, tra le proteste dell'altro; proteste che si spensero non appena Aaron gli premette le labbra con forza sulle sue e gli strinse le mani sui fianchi, portandole poi più in basso, rimanendo molto interessato a quella zona per parecchio tempo.

Inutile dire che quella volta Tancredi ebbe seri problemi a trattenersi, visto che desiderava possedere Aaron già dalla prima volta che si erano parlati. Tuttavia si era imposto di non fare niente se non lo voleva anche l'altro.

Ebbero molti contatti sempre più appassionati, ma mai al di sotto dei vestiti, tranne una volta, quando Tancredi non riuscì a resistere e mise le mani sotto alla maglietta di Aaron, desiderando sfiorargli anche solo l'addome. Si era fermato subito, ma quello fu il primo allarme per entrambi, l'allarme che almeno uno dei due desiderava disperatamente toccare la pelle dell'altro.

Il secondo avvenne da Aaron, che si spinse ben oltre il quasi, al confronto, innocuo sfioramento d'addome di Tancredi: da tempo aveva scoperto una passione per il fondoschiena di questo e non perdeva mai occasione per afferrarlo da lì, portandoselo sul petto. Un giorno ebbe il brillante istinto di prenderlo da sotto i pantaloni, con ormai, quindi, un solo tessuto e separarlo dalla pelle.

Da quel secondo allarme, Tancredi comprese che anche Aaron aveva un'attrazione fisica per lui, quindi si fece più spigliato. Da allora non perdeva occasione per togliere la maglietta ad Aaron e metterglisi a cavalcioni quando si sedeva sul divano: in questi momenti, percepiva il biondo fremere sotto di lui e si scoprì felice di farlo penare, certe volte, togliendosi di lì a poco e andandosene con qualche scusa, non senza un mezzo sorriso sadico.

Una di quelle volte in cui voleva farlo penare, però, Aaron si ribellò e lo afferrò per un braccio quando era ormai alla porta d'ingresso. Fu quella la prima volta che fecero l'amore.

 

«No, non mi sta bene, non puoi mollarmi di nuovo con una scusa. Non in questa fredda giornata invernale!»

«Ehi, tutti i giorni ormai sono freddi, non usare la scusa del tempo atmosferico.»

«Beh, era dire una cosa come un'altra. Se vuoi passo subito all'azione.»

Tancredi sorrise, non pensando davvero che Aaron avrebbe fatto qualcosa. Ma si sbagliava, perché Aaron, ridendo, lo baciò e lo sollevò per le natiche, sapendo bene che non avrebbe saputo resistere a quel gesto.

Lo portò barcollando e ridendo fino alla camera da letto, dove lo gettò sul materasso.

«Aaron, sei un idiota! Come puoi impedirmi di svolgere il mio lavoro? Lo sai che ora devo tornare in ufficio, il pomeriggio!»

«Tu oggi non hai proprio niente da fare.»

«E come no? Devo supervisionare. Potrei non farlo, ma sarebbe meglio farlo, eh.»

«Puoi non farlo. E comunque mi pare che non sia ancora pomeriggio.»

«Beh, sai com'è. A volte mi diverto col farti penare.»

Aaron sovrastò Tancredi, cominciando a baciarlo languidamente. Fino a quel momento Tancredi non se n'era accorto, ma la sua espressione era cambiata: era certo di ciò che voleva. tenace.

Quando ricevette un morso sul collo si lasciò sfuggire un gemito, quindi si tappò la bocca con una mano.

Aaron sorrise: «Tu non vuoi separarti da me».

E Tancredi non lo voleva, non lo voleva per niente. Si lasciò assuefare dal tocco di Aaron, il quale lentamente aveva cominciato a spogliarlo. Per un attimo temette che avrebbe provato ribrezzo nel baciare il copro di un uomo, ma i suoi gesti erano così curati, così mirati, che non potette pensarlo più. Era favoloso il modo in cui quelle mani callose sfioravano e stringevano la carne e il modo in cui le labbra sfioravano tutta la superficie possibile di pelle. Fu in quell'attimo che Tancredi si rese conto che voleva essere posseduto, cosa che non gli era mai successa.

Ebbe un momento di terrore, che si trasmise ad Aaron, il quale s'interruppe e guardò l'altro negli occhi.

«Ti desidero.»

Sfuggirono solo queste parole dalla bocca di Tancredi.

«Desidero che mi faccia tuo e ne sono spaventato. Non ho mai desiderato essere preso.»

Aaron tremò: «Non ho mai desiderato prendere un uomo.»

Compresero di completarsi, perché ciò che non avevano mai desiderato si risvegliava al contatto con l'altro. Con calma ripresero a baciarsi e sempre con estrema calma si privarono completamente dei vestiti.

Con cautela ed emozione, compiettero un gesto che era nuovo per entrambi, poiché Tancredi fu posseduto da un uomo, quando fino a quel momento aveva solo posseduto, e Aaron possedette un uomo, quando fino a quel momento non aveva che posseduto donne.

 

Il tempo non gli era più ostile; Tancredi era felice.

Passò un anno da quando ebbe inizio la sua relazione con Aaron e la sua vita scorreva placida. Non aveva niente da ridire, niente che desiderava cambiare. Certo lui ed Aaron avevano avuto dei litigi, dei disguidi, ma si ritenevano una coppia decisamente affiatata, più affiatata di qualsiasi coppia ordinaria. Si comprendevano in ogni piccolo gesto, in ogni pensiero. Eppure non compresero mai quanto erano uniti, quanto erano perfetti e innamorati, fino alla morte di Tancredi.

Un giorno nel grattacielo in cui si trovava il suo ufficio ci fu una perdita di gas al quinto piano che causò un incendio. Le vittime di quella catastrofe furono dieci: sette civili e tre pompieri. Quei tre pompieri erano colleghi di Aaron, il quale aveva partecipato allo spegnimento delle fiamme e all'evacuazione dei cittadini; tra quei civili c'era Tancredi.

Quando suonò l'allarme erano le quattro del pomeriggio passate ed era uno dei primi servizi di Aaron giornalieri che gli erano stati affidati, in sostituzione di quelli notturni. La procedura fu la solita, l'ansia fu diversa: quando arrivarono a quel grattacielo già in fiamme, Aaron si sentì male, perché sapeva di che luogo si trattasse. Non aspettò un attimo di più, non attese le preparazioni, si gettò all'entrata del palazzo da cui usciva una marea di impiegati. Inutili furono i richiami dei suoi colleghi, che si videro costretti a inseguirlo per non lasciarlo solo. Una volta dentro, Aaron si gettò sulle scale e salì velocemente cinque piani. Lì la situazione era infernale: non c'era più nessuno degli occupanti di quel piano, ma si sentivano voci provenire da quelli superiori. E Tancredi si trovava all'ottavo.

Con l'aumentare dell'altitudine, aumentava l'ansia. Ogni piano era un passo in più verso Tancredi, ma anche un rallentamento, in quanto dovevano far evacuare le persone ancora presenti; non fu mai più così diligente nel proprio lavoro. Era combattuto tra compierlo con dovere e correre direttamente all'ottavo piano.

Quando vi giunse, cominciò a cercare disperato, affermando che si sarebbe fermato lì, mentre gli altri avrebbero potuto proseguire. Insieme a lui rimasero altri due pompieri: cercarono in tutti gli uffici, in tutte le stanze, e raccolsero un numero di civili pari a quattro. Uno, un uomo anziano dell'undicesimo piano, era rimasto indietro per infermità fisica; un altro, un uomo sulla quarantina, aveva una gamba rotta e non era stato capace che di scendere un piano; una donna in lacrime era rimasta con quest'ultimo dopo aver cercato di aiutarlo e, capendo che da sola non ce l'avrebbe fatta, aveva deciso di non abbandonarlo; insieme all'uomo anziano si trovava a terra un corpo esanime dai capelli bruni e girandolo Aaron vide il volto di Tancredi. Nella confusione il signore, che rispondeva al nome di Johan, disse che Tancredi l'aveva spinto nel momento stesso in cui due cavi del computer si erano staccati, prendendo la scossa al posto suo. Era svenuto da allora. Uno dei due pompieri si caricò in spalla Johan, l'altro raccolse l'uomo con la gamba rotta ed Aaron prese Tancredi, mentre la donna, continuando a piangere, forse ormai di gioia, li seguì di corsa. Si precipitarono giù dalle scale e tornarono al settimo piano, da lì proseguirono e giunsero fino al terzo, dove, per disgrazia, Aaron mise un piede in fallo e il pavimento ebbe un crollo: esso portò con sé Aaron stesso col suo carico e il pompiere con l'uomo dalla gamba rotta. Quelli rimasti di sopra riuscirono a scendere le scale e arrivarono sullo stesso piano. Trovarono il punto del crollo, ma era inaccessibile, infatti una porta carbonizzata bloccava l'entrata.

Fu dopo quel volo che Tancredi aprì gli occhi e vide quella porta nera che gli ricordava un sogno lontano. Si trovava a terra e vicino Aaron si stava rialzando lentamente; un uomo con il gesso alla gamba destra si lamentava per il dolore, mentre un secondo pompiere non si muoveva.

Aaron, una volta in piedi, si guardò attorno, poi controllò lo stato degli altri. Il suo collega non rispondeva ai richiami, ma respirava ancora. Disperato, cominciò a cercare un via d'uscita, ma sembrava che il crollo avesse impedito ogni fuga. Ad un certo punto, però, udì le grida al di là di una porta bloccata e riconobbe la voce di quelli che erano scampati alla caduta.

«Marc! Marc!», urlava la donna, disperata, chiamando l'uomo con la gamba rotta. Quello non rispondeva, troppo concentrato sul dolore che provava alla schiena e agli arti.

«Aaron! Siete lì?»

«Sì! Sì, siamo qui! Ma siamo bloccati, non trovo vie d'uscita. Christopher è svenuto!»

Non ricevette risposta, sentì solo imprecazioni. Poi udì il collega gridargli di resistere e che avrebbe chiamato rinforzi. Aaron sentì i passi svelti allontanarsi tra le urla della donna. Andò vicino a Tancredi e lo vide sveglio: preso dall'agitazione lo prese per le spalle e lo scrollò.

«Tancredi! Ehi, parlami!»

«Io...»

Aaron fissò gli occhi castani dell'altro e cerco una risposta a quel silenzio, ma non ci riuscì e non gli rimase che aspettare. Dopo pochi istanti, Tancredi riprese.

«Non riesco... a muovermi.»

Il biondo pensò che la scossa che aveva ricevuto doveva essere stata potentissima, se ora lui si trovava momentaneamente paralizzato. Lo tranquillizzò e gli promise che l'avrebbe tirato fuori da quel posto infernale. Si alzò e si diresse verso la porta carbonizzata, cominciando a prenderla a calci. Non avendo esiti positivi, provò con una spallata, ma qualcosa la bloccava dall'altra parte. Si guardò attorno e cercò un oggetto contundente, non trovando niente di meglio che il pezzo di una sedia andata in frantumi. Tenendolo stretto fra le mani lo puntò alla serratura, riuscendo a romperla; puntando in quella zona tirò un calcio e riuscì a distruggere la parte inferiore. In quell'attimo arrivarono altri pompieri, i quali gli comunicarono che la parte superiore era ostruita da un armadio in metallo.

Aaron allora trascinò di peso Tancredi e lo fece passare per il buco che aveva aperto nella zona bassa della porta: dall'altra parte lo tirarono fuori e così fecero con Christopher e l'uomo di nome Marc. Aaron uscì per ultimo e riuscì a trascinarsi fino al piano terra e a uscire.

All'aria aperta si rese conto della propria stanchezza e notò la marasma di persone che si erano accalcati attorno all'incendio. Non rimase un momento di più in quel luogo, andando con una delle ambulanze che trasportava i feriti.

 

All'ospedale Aaron rimase fino a sera. Lì ebbe la notizia della morte di tre suoi colleghi, tutti che erano arrivati ai piani più alti ed erano rimasti vittime di crolli come lui. Fino a quel momento erano deceduti quattro dei trentasette feriti tra i civili. Quando seppe che i morti erano aumentati a sei, si chiuse a riccio con se stesso, rimanendo alla porta in cui Tancredi era ricoverato. Verso le dieci, sentì gli allarmi provenire dalla sua stanza, infermiere che avvertivano i dottori, medici che accorrevano. Sentì solo un grido che affermava una ricaduta del paziente, il quale sputava sangue per una possibile emorragia.

Aaron entrò di scatto nella sala e chiese spiegazioni, ma i medici lo obbligarono a uscire. Resistette abbastanza a lungo da vedere che Tancredi faticava a respirare, preso dalle convulsioni. E quando stava per essere buttato fuori sentì benissimo l'interruzione dei battiti del cuore di Tancredi, in contemporanea coi propri. L'elettrocardiogramma smise di trasmettere il lavoro del cuore per dieci lunghissimi secondi.

I medici si voltarono, lasciarono Aaron per rianimare Tancredi. Dal canto suo Aaron non si sarebbe comunque mosso, né per andare verso l'amato né per allontanarsene. Era immobile, all'entrata di quella stanza, con gli occhi spalancati e asciutti, occhi che si inondarono di lacrime, le lacrime di un uomo innamorato. Per dieci secondi la sua mente non fece che ripetere: «È morto, è morto».

Furono dieci secondi terribili, in cui tutta la sua vita gli trascorse davanti e si rese conto che riusciva solo a rammentare i momenti più belli passati con un uomo che ora era morto. Non riusciva a capacitarsene davvero e fissava quella macchina maledetta che gli aveva beffardamente annunciato la morte della persona più importante della sua intera esistenza.

In un anno non era stato in grado di dirgli che lo amava, perché non lo sapeva ancora, non sapeva che quel senso di completamento che percepiva era solo ed esclusivamente provocato da Tancredi, Tancredi che ora era morto. Aaron pianse, non per la sua morte, ma per l'aver compreso troppo tardi quanto lui amasse quell'uomo e per non averglielo detto in tempo. Lui avrebbe anche potuto sopravvivere alla morte di Tancredi, ce l'avrebbe fatta crogiolandosi nel suo ricordo, nel suo odore rimasto nelle lenzuola, nella pienezza che gli aveva lasciato nel cuore. Ce l'avrebbe fatta per un breve periodo, fino a che non sarebbe impazzito o morto per suicidio. Avrebbe vissuto, sì, ma non a lungo o rimanendo la medesima persona, perché la sua mancanza sarebbe stata troppo forte e il senso di colpa di non aver dato tutto se stesso in quel rapporto così importante, nascosto sotto uno strato di normalità e tranquillità.

Tutto questo passò per la mente di Aaron nell'arco di dieci secondi. Poi, rifiorì la speranza, perché il cuore di Tancredi riprese a battere. Aaron rimase immobile, nell'attesa che gli fosse permesso avvicinarsi al paziente, ma fu spinto fuori e di conseguenza si sedette sulla stessa poltroncina di plastica in cui era rimasto tutto il giorno. Restò lì, fermo, con il volto rigato di lacrime che non sgorgavano più, fino alle undici, quando i medici gli permisero di entrare, dicendogli di non far preoccupare il paziente.

E Aaron entrò con cautela, si avvicinò al letto e osservò il corpo di Tancredi, che era morto per dieci secondi. Gli prese una mano e la sentì calda e solo questa sensazione gli provocò due singole lacrime, due lacrime come parole che ora comprendeva e desiderava dire. S'inginocchiò a lato di Tancredi e strinse quella mano, mentre le due gocce salate scendevano lente. Quello aprì gli occhi e sorrise.

Non si dissero niente.

Tancredi allungò una mano verso il volto di Aaron, il quale continuava a stringere l'altra, e raccolse una goccia, ricordando come un'altra volta, lontana, a quell'uomo erano scese solo due lacrime.

Non si dissero niente.

 

 

 

 

Note:

che dire? È la mia seconda yaoi originale ed è, tra l'altro, la storia più lunga che abbia mai scritto. Insomma, sono stupita e soddisfatta di me stessa. Questa storia è nata dal nulla, dal desiderio di scrivere e basta. Ma è stata una fatica, ci ho messo due mesi, in quanto a metà mi sono bloccata e ho ripreso solo dopo molto tempo.

Non era mia intenzione, all'inizio, rendere questa storia quasi un “elogio” all'amore, proprio per niente. È uscito da solo, perché ad un certo punto i personaggi per me erano vivi e formavano una coppia perfetta nella sua normalità, anche se loro non lo sapevano completamente.

Per quanto riguarda la paralisi momentanea, non sono certa del tutto, ma è possibile che una forte scossa atrofizzi per un periodo di tempo quella parte del cervello dedita al movimento, credo. Non ne sono sicura, quindi non fidatevi! :D

Spero che vi sia piaciuto leggere questa storia come ha entusiasmato me scriverla!

 

Hop. :D


   
 
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