Titolo:
Crossing
the Styx
Prompt: Yammi
Llargo/Kenpachi Zaraki, “I don't wake up early every morning
'Cause
the more I sleep the less I have to say” [Robbie Williams
–
“Singing for the lonely”]
Personaggi:
Yammi Llargo, Kenpachi Zaraki, Isane Kotetsu, Ulquiorra Shiffer
(appaiono anche Shawlong Koufang,
Nakeem Greendina e Yachiru).
Genere:
introspettivo, generale, e aggiungerei un pelino angst (se
così si
può intendere l'amara ironia)
Avvertimenti: AU,
oneshot, slice of life
Note dell'autore:
Allora, ho scelto di
ambientare questa oneshot nel mio universo alternativo chiamato
“Raining Stones”. In questa serie ho spiegato molte
cose e si
trattano di oneshot tutte legate tra loro in modo più o meno
decisivo. Possono anche essere lette separatamente tra loro e pure
questa può essere letta in modo separato. Ho difatti cercato
di
essere il più chiara possibile nonostante mi sia
già espressa su
alcuni dei personaggi presenti qui in precedenti lavori. Per quanto
riguarda il cognome di Ulquiorra, ho usato la vecchia
traslitterazione “Shiffer” poiché quando
ho iniziato a scrivere
questa serie ancora non era uscita la traslitterazione Cifer. Visto
che non volevo cambiare di punto in bianco ciò che avevo
ormai
iniziato da quasi due anni, ho deciso di lasciare il nome
così.
Spero inoltre di essere
stata sufficientemente IC (in particolare spero di esserlo stata con
Yammi e Isane poiché è la prima volta che ci
scrivo su) oltre che
non essere andata troppo fuori tema con ciò che chiedeva il
contest.
Ho cercato di sfruttare un espediente a mio avviso originale, per
quanto salti fuori solo più tardi e l'inizio quindi potrebbe
apparire un po' lento.
È presente anche una
coppia crack. Vi chiederete perchè proprio la Yammi/Isane...
Non so
XD mi facevano molto Roky Balboa e Adriana nel mio malato mondo
immaginario.
Ps: per il titolo della
storia (tradotto in italiano sarebbe “attraverso il fiume
Stige”),
è stato liberamente preso dalla colonna sonora di Dante's
Inferno.
Mi sono basata su questo pezzo per descrivere un dipinto presente
nella storia.
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Un intenso aroma di
tabacco, simile all'incenso per tanta che era la sua delicatezza nel
salire in cielo, avvolgeva il piccolo ambiente rendendolo saturo di
una fine nebbia argentata come un velo sottile di un sudario ben
più
peggiore.
Fili sottili di orrido
fumo si districavano dalla intensa brace della sigaretta accesa, ad
ogni boccata del suo stanco proprietario.
Forti labbra secche e
screpolate la tenevano ben salda in bocca, lasciando solo intravedere
i bianchi incisivi ogni volta che le dischiudeva per far fuoriuscire
sbuffi velenosi.
Zaraki Kenpachi non era
mai stato un grande tabagista, tuttavia in quella specifica
circostanza era la sola cosa che gli restava per sminuire la tensione
di una giornata assurda e imprevedibile.
Spesa assai male e
conclusa nei peggiori dei modi, quasi gli scappava da ridere
nell'alzare lievemente il capo chino mentre sorreggeva con due dita
quella sigaretta sfuggita ai controlli.
Seduto sulla propria
brandina da carcerato, con ancora indosso abiti un tempo eleganti e
ora sporchi in diversi punti di sangue, guardava da oltre candide
sbarre scrostate di ruggine il suo stesso avversario sconfitto ma non
piegato.
A Yammi Llargo non avevano
dato una sigaretta.
Poveretto, si
potrebbe volentieri dire. Se non altro ringhiava in silenzio e
contava le crepe nelle piastrelle sotto i suoi stessi piedi.
Ma no. Yammi non era tipo
da essere rincuorato in tal modo. Non da lui che si fumava con falsa
beatitudine una sigaretta mezza pestata, ne da nessun altro.
Di grazia che la polizia
gli aveva fatto tenere quel suo odioso cagnaccio viziato – un
barboncino cotonato – ora tranquillamente seduto sulla
brandina in
silenziosa attesa di un comando del proprio padrone.
La creatura, comodamente
accovacciata al fianco dell'imponente uomo, pareva indifferente al
frastuono che aveva colto i due ex sfidanti quel tardo pomeriggio
–
nonostante il suo fastidioso contributo nell'azzannare le caviglie di
Zaraki – dormendo beatamente su quelle lenzuola sgualcite.
Come avessero fatto i
poliziotti di quello scalcinatissimo distretto a lasciare che Llargo
potesse tenersi la sua bestiaccia rimaneva un bel mistero. Ma forse
l'ira del gigante rosso poteva anche non giovare al più
arrogante
tra i poliziotti.
Ed ecco quindi, che con
quell'ultimo effimero pensiero l'ombra di un pestaggio non concluso
si stemperò sul volto di Kenpachi Zaraki, lasciando spazio
ad uno
sbuffo quasi divertito, se non ironico, per l'assurda situazione in
cui si era cacciato.
“Che hai da ridere tu?!”
in un ambiente ove il
silenzio è puro eufemismo è facile farsi scoprire
da orecchie ben
attente come quelle di un corpulento, nonché iracondo, ex
avversario.
Domanda scandita da una
voce ancora cavernosa e stentorea nonostante il trattenersi come
dinnanzi ad un luogo sacro, pare dettata con una punta di
rassegnazione da un uomo che pare non volerla avere persa per nessun
motivo al mondo. Nonostante una ben più cocente sconfitta.
Lodevole, decisamente
lodevole.
Ciò porta ancora discreta
ilarità nell'uomo intento ad assaporare con calma una
sigaretta
sgualcita come uno straccio umido, divertito da quella ostinatezza a
non voler cadere per forza di cose.
“Nah! Niente di ché...
Penso solo che sia una cosa divertente!”
E se per un momento nello
sguardo di Kenpachi si illumina una piccola scintilla di –
presumibilmente – follia in quell'ambiente riscaldato da
anonimi
neon, per Yammi è solo un moto di rabbia soppresso e un
ringhio che
si perde ancora una volta in quell'umida cella di un ben altrettanto
anonimo seminterrato.
[…]
“Sembra che stia
procedendo bene... no?!”
una voce speranzosa di
donna si perse lievemente nel grande atrio attrezzato per
l'occasione, riuscendo comunque a raggiungere le orecchie dell'uomo
che l'affiancava e di cui l'altezza faceva invidia ad un gigante.
Isane Kotetsu – pardon,
la signora Llargo – osservava la folla composta che si
districava
nel grande atrio circolare incentrata nell'osservare le opere
esposte, in un eterno chiacchiericcio simile ad una remota litania.
Forse la sua voce
risuonava un po' timida in quell'ambiente dal gusto neoclassico e
decadente – dai pregiati stucchi dorati e dalle altrettante
statue
di granito scadente – ma c'era da capirla, data l'attuale
circostante di una mostra allestita in un luogo che non fosse
“le
salon a refusé ”.
In un luogo importante
insomma.
Yammi guardò la
moglie solo di sbieco – troppa era la sua concentrazione
nell'osservare la marmaglia
che si apprestava a giudicare le sue opere di pittore collaudato,
secondo sua modesta opinione personale – constatando che si,
la
donna aveva in parte ragione nell'essere un poco sollevata per
l'atmosfera generale della mostra.
Tuttavia un mezzo grugnito
di disprezzo se lo lasciò scappare dalle possenti labbra
come a
volerle ricordare – non tanto in spregio alle sue parole
gentili –
con chi avevano a che fare in quel luogo agognato da ogni artista in
erba quanto mostruosamente imbarazzante una volta finiti al suo
interno.
“Questi bastardi ci
capiscono di arte come io ci capisco di chimica! Puah! Non sanno
distinguere un dipinto da un cesso chimico, e hanno il coraggio di
chiamarla arte!”
a stento le parole non gli
fuoriuscirono stentoree da quella sua grande bocca, solo trattenute
dal buon senso di una moglie che si apprestò a calmare acque
di una
ben peggiore ebollizione qual è l'ira primordiale.
Avvicinandosi
ulteriormente all'uomo, deglutì parlandogli con tono gentile.
“Quello che non
capiscono loro... Lo capisco io però...”
Poche erano le persone al
mondo capaci di comprendere cosa un semplice operaio dipingesse in
tele di lino, oltre alle mere figure femminili che ne popolavano le
fantasie mitologiche.
Pochi conoscevano ogni
singola pennellata tratteggiata a secco con una tempera grassa ed
oleosa su tela ruvida e tesa come un tendine, capace di parlare oltre
l'aspetto forse semplice e inusuale del soggetto creato.
Ma Yammi Llargo non era
certo con interesse prettamente aristocratico che si era messo a fare
il pittore a tempo perso, ne le sue mani erano passate attraverso una
accademia d'arte o ben più peggiori lecca-culo.
No, il fatto che campasse
da vivere facendo il manutentore alle macchine di una delle
più
grosse ditte farmaceutiche presenti in città – la
rispettabilissima ditta di Aizen Sosuke e di tutto il suo esercito di
galoppini geniali – la diceva lunga sul suo stato sociale
oltre che
culturale.
Eppure era innegabile il
fatto che il pennello avesse sempre esercitato su di lui un certo...
Fascino?
Forse si trattava della
parola che più si avvicinava alla descrizione da individuo
qual era,
tuttavia ben pochi erano a conoscenza di questo
“fascino” che la
pittura esercitava in Yammi. E una di quelle poche persone erano la
moglie Isane – sua prima e unica modella – e
Ulquiorra Shiffer.
Un contabile della stessa
ditta in cui lavorava lui, seppur a piani e con mansioni differenti,
eppure dannatamente vicino a quello che per il pittore poteva essere
considerato come un “amico”.
Voltando di poco lo
sguardo difatti, notò il pallido omino dallo sguardo
inflessibile
intento a gustarsi un calice di cupo martini. A distanziarli solo
qualche passo sul pavimento di granito rosso e la gente che si
muoveva distratta come pollame in strada nel mezzo della mostra tanto
faticosamente ottenuta.
Si erano conosciuti la
prima volta in sala mensa – quasi nello stesso modo in cui
aveva
incontrato Isane, solo che lei l'aveva conosciuta in ospedale durante
il suo ricovero per quello stupido braccio rotto a causa di un
altrettanto stupido incidente sul lavoro – ma da allora,
più che
ricordare un momento “speciale” tra loro, ricordava
sempre
piuttosto chiaramente le loro brevi chiacchierate.
“E tu Ulquiorra –
esordì infine il colossale artista riferendosi chiaramente
all'apatico individuo – secondo te questi ci capiscono
qualcosa o è
solo una perdita di tempo? Pensi che dovrei schiacciarli
tutti?!”
tralasciando la domanda
fatta che lasciò momentaneamente interdetta la premurosa
sposa,
Ulquiorra Shiffer impacchettato in un grigio completo – fin
troppo
simile a quello sfruttato al lavoro – dallo sguardo basso e
imperscrutabile, lasciò scorrere almeno trenta secondi di
tempo
prima di rispondere a suo modo all'iroso artista. Un mezzo minuto in
cui il tintinnare del freddo ghiaccio immerso nel caldo martini fu
l'unico suono udibile ai due individui in attesa di risposta. Come un
preludio di una risposta fredda come quel ghiaccio che traballava
delicato in quel rosso alcool per “signori”, lo
sguardo freddo
del contabile incontrò infine quello fin troppo passionale
del
collega di lavoro.
“Sciocchezze Yammi...
Non servirebbe a nulla”
i suoi occhi verdi non
tradivano emozioni. Era come alle volte guardare un morto
e la
sua agghiacciante realtà dei fatti, piuttosto che una
persona vera e
viva. Anche se poi per Yammi era difficile poter decifrare
ciò che
quel pallido omino volesse alle volte dire, era encomiabile il fatto
che gli portasse un certo rispetto proprio perchè, con quel
suo modo
di fare per lui bizzarro, era fin troppo sicuro che non lo stesse
denigrando.
Non uno che è abituato a
spiattellarti la cruda verità davanti alla faccia.
Portandolo per
questo, quasi di riflesso, a esibire un piccolo ghigno soddisfatto.
“Ah... E ad ogni modo –
proseguì Ulquiorra avvicinandosi ai due coniugi con molta
lentezza –
quel tuo cane ti sta riempiendo la giacca di
peli...”
Ovviamente Llargo non era
andato li solo con la moglie. Era raro per lui non portarsi dietro il
suo consueto barboncino bianco – e i fiocchettini rosa non
erano
stati messi addosso alla creatura da Isane, c'era da dirlo –
anche
tenendoselo senza quasi farci caso in braccio. Come esattamente in
quel caso specifico, si era tenuto in braccio quella dannata bestia
per tutto il tempo senza quasi neppure accorgersene.
E quando abbassò lo
sguardo sul cagnetto scodinzolante, dalle grandi labbra
fuoriuscì un
grido di guerra alla vista di tanti peli bianchi che
chiazzavano il suo completo buono.
“Ohi!!
Maledetta
bestiaccia!!”
Più di una testa si
indirizzò verso il trio di persone accompagnate ora da urla
disumane
e latrati striduli e mortificati, alla vista di un insolito
siparietto poco consono al luogo di culto dove ora dimoravano.
Il cagnetto si precipitò
a terra ansioso di sfuggire all'ira del suo padrone – in
qualche
modo sedato dalla moglie e dai suoi “calmati, la giacca te la
sistemo io” – iniziando a latrare e a muoversi
sconsolato per la
sala come un bambino dispiaciuto di aver causato danno ad un genitore
inflessibile. Sparendo infine alla vista dei tre voltando verso
un'altra sale, ove erano presenti altri pseudo artisti e altre opere
di discreto orrore, scodinzolando felice per conto suo.
“Maledetto animale –
mugugnò Yammi cercando di trattenere ira il più
possibile – uno
di questi giorni giuro che...”
“Forse dovresti
semplicemente lasciarlo a casa una volta tanto”
sbuffò la signora
Llargo bloccando così parole ingiuriose ed inutili,
aiutandolo tra
l'altro a sfilarsi via la giacca per potergliela sistemare almeno un
po'.
Anche se forse erano
parole un po' buttate al vento, la speranza che le desse in parte
retta almeno sulla questione “cane da tenere al
guinzaglio” era
l'ultima a morire.
Ma più di una occhiata
contrariata l'uomo non vuole aggiungerle altro, trovando che fosse
giustissimo accontentarla, ma stranamente difficile
dall'attuare una cosa simile.
[…]
Quando ai figli spunta
fuori un “pallino” difficilmente non li si
accontenta in una loro
nuova passione.
Per quanto dura – o per
quanto alle volte davvero insostenibile – se si è
capaci di
accontentarli entro il limite delle proprie possibilità
allora non
ci si può tirare indietro.
Bene, a Yachiru era venuto
il pallino per l'arte e per il suo mondo in generale, quindi oltre ad
aver tempestato la casa di disegni a tempera e pastello, le era
venuta l'insolita voglia di visitare ogni mostra presente in
città,
anche se lontanissima da casa.
Anche se dannatamente cara
per il portafoglio di Kenpachi Zaraki.
Con uno sbuffo rassegnato
l'uomo un tempo mercenario di ventura – ora invece dedito a
fare il
vigilantes in una tranquilla città di provincia dopo una
vita
passata fin troppo movimentata e piena di nemici – si
passò una
mano tra i lunghi e ispidi capelli neri, massaggiandosi con cura la
cute e notando che... Si, la donna dipinta nel quadro che stava
osservando aveva una capigliatura messa decisamente meglio della sua.
Oltre che a tutto il resto
si intende... Di sicuro però, non capiva perchè
certi cosiddetti
artisti volessero a tutti i costi pitturare
qualcosa che al
massimo indossava si e no un paio di infradito.
Splendidi capelli dorati
finché si voleva, e di altrettante morbide forme femminili,
almeno
uno straccio potevano addossarglielo no?
“Dannata mocciosa...”
senza neanche farlo
apposta dalle sue labbra rovinate dal tempo e dal venticello di un
sottile gelo proveniente dai condizionatori d'aria,
fuoriuscì
malvolentieri una mezza imprecazione verso la piccola Yachiru,
inascoltata da tutti a causa della voce resa bassa come un sussurro.
Non che la volesse mandare
al diavolo per davvero si intende, era l'ultima cosa che voleva e si
stava già pentendo di quelle precedenti parole ingiuriose,
ma c'era
da capirlo visto il prezzo del biglietto tutt'altro che economico.
Inoltre il posto era
enorme – a guardarlo dall'esterno non lo avrebbe mai detto,
somigliava ad un vecchio palazzo europeo
– ed era così
pieno di gente che il loro chiacchiericcio si estendeva in lungo e in
largo per le sale sconfinate e i corridoi, da diventare un eco simile
a quello che si sente in certe gole inesplorate del Sahara.
Tra le altre cose, aveva
perso di vista quella ragazzina esuberante e ora si ritrovava da solo
a contemplare quadri che affatto capiva.
Per carità, alcuni erano
davvero belli e così curati che lui mai e poi mai sarebbe
riuscito
ad eguagliare. Il suo massimo in disegno era fare il giochino
dell'impiccato e basta. Di prendere in mano un pennello lui non
sapeva neppure da dove iniziare.
Seccato da quello
spettacolo variopinto e sensuale, il vecchio mercenario
sbuffò tra
l'imbarazzato e il nervoso decidendo di cambiare aria.
Strisciò
quindi i piedi in direzione di una galleria poco affollata, tentando
di tenere a bada pensieri contrastanti e deciso a beccare quella
ragazzina prima che ne combinasse una delle sue, facendosi magari
bandire persino da un luogo simile. Meglio evitare
altre
pietose figure di merda come quelle della biblioteca di quartiere,
anche se alla fine non era tanto colpa della sua piccola, quanto
dello staff presente troppo svogliato per lavorare. Questo
andava
chiarito.
“Ohi!
Kenny!!”
Infine, una voce
squillante di ragazzina – stridula e insolitamente gioiosa
–
raggiunse le orecchie di Zaraki Kenpachi nell'esatto momento in cui
l'uomo stava per sedersi su di un divanetto rosso di vecchio velluto.
La sala dove si trovava ora era immensa e di forma circolare, le cui
pareti erano scandite da grandi quadri di tema mitologico –
supponeva – e di altre tipologie che non stava neanche li a
pensare
a cosa potevano rappresentare.
Si stava decisamente
annoiando e quella piccola peste si era finalmente
fatta
notare nel peggior modo possibile.
Urlando a squarciagola il
suo nome – facendo voltare più di un visitatore
verso di loro –
e correndogli in contro come una maratoneta nonostante le gambe corte
tipiche di una bimba di sette anni. Addosso la piccola portava ancora
la sua divisa scolastica – dai cupi toni blu di una severa
scuola
privata – ma il tutto era stemperato dalla sua
incommensurabile
gioia di trovarsi li e di aver ritrovato l'uomo che
accidentalmente aveva smarrito una mezz'oretta
prima, a causa
della sua troppa curiosità e voglia di esplorazione.
“Era ora che arrivassi!
Mi stavo annoiando sai?!”
la piccola rise a quel
mezzo rimprovero del padre, più
concentrata a strattonarlo
per una gamba in modo da farlo alzare dal divanetto rosso che
disposta a dargli una risposta concreta.
“Kenny vieni! Ho trovato
un quadro bellissimo! Ti piacerà di
sicuro!!”
“Lo spero bene...”
sbuffando senza reale
noia, l'ex mercenario decise di seguire i capricci di una Yachiru
eccitata lasciandosi trascinare a fatica verso l'altro capo della
sala discretamente popolata di presunti intenditori d'arte e altri
lecchini.
Egli si lasciò quindi
guidare da una creatura minuta ma dalla forza spropositata per la sua
stessa taglia, lasciando che la piccola gli strattonasse i pantaloni
del completo buono sino al punto tanto agognato fino allo stremo.
E li, ove due colonne di
marmo rosso facevano da cornice ad un quadro più lungo che
largo,
finalmente lo sguardo dell'uomo si sgranò quel poco alla
vista del
ritratto. E se in un primo momento di totale smarrimento – si
poteva dire seppur in modo molto scomodo per lui
– Kenpachi
aveva cercato di mettere ordine ad un cervello momentaneamente
colpito da ciò che stava osservando, ciò che
rimase dopo era
qualcosa di simile ad una primordiale paura.
Ma per
quanto ora non fosse più un soldato sanguinario stanco della
violenza che lo circondava, e ancor più esasperato da un
mondo che
dire folle era poco – tanto da finire plasmati a sua immagine
e
somiglianza – ciò che vide in quel dipinto lo
portò a sentire il
cuore fremere in petto di una istintiva gioia
sanguinaria.
Trovandosi
a breve confuso per il poco ossigeno che il muscolo striato pompava
in petto, venendo subito notato nel suo improvviso e strano pallore
da una figlia felice di aver fatto una inaspettata sorpresa.
“Vero
che è bello? Sapevo che ti sarebbe piaciuto!”
Yachiru
non conosceva bene il passato di colui che da anni le faceva da padre
– e poco le importava francamente – ma sapeva
comunque cose che
altri non sapevano. E in particolare quello che si sarebbe potuta
chiamare empatia verso determinate cose, come ad esempio i colori
molto accessi come il rosso.
Un colore che a Kenny piaceva davvero tanto.
Un
colore che si allacciava al suo passato e ai suoi combattimenti
sanguinari. Una tonalità intensa e sgargiante che aveva ben
sperato
di cancellare dalle proprie memorie in favore di una vita,
faticosamente ottenuta, più possibile normale.
Ciò
che osservava Kenpachi era alla vista di tutti, eppure solo ora
riusciva a vedere come quel dipinto fosse realmente fatto. Ed era
strano, poiché lui di arte non ci capiva nulla ma era
altrettanto
vero che quel quadro – nella buona e nella cattiva sorte
– gli
stava letteralmente parlando.
A
troneggiare in un universo buio fatto di rami morti simili al limbo
eterno del girone dei suicidi, vi era una figura femminile imponente
e maestosa.
Completamente
nuda e pallida, irradiata di una luce non in vista tanto da renderla
ancora più eterea, aveva un fisico sinuoso e morbido,
delicato e in
netto contrasto con il grezzo paesaggio alle sue spalle. Ne osservava
le forme femminili come rapito, tentando di deglutire e non
soffermarsi con troppo imbarazzo verso quella palese nudità.
Lo
sguardo della dea era profondo e malvagio. Pareva ammiccargli con
quegli occhi verde scuro, scrutandolo dentro l'anima e ridendo di
ogni sua malefatta passata, con una voce maliziosa e compiaciuta che
risuonava dentro la sua immaginazione sconvolta.
Poi il
rosso.
È un
colore potente che domina l'opera nonostante siano presenti i cupi
rami tinti di nero e una pelle lattea che dire bianca era poco. I
capelli della donna fluttuavano nell'aria come immersi nelle
più
gelide acque nordiche, seppur accesi di una rovente tonalità
che
solo quella catturava la vista dell'osservatore.
Come
il sangue che scorreva a fiumi nel suo cupo passato da dimenticare,
quei fili rossi danzavano in torbide acque primordiali portandolo per
questo a scostare istintivamente lo sguardo da quella cruda visione.
E fu
scostando proprio lo sguardo che dalle labbra rovinate dal tempo e da
una precoce vecchiaia fuoriuscì un commento tutt'altro che
positivo
verso l'opera. Avvalorato anche dal titolo del quadro, scritto in una
elegante targhetta dorata, ossia “Ira”.
Un
commento non tanto malvoluto verso il dipinto – bello come
gli
altri – ma da ciò che trasmetteva all'uomo
dall'aria vissuta in
una istintiva negazione di un passato che ancora lo eccitava da
morire.
“Io...
Non ci capisco
niente di questa merda!”
una
eccitazione alla vista del rosso sangue di un passato violento e
ormai, finalmente, alle spalle possenti di una guardia giurata, che
giunse comunque alle orecchie di un attento e irascibile ascoltatore.
Oltre che stupire una bimba di sette anni o più decisa a
contestargli in modo polemico il commento poco grazioso.
Le
parole del contestatore non erano state dettate come un sibilo
udibile solo da pochi intimi, come nei casi precedenti, ma abbastanza
potente da essere udito anche da chi era poco distante da lui.
In
particolare da un uomo di corporatura robusta e accompagnato dal suo
iroso peregrinare da un piccolo barboncino bianco, che rispondeva al
nome di Yammi Llargo ovvero l'autore di codesto dipinto malamente
contestato.
E
l'autore – già seccato di trovarsi in un luogo in
cui nessuno
capiva l'importanza di ciò che creava
– decise che quelle
oneste parole erano l'autentica goccia che faceva traboccare il vaso.
E ora
più che mai, camminò con passo spedito fino
all'emerito idiota
deciso a dare delucidazioni, ignorando come quell'uomo fosse ora
intento a discutere con una bambina che – grazie al cielo
– di
arte ne capiva qualcosa..
“Kenny
non è vero! Sei tu che non riesci a vedere come è
fatto per
davvero!”
“Ah,
se lo dici tu...”
Ignorando
il piccolo battibecco nato tra i due – più che
altro l'adulto si
sorbiva la ramanzina della piccola in modo praticamente impassibile
–
e fin troppo annoiato di gente incapace e insulsa, il colossale
gigante indispettito da un commento che per lui riassumeva l'insieme
del visitatore medio, sovrastò con la propria ombra l'uomo
ancora
intento ad osservare il dipinto.
Solo
il silenzio si aggiunse dopo i passi rimbombanti del pittore
risentito, accompagnato dalle piccole lamentele del cane in cerca di
attenzioni da un padrone troppo preso a scrutare la schiena del
probabile avversario.
Ed un
brivido percorse la schiena di Zaraki Kenpachi – fatto di una
adrenalina che lui ben conosceva – ancor prima di voltarsi
sentendo
unicamente la voce arrogante della montagna che gli oscurava la
visuale con la propria ombra, interrompendo la sua discussione con
Yachiru.
“Non
ci capisci niente? Beh... La cosa non mi stupisce affatto! Cosa
può
saperne un mentecatto di città di cosa
io metta in queste
tele?!”
la sua
era una voce potente e cavernosa. Ancor più minacciosa e
roca di
quella dell'ex mercenario ma così simile nel timbro da dare
l'idea
di essere pure lui un ex soldato con tanto istinto assopito.
Fu
questa sensazione che portò Zaraki a voltarsi verso chi
aveva
parlato con così tanta arroganza, seguito di riflesso da una
bambina
incuriosita ma che, però, alla vista del candido cagnolino
incipriato si dimenticò immediatamente della sua aspra
discussione
per accontentare la bestiola in cerca di attenzioni.
Quindi
per tal motivo, essendo troppo occupata a fare le feste al cane senza
nome, non si accorse di come i due adulti in quel preciso momento si
scrutassero.
Occhiate
tese e cariche di un silenzio innaturale – tipico del
combattimento
all'ultimo sangue in procinto di essere compiuto –
accompagnarono i
due sfidanti per diversi preziosi secondi, prima che tale momento di
“stallo” venisse stemperato dalle parole del
più basso tra i
due.
Anche
se ad essere onesti, pareva una provocazione nata come risposta dopo
essere stato colto di sorpresa.
“Ah...
Lo hai fatto tu? Certo che voi pittori fate delle cose davvero
assurde!”
aggiunse
quell'affermazione con un sogghigno nascente sulle labbra sottili,
che si contrappose immediatamente alla smorfia disgustata
dell'imponente meticcio.
Come
osava quell'essere inutile dire che creava assurdità?
Proprio lui
che aveva osservato la sua “ira” come se avesse
visto una
folgorazione divina. Si, glielo aveva intravisto quello sguardo
stupefatto. Ma notandolo aveva sorriso lievemente soddisfatto per
aver fatto nuovamente impressione e aveva voltato semplicemente lo
sguardo per tornarsene dalla moglie dall'altro capo della grande
sala. Finendo così il suo giro di perlustrazione.
E
tutto questo, solo per ritrovarsi insultato da uno che non accettava
ciò che osservava.
Tra
l'altro quel dipinto era stato uno tra i primi più
importanti che
avesse mai creato. Un'opera di gioventù creata verso i venti
anni di
vita appena lasciato lo snervante orfanotrofio gestito da quelle
acide suore giù nel suo paese natio, deciso più
che mai a “sfogare”
così la propria ira repressa.
I
pugni comunque, li sapeva dare eccome.
Ma
poiché la prospettiva di passarsi più tempo
dietro le sbarre di una
fetida cella che nel mondo civilizzato non gli piaceva affatto,
l'unico modo che sentiva davvero efficace di sfogare il malcontento
della propria intera esistenza era attraverso le setole dei pennelli
che, gradualmente, si impregnano di colori oleosi o grasse tempere
industriali.
Proprio
come gli consigliavano le suore da bambino, “provare a
rappresentare la propria ira è meglio che
manifestarla”, per buona
pace di nostro Signore.
Certo,
magari critiche costruttive sul dipinto le si possono fare.
È
un'opera che lui considera stilisticamente vecchia e da allora sa
di essere migliorato nello stile – aveva giusto ritoccato il
dipinto da poco, tingendo gli occhi della dea di un verde sgargiante
in modo da sottolineare la sua rabbia repressa – ma quel tipo
di
critiche insensate e piatte, tipiche della gente media arrogante e
sicura di se, non le accettava affatto.
E
allora ecco che per buona pace, questa volta, delle suorine
dell'orfanotrofio, i pugni li faceva cantare eccome.
Perchè
era sicuro che, lui come il suo stesso sfidante che osservava di
rimando come un animale pronto al combattimento, conoscesse un
vecchio detto ancor più significativo di quello che per
tanti anni
lo aveva accompagnato nella pittura. Parole che mormorò con
un
ghigno lieve e sicuro di sé sulle grandi labbra, scrutandolo
attentamente nei secondi successivi.
“Di
un po'... Lo conosci quel detto che dice: Non mi alzo presto
alla
mattina... Perché più dormo, meno devo parlare?!”
quello
che Yammi aveva citato era un vecchio proverbio polveroso che si
sentiva spesso pronunciare dietro da gente – presumibilmente
–
più intelligente di lui, di cui per molto tempo aveva
ignorato il
significato.
Eppure
era una frase cristallina come l'acqua di alta montagna, e per di
più
pareva che il suo sfidante avesse capito cosa stesse cercando di
dirgli.
Zaraki
alzò le le sopracciglia sorpreso a quelle parole marcate con
fare
teatrale, trovandosi per un momento spiazzato di fronte a quella
perla di saggezza che pure lui – come si aspettava il pittore
–
ben conosceva.
La
tipica frase indirizzata a chi non ama molto esprimersi a parole,
perchè totalmente futili rispetto alla ironica schiettezza
di gesti
ben più manuali.
Ironia,
ecco cosa trasudava maggiormente quell'orribile frase. Seppur chiara
nelle sue sibilline parole, c'era l'ironia che accompagnava le gesta
di individui che spesso – per una questione di forza maggiore
o di
educazione – non riuscivano a relazionarsi con il prossimo
nella
sufficiente maniera civile.
E
Kenpachi lo conosceva molto bene quel detto. Spesso gli uomini della
sua brigata mercenaria gliela ripetevano più di una volta
con fare
divertito o critico – nella giusta maniera senza per forza
incappare nel suo malandato machete – ad ogni sua azione
impetuosa
e civilmente criticabile da un mondo che per lui, così come
per il
pittore arrogante, era a dir poco folle per il modo in cui condannava
i suoi stessi figli a marcire in un inferno voluto da altri.
Vecchio
proverbio questo che aveva marcato le vite di entrambi come un
fastidioso marchio a fuoco tipico del pregiudizio voluto da una
società civilizzata, a cui avevano saggiamente deciso di
dare un
taglio in favore di dimostrare cosa esattamente sapessero fare.
Chi
dedicandosi alla pittura come celebrazione iconoclastica di un'ira
furente, chi invece apprezzando una vita normale dopo una violenza
che tingeva spesso di rosso ogni suo sogno notturno.
Eppure
non basta essere capaci di debellare i pregiudizi in modo
così
ingegnoso. Non con loro due marchiati a fuoco ormai da così
tanto
tempo da rasentare la frustrazione per non riuscire a far parlare
–
il più delle volte – i forti pugni callosi. La
celebrazione unica
di questo maledetto detto – non mi alzo presto la mattina,
perchè
più dormo, meno devo parlare – era rinata sotto
forma di due
uomini ormai non più nel fiore degli anni ma desiderosi
ormai da
troppo tempo di non parlare più e continuare a dormire a
lungo.
Un
lungo sonno chiamato impulsività, che ora si mostrava nella
sua
irascibile forma.
Per
questo l'ex mercenario sorrise malevolo all'imponente meticcio,
tirandosi su le maniche della giacca e mostrando così
all'aria
gelida della grande sala, vecchie cicatrici e muscoli tesi e simili
nella loro consumata esistenza a quelli di un fabbro o maniscalco.
“Ehe!
Ma perchè non me lo hai detto subito? Non amo in modo
particolare i
preliminari!”
sorrise
il signor Llargo, allontanandosi un poco dal suo sfidante entusiasta
in un semicerchio perfetto come una bestia pronta all'attacco,
togliendosi la giacca ancora sporca di candidi peli per gettarla
lontano – con fare non volutamente teatrale –
facendo ritornare
in vita muscoli per troppo tempo assopiti.
“Sono
Yammi Llargo, l'unico vero artista presente in questa mostra!
Ricordatelo bene merdina, perchè ti schiaccerò
ancor prima che tu
te ne renda conto!”
la
presentazione del massiccio pittore – davvero ben piazzato
per
essere un comune essere umano, magari sarebbe riuscito davvero a
metterlo a dura prova – venne accolta dall'ex mercenario, che
si
sistemò una lunga ciocca di capelli ribelli prima di
presentarsi a
dovere pure lui.
“Mi
chiamo Kenpachi Zaraki, guardia giurata. E spero davvero tanto che tu
mi faccia divertire!”
una
determinazione unica mista ad una eccitazione che ormai non provava
più da molto tempo, che lo colse con una frenesia ormai da
troppe
stagioni assopita, ignorata o quasi da una ragazzina ancora intenta a
coccolare un barboncino bianco.
Yachiru
infatti, pur non smettendo di grattare la testa ad una bestiola tutta
contenta, guardò incuriosita lo strano comportamento dei due
adulti
intenti a girare in cerchio e fissarsi contenti e rabbiosi.
Ancora
non sapeva quello che sarebbe capitato, ma presto avrebbe fatto il
tifo per Kenny fino a seccarsi la piccola gola dalle grandi corde
vocali.
[…]
Quando
l'ago della siringa sterilizzata andò a perforare la
stagnola che
ricopriva – come una pelle tesa e impenetrabile –
la bocca del
flacone di anestetico inviolato fino a quel momento, un timido suono
di perforazione raggiunse unicamente le orecchie del dottore che
stava in quel momento effettuando l'operazione di prelievo.
Aspirò
avido il liquido incolore, oltre la dose consigliata per un essere
umano, osservando con sguardo apparentemente inespressivo la siringa
colma fin quasi alla fine di potente anestetico.
Però,
era chiaro che sul volto di Shawlong Koufang
c'era una
punta di cinico – o meglio ironico – divertimento
nel lavoro che
svolgeva.
Come
avevano poi appurato i due novelli galeotti in prigione, quel medico
dall'aspetto allampanato e rigido nel suo candido camice da dottore,
più che essere un un puro uomo di medicina era il coroner di
quello
scalcinatissimo distretto di polizia in cui erano alla fine giunti
dopo una colossale rissa. Erano talmente tanto in economia, questo
almeno poteva sembrare se non era che magari non avevano tempo da
perdere con due individui come loro, da utilizzare un affetta
cadaveri su di loro anziché un comune dottore d'ospedale.
Ma
magari questa la si poteva contare come una punizione morale nei loro
confronti.
Ci
si pensa sempre dopo alle conseguenze di certi gesti sconsiderati e
folli, purtroppo non percepiti tali da due sfidanti intenti in un
duello all'ultimo sangue nel vero senso della parola.
Molto
sangue vermiglio – rosso e acceso come una fiamma
dell'inferno
esattamente come i capelli della dea portatrice di ira –
schizzò
sul lucido pavimento di cupo porfido rosso simili a schegge impazzite
ad ogni colpo di nocche andato a buon segno.
Gli
zigomi non vennero risparmiati. I setti nasali quasi si piegarono ad
ogni pugno inferto, avvertendo in malo modo il freddo metallo di
anelli quando c'erano delle dita che ne portavano. La fede di Yammi
aveva fatto dei bei graffi sul volto dell'uomo chiamato Kenpachi,
eppure quest'ultimo pareva spassarsela così tanto da ridere
come un
matto e ricambiargli ogni singolo favore.
Le
nocche colpirono petto e addome, a tratti come sfondare nel caldo
burro da tanto che erano forti quei colpi, tanto da lasciare il
pittore senza fiato e colmo di rabbia repressa.
Più
la battaglia tra i due imperversava come se fossero stati mostri
intenti ad attraversare le fiamme dello Stige per raggiungere le
porte di regni ben più peggiori, senza esclusione di colpi
alcuno,
più la gente della mostra voltava il capo verso di loro e
ignorava
gli splendidi dipinti.
Chi
con occhio preoccupato, chi storcendo il naso critico e offeso per
quello spettacolo fin troppo popolare, chi invece non sorprendendosi
affatto data l'irascibile popolarità del signor Llargo.
Persino
Ulquiorra assistette imperturbabile al massacro dei due gladiatori
–
come usciti da uno dei violenti dipinti della star della mostra
–
continuando a sorseggiare il proprio discreto alcoolico senza dar
mostra di volerli fermare.
Addirittura,
quando Yammi atterrò vicino a lui a causa di un manrovescio
della
guardia giurata – ma menava come un soldato,
altroché – si
azzardò unicamente a dire “ti serve una
mano?” con tono
neutro verso un uomo che più ribolliva d'ira, più
diventava potente
negli attacchi.
L'amico
rifiutò l'aiuto punto nell'orgoglio ora più che
mai, tuonando un
“ce la faccio da solo a sistemarlo”nel mentre che
si rialzava dal
suolo veloce e caricava come un orso un autentico lupo sempre
più
divertito.
Poi si
toccò il fondo quando sia la fastidiosa bimbetta e il cane
bastardo
iniziarono il loro irritante spettacolino. Non contenti di fare il
tifo con voce stridula o latrare rabbiosi, pure loro si buttarono sui
due quasi inaspettatamente.
Di
norma non era da Yachiru intromettersi nei combattimenti di Kenny
quando c'era da picchiare stupidi criminali. A lei piaceva guardarlo
in azione e vederlo divertirsi per divertirsi a sua volta.
Tuttavia
l'adorabile barboncino non più contento a stare a bordo
campo, aveva
stupidamente deciso di partire all'attacco e azzannare la caviglia
sinistra di Zaraki.
Partì
all'attacco anche lei piuttosto contrariata di quello che il cane
stava facendo – anche se alla fine stava solo difendendo il
proprio
padrone – dando sonori calci ai polpacci di Yammi e sfuggendo
veloce come un fulmine ai suoi patetici tentativi di cacciarla via.
Le
mani del pittore semplicemente colpivano l'aria, e intanto stava
iniziando ad incassare più colpi dall'avversario. Che seppur
ferito
dai temibili canini del barboncino – quello non era
divertente –
fu quasi in procinto di mettere al tappeto il proprio avversario.
Ci
riuscì difatti, ma senza neanche farlo apposta ad essere
onesti.
La
colpa fu di Isane. La moglie del pittore.
Fino a
quel momento, la premurosa signora Llargo si era tenuta distante dal
combattimento, ignara di ciò che stava accadendo nella sala
circolare, persa nell'osservare il lavoro di altri pittori e a
chiacchierare amichevolmente con gli appassionati d'arte che si
complimentavano con lei per il superbo lavoro del marito.
Poi
però schiamazzi e voci alterate raggiunsero persino i
corridoi
lontani da dove si stava svolgendo il misfatto, portati a lei da un
cupo eco che sapeva – quasi inconsciamente – di
rosso scarlatto e
di fiamme potenti come in uno dei tanti dipinti del proprio sposo.
Una
sensazione di disagio unica, che la portarono a correre veloce sul
luogo doveva aveva lasciato il compagno nonostante i tacchi piuttosto
alti, fino a raggiungere senza fiato un luogo dove molta gente le
faceva da muro allo scontro titanico e mal voluto che stava
coinvolgendo Yammi e un totale sconosciuto.
Si
fece strada a forza per quel muro di carne viva e pulsante di
sentimenti contrastanti – c'era pure chi rideva e scommetteva
dei
soldi sull'incontro – arrivando con un nodo in gola in prima
fila
nel vedere il volto del proprio compagno tumefatto e sporco di
sangue.
Non
furono le voci e le malignità della gente che la
circondavano a
raggiungerla. Non fu il latrato del cane e gli strilli di una bambina
arrabbiata a colpirla. Neppure la plausibile
“vittima” del
pittore le fece scalpore.
Ciò
che la colpì fu come il marito si era ridotto. Come avesse
“spezzato” una promessa che si erano fatti ormai
tanti anni fa,
spezzandole il cuore in un orgoglioso silenzio che aumentò
di
significato quando ella si portò una mano verso la bocca per
placare
singhiozzi crescenti.
No,
sapeva di non dover piangere di fronte a lui, lo avrebbe reso solo
più frustrato. Sapeva che piangere non avrebbe risolto
proprio
nulla, a fare l'infermiera si impara ad essere forti
anche
nelle situazioni più temibili. Però proprio non
ci riusciva a
resistere a quello spettacolo per i suoi occhi a dir poco tremendo.
Non riusciva a smettere di ripetersi che Yammi sporco di sangue
–
per quanto fosse un uomo forte come un titano – era uno degli
spettacoli più orribili ai quali mai avrebbe dovuto
assistere. Non
poteva impedire ai propri occhi dorati di mettersi a piangere in un
silenzio duramente trattenuto.
Isane
era una donna forte, questo il signor Llargo lo sapeva assai bene.
Tuttavia neppure lui riusciva ad ignorare quegli occhi arrossati e...
Delusi da quello che stava facendo, da non poter non provare qualcosa
dentro il petto congiungibile non più all'ira, ma al rimorso
che era
ben peggiore.
Un
piccolo passo falso quindi, come l'istinto gli aveva detto di
scrutare alla propria destra e osservare tra le file di persone la
propria sposa, che gli costò un ultimo pugno da parte di
Kenpachi
non accortosi che a distrarre il proprio avversario era stata una
donna. La moglie per essere precisi.
A
Zaraki non era mai piaciuto avere la meglio in un modo così
stupido,
abbattendo un nemico distratto e poco concentrato sull'estasi della
battaglia. Quindi ciò che si ritrovò ad
affrontare nel giro di
pochi secondi, non la calcolò affatto come una vittoria.
Da
dopo quel pugno, alcune manganellate si riversarono sulla sua testa
ad opera di un drappello di poliziotti – dai metodi piuttosto
spicci a quanto pare – che dopo uno straordinario ritardo
erano
finalmente sopraggiunti sul luogo della rissa riscontrando le peggio
assurdità presenti.
Dopo
quelle manganellate che ruppero il cuoio capelluto di Zaraki
facendogli riversare sangue sulla fronte, ci fu solo uno strano buio
accompagnato da frasi sconnesse e altri rumori lontani, fino al
risveglio dentro una cella che sapeva di muffa e candeggina.
E in
quegli attimi che seguirono il suo risveglio, un certo via vai di
personaggi strani aveva accompagnato il suo ingresso in quello strano
limbo malinconico.
Era
sicuro di aver fatto “cambio” con un ragazzino dai
capelli ramati
e dallo sguardo così aggrottato da essere ridicolo, a cui
aveva dato
solo una fugace occhiata stordita rimanendone comunque sorpreso che
uno stupido moccioso portasse così tanto orgoglio in corpo.
Seguiva
spedito e duro come una lapide l'uscita della piccola prigione
–
scortato da un paio di guardie annoiate e da un tizio piuttosto
strano che non faceva altro che scusarsi con lui – ignorando
il
fatto di avere la giovane vita ormai smerdata per
qualunque
sua malefatta compiuta, all'incontrario dei due poderosi uomini che
avevano tutta una esistenza alle loro spalle che più oscura
non si
poteva, tanto da essere quello un loro punto di forza quando i pugni
iniziavano a cantare.
Susseguirono
infine le visite parentali e quelle degli avvocati – piccoli
avvolto d'ufficio che cercavano di spillare denaro inutilmente
–
accavallati dai sorrisi amari di spose affrante e silenzi cocciuti di
uomini feriti nell'orgoglio.
Yachiru
non assistette all'incarcerazione del padre, ma ebbe comunque modo di
telefonargli alla centrale per augurargli buona fortuna e di dare una
lezione anche a quei ceffi dei piedipiatti.
Yammi
invece, ebbe da affrontare la dura prova di giustificarsi con una
moglie ancora delusa seppur ligia ai propri doveri, avendo come sola
“consolazione” il barboncino complice delle sue
battaglie
lasciatogli in concessione e ora beatamente addormentato accanto al
suo padrone.
Infine,
ore passate a scrutare le crepe sull'alto soffitto di quel
seminterrato e ascoltando distrattamente il cigolio provocato dalle
ruote di un carrello da infermiere, pieno di tintinnanti flaconi semi
vuoti di strane sostanze, trascinato come in una silenziosa
processione da un uomo corpulento e da una assurda acconciatura a
caschetto.
Il
dottore e quello che doveva essere il suo aiutante erano passati
almeno un paio di volte a visitarli per fare solo un paio di
iniezioni e tenerli buoni. Niente di più, niente di meno.
Dovevano
rendersi presentabili per il processo che si sarebbe tenuto da li a
poche ore, quindi era il caso di far sbollire i bollenti spiriti con
un po' di sedativo somministrato a intervalli regolari.
E
quell'uomo di nome Shawlong – presentatosi con una certa
ironia ai
due come nientemeno che il coroner del distretto – sembrava
trarne
un infinito piacere nel sedare due perfetti imbecilli iracondi.
Sotto
lo sguardo vigile del massiccio infermiere – in teoria
avrebbe
dovuto fare qualcosa nel caso il paziente avesse reagito in malo modo
alle premure del medico – il dottore legò ben
stretto il laccio
emostatico sul braccio di Zaraki Kenpachi, toccando i punti giusti
per sentire vene pulsanti di sangue e vita pronte all'iniezione.
L'ex
mercenario rimase buono e zitto nel mentre che il freddo ago entrava
nell'incavo del gomito, contraendo istintivamente i muscoli per la
piccola punta di dolore provata e osservando con un piccolo sorriso
ironico il pittore dall'altro capo della sua cella.
Di
fronte a lui Yammi stava iniziando a sentire gli effetti del
sedativo, pur restandosene seduto sulla branda intento a scrutare il
pavimento scuro in volto. L'orgoglio era l'ultima cosa ad essere
sedata in uomini come loro, spezzato solo da sentimenti più
gravosi
e difficili da ricostruire.
Ancora
una volta, quel maledetto detto popolare aveva mietuto le sue
illustri vittime.
Il
siero venne accolto da Kenpachi con uno sbuffo sarcastico, avvertendo
fin da subito il torpore fornito da quella sferzata gelida nelle sue
vene e reclinando per questo la testa all'indietro come soddisfatto
per quella geniale trovata della legge.
Colpì
lievemente le sbarre della spalliera del suo letto provvisorio con
una testa ancora spettinata più a causa della rudezza degli
agenti
che per il suo epico combattimento, sorridendo quasi soddisfatto e
per nulla preoccupato da ciò che lo avrebbe aspettato
l'indomani.
No,
neppure Yammi era preoccupato, quanto seccato per la noiosa
situazione in cui si era cacciato oltre ad essersi fatto fregare da
quei deboli – in tutti i sensi – piedipiatti di
periferia.
C'erano
molte questioni nella sua testa che non gli permettevano di riposare
al meglio. Contrariamente alla serenità del suo avversario,
tutte le
sue emozioni si impastavano tra loro in una spirale di colori accesi
e prepotenti, da essere considerata un'ira primigenia scatenata solo
– ancora una volta – attraverso una pittura fatta
più per
terapia che per diletto.
“Non mi alzo presto alla
mattina. Perché più dormo, meno devo
parlare... non pare anche a te mio buon Nakeem, che questo
bizzarro detto abbia una base di fondata verità?”
quando la cella contenente Zaraki Kenpachi si chiuse con un secco
clangore, la rigida figura del dottore – ora spezzata da
sbarre
candide scrostate di vecchia ruggine – pronunciò
parole che
parevano melliflue e sinceramente ammirate verso i due soggetti
appena sedati.
Ad accogliere la sua domanda in un ambiente illuminato freddamente da
luci al neon, ci fu solo un silenzio interrotto da un basso grugnito
d'assenso del silenzioso infermiere, e la tesa situazione dei due
uomini carcerati dai sentimenti contrastanti tra loro. Unicamente
uniti dalla loro diversità e ripugnanza vista attraverso
l'occhio
del mondo, colpevoli semplicemente di essere forgiati a sua immagine
e somiglianza genuina.
Non vi furono risposte seccate o arcigne verso l'allampanato dottore,
quanto un silenzio e mimica facciale che solo quella parlava da sola.
Troppo sedati ormai per ridere o insultare chi continuava a tacciarli
– con non troppa sottile rudezza – con quel detto
ridicolo,
semplicemente si beavano dell'ironica situazione dove si erano
cacciati.
“Ammirevole davvero...” contemplò infine
l'uomo di nome Koufang,
guardandoli di scorcio nel mentre che il fido collega annuiva alle
sue parole portandosi alla porta del corridoio, per raggiungere
quelli che erano i piani superiori. Lo stesso coroner decise infine
di seguirlo, con le braccia incrociate dietro la schiena e un nobile
passo su quelle mattonelle un tempo candide e ora rese grigie dal
tempo e sporcizia varia, deciso anche lui a lasciare quel luogo di
teso silenzio e orgoglio piegato ma non spezzato.
“Allora vi lascio soli signori, spero che il sonno possa
portarvi
consiglio”
Infine, giunto alla soglia della porta grigia e anonima come ogni
singola gabbia presente in quel seminterrato, le dita di Shawlong si
posarono sull'interruttore delle luci al neon lasciando finalmente
che le tenebre si impossessassero di quel triste luogo. L'unico
rumore che accompagnò l'uscita di scena dei due, fu solo il
catenaccio che veniva chiuso per ragioni di sicurezza.
Ma per quanto quell'oscurità avanzava imperterrita fuori
nell'ambiente che circondava i due e dentro i loro corpi sempre
più
assonnati, ebbero ancora il tempo di scambiarsi un paio di battuti
veloci prima che il forzato sonno di Morfeo non li stringesse nel suo
abbraccio.
Quasi spavaldi si potrebbe dire, erano come due gladiatori che per
quanto odiassero quell'infamante detto, oramai non potevano non
elogiarlo prendendosi deliziosamente gioco di lui.
Quasi in sincronia, i due sorrisero nell'oscurità scandita
solo dal
ronzio di qualche zanzara e dal sonno del piccolo cagnetto
tranquillo, riuscendo ancora una volta a provocarsi prima di vedere
tutto buio dentro la psiche.
“Ehe! Certo che è stato proprio divertente, non
credi anche tu?!”
“Pff... Appena esco di qui ti mostro il resto della mia
tavolozza!
E credimi, ha parecchi... Colori...”
poteva anche essere l'inizio di una bella amicizia tra i due,
tuttavia per il momento erano solo sogni dove per una volta tanto il
colore rosso non dominava ogni loro singola sfaccettatura onirica.
E dove non esisteva pregiudizio alcuno, capace di esasperare anche
l'uomo più temprato.
Piccole note aggiuntive:
La traccia fornita, in base anche ai due soggetti usati, mi era parsa
fin da subito piuttosto difficile da strutturare in modo realistico e
convincente. Lo ammetto, mi avete fatto sudare non poco nella
realizzazione di questa oneshot XD
Ad ogni modo, questa fanfiction si è classificata prima al
contest
“Cagami ancora – La rivincita dei personaggi
secondari” indetto
dal Bleach Yaoi Forum. Ringrazio le giudici per i loro giudizi sia
positivi che negativi. Questo risultato non avrei mai sperato di
ottenerlo!