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Autore: Mikaeru    09/09/2011    11 recensioni
Mycroft, costantemente preoccupato per Sherlock, dopo l'ultima volta che ha rischiato la vita, decide di prendere in mano la situazione nel modo peggiore.
(dark!Mycroft, post "The Great Game")
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Lestrade , Mycroft Holmes , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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And repeat three times: I care, I care, I care.


Sherlock aveva gli occhi della mamma, i capelli del papà e un broncio tutto suo. Mycroft non aveva mai visto un neonato di nove mesi imbronciato. Era sempre tiepido quando lo teneva in braccio – quando la mamma si complimentava con lui che riusciva a tenerlo quasi meglio di quanto facesse il padre – e non parlava mai, ma aveva sempre il broncio, ma almeno era un broncio carino perché aveva le labbra a forma di cuore. Gli piaceva muovergli il labbro inferiore col dito perché faceva un rumore strano, e Sherlock non diceva mai niente, limitandosi a fissare serio prima il suo dito e poi lui, con la solita espressione mista a curiosità; immaginava che si domandasse per quale motivo facesse una cosa tanto scema. Aveva un'espressione buffissima ed era il secondo motivo per cui Mycroft lo faceva. Aveva usato un sacco di rullini di Polaroid per le sue espressioni buffe; le teneva nascoste sotto il letto, nella scatola dei fumetti e dei libri vecchi che aveva già letto, e non le avrebbe mai mostrate a nessuno. Ogni tanto la mamma mostrava alle sue amiche foto imbarazzanti di quando era piccolo e non voleva che succedesse la stessa cosa a suo fratello.
C'era un'altra caratteristica curiosa di suo fratello minore: piangeva disperatamente appena lo si lasciava solo dopo essere stati con lui per molto tempo. Quando doveva stare nella stessa stanza con qualsiasi essere umano che non conoscesse bene – la famiglia, i domestici – guardava tutti con odio, si accoccolava alla mamma o a Mycroft e lì rimaneva, imbronciato; ma la stessa sera, appena appoggiato nella culla, cominciava a strillare, costringendo la mamma a tenerlo in braccio per ore o a farlo dormire nel lettone, anche se continuava a strillare per almeno un'ora, piangendo e lamentandosi. Mycroft era l'unico che riusciva a farlo smettere di piangere immediatamente. Lo prendeva in braccio e Sherlock smetteva, calmandosi; suo fratello lo baciava e addirittura spariva il broncio. “Mycroft” fu la prima, strascicata parola che disse.
Una volta si intrufolò nella camera dei genitori, quando le urla disperate di suo fratello rieccheggiavano per tutta casa e la mamma e il papà erano ad un passo da abbandonare il bambino in un orfanotrofio, o in un cassonetto. Quando lo strinse a sé, il neonato smise immediatamente di piangere.
“Può dormire con me? Il mio letto è abbastanza grande per entrambi.”
I coniugi Holmes erano talmente stanchi che avrebbero detto di sì anche all'inizio di una guerra nucleare. “Stai attento”, sbadigliò Violet Holmes, “stai attento a non farlo cadere.”, e si addormentò di colpo, ignorando il forte russare del marito, raggomitolato su se stesso in posizione fetale.
Portò a letto il fratellino e lo coprì per primo col piumone per proteggerlo dal rigido inverno. Si addormentò subito, con la pancia all'aria. Mycroft gli baciò la testa – aveva un sacco di capelli per la sua età – e gli promise che sarebbe rimasto per sempre quello che non lo faceva piangere, quello che non lo abbandonava mai.

Violet sfiorava con profondo amore la linea curva e morbida del pancione della signora Adams come se fosse il suo, sobbalzando appena quando sentì il calcio del nascituro – una bambina, in realtà, già chiamata Angelique come la madre francese di Robert - e Mycroft vide di nuovo quella luce particolare nei suoi occhi, il desiderio del terzo figlio (magari una femmina, aveva sperato fino all'ultimo che Sherlock fosse Sheridan) che sfumò impercettibilmente nella consapevolezza amara che quarantacinque anni erano troppi per una nuova maternità, e che in fondo era più che felice così, con i suoi due ragazzi.
“Di quanti mesi sei, Mary Ann?”, le domandò con tono di miele dolcissimo
“Cinque.”, e un sorriso si sciolse sul volto di entrambe, come se la felicità dipendesse dell'età del feto.
Mycroft cercò Sherlock con lo sguardo: l'ultima volta che aveva controllato cercava chissà che cosa in giro per il salone con la lente d'ingrandimento, ma sembrava non dare fastidio a nessuno. Quando lo cercò di nuovo per accertarsi che fosse ancora innocuo, se lo trovò davanti che scrutava serio la signora Adams e due uomini dietro di lei che parlavano, facendo oscillare appena un grosso bicchiere pieno per metà di vino rosso costosissimo – come quasi tutto ciò di cui la casa si costruiva, dalle assi di legno del parquet ai quadri appesi ai vestiti che la famiglia indossava, comprati quel pomeriggio. Con un gesto involontario si aggiustò il polsino della camicia.
“Questo è il secondo, vero Violet?”
Sherlock l'avrebbe giudicata ad alta voce una domanda idiota: Mycroft se lo aspettava da un secondo all'altro e fu sorpreso quando non fiatò. Annuì come un bambino normale, e Violet sorrise. “Sì, Sherlock, di sette anni più piccolo. L'abbiamo voluto tanto, sai.”
Uno dei motivi per cui Sherlock era viziato come un principino, aggiunse mentalmente il maggiore dei fratelli, senza lasciar trapelare lo sbuffo che avrebbe fatto se non fosse stato educato, ma che in testa fu decisamente sonoro.
“È un bambino bellissimo.”, disse la signora Adams con tono sospirante, sperando in cuor suo che sua figlia crescesse bella – c'era un cinquanta percento di possibilità, se avesse preso da lei; se avesse avuto i tratti del marito, quello che le aveva appena sfiorato il braccio per far notare la propria presenza (il brivido di sua moglie non era dovuto alla sorpresa, lo sapeva bene) sarebbe stata fortunata se avesse avuto una migliore amica molto brava col trucco.
“Questo è suo marito, signora Adams?”, domandò Sherlock contrariamente alle aspettative di Mycroft, che lo vedevano sbuffante e irato elencare i mille motivi per cui quello che la signora aveva detto era una delle cose più stupide che avesse mai sentito, partire dal fatto che coi genitori che aveva non c'erano molte possibilità che uscisse con un brutto viso fino a quanto fosse banale affermarlo, soprattutto perché non ci si aspetta molto altro da un'amica di famiglia. Mary Ann Adams sbatté un paio di volte le lunghe ciglia truccate, annuendo. Suo marito le strinse la mano, accarezzandole le dita.
“Allora suo figlio verrà molto bello, perché è di quel signore lassù.”, continuò con tono squillante, in modo che tutti lo sentissero. “So dalla mamma che lei è sposata da vent'anni, ma la fede che porta è troppo nuova, per cui dev'essere un regalo dell'uomo che guarda da tutta la sera, solo che nessuno se n'è accorto perché parlava con suo marito e tutti pensavano guardasse lui. Suo marito non si è accorto dello scambio di anello perché le presta poca attenzione e perché è sempre in giro per il mondo per lavoro, questo lo so da papà, e se lei è incinta da cinque mesi come ho sentito dirle prima alla mamma è per forza di un altro signore, non lui, che è stato in Giappone per due mesi, tornando a casa quando era incinta da un mese, ha ingannato suo marito indossando abiti che coprissero l'accenno di pancia e non portandolo con sé quando faceva le ecografie, ma con la mamma ha sentito di non dover mentire perché non era tesa e la confusione avrebbe coperto quello che diceva.”
Chi lo ascoltava scoppiò in diversi tipi di risate: quella isterica di Mary Ann Adams e del suo amante, quella amara del signor Robert Adams che aveva sempre sospettato – Mycroft lo capì dall'espressione con cui lasciava andare la mano della moglie –, quella incredula di quella che doveva essere la moglie dell'amante, quelle divertite del resto degli invitati e della mamma che non credevano alla grande immaginazione di un bambino così piccolo – ma Mycroft ne sentì alcune calare d'intensità quando scorsero la colpa sul viso degli amanti clandestini, e lei che si sfiorava la pancia con lacrime agli occhi che brillavano come minuscole stelle. Sapeva quanto fosse improbabile che, per quanto fosse tutto vero, ventuno persone adulte credessero ad un bambino di sette anni, ma per il padre era già un affronto che non avrebbe permesso di sopportare. Sieger Holmes, rosso di ira in viso, piombò mentre Violet rimproverava il figlio minore, con tono troppo bonario per poter essere presa sul serio, perché certi discorsi non si dovevano fare neppure per scherzo: il padre, sibilando che avrebbero fatto i conti dopo, lo prese per un braccio e scomparve; quando tornò da solo, con un sorriso di plastica impresso a fuoco, Mycroft capì che aveva chiuso Sherlock in camera. Sieger annunciò che la cena sarebbe stata pronta entro venti minuti, e Mycroft ne approfittò per sgusciare verso suo fratello, il cui pianto si sentiva fin fuori dalla porta. Era chiusa a chiave, chiaramente, ma aveva fatto duplicare la chiave molto tempo prima, quando aveva capito che avrebbe dato fuoco alla casa piuttosto che lasciare che Sherlock piangesse da solo.
Il gomitolo di coperte sotto cui era sepolto tremava; le scostò e trovò il suo viso di un rosso fiammante, con gli occhi gonfi e il naso che gocciolava.
“Ho solo detto la verità.”, balbettò singhiozzando, senza alzare il viso mentre Mycroft gli accarezzava la schiena, “Ho solo detto quello che vedevo, e papà mi ha detto che sono un bugiardo, che mi invento le cose solo per richiamare l'attenzione e che non devo perché me ne viene data fin troppa... non lo faccio per quello, è che è vero, è così...”
Sapeva che Sherlock non riusciva a comprendere il confine tra ciò che può essere detto e ciò che è meglio che venga tenuto per sé, e ciò che sapeva ancora meglio era che più di tutto soffriva perché il padre non lo reputava intelligente quanto sveglio, curioso, ficcanaso e terribilmente maleducato, e sembrava convinto che l'unico modo per raddrizzarlo non fosse ascoltarlo o cercare di capirlo, ma semplicemente punirlo.
Si limitò a baciargli la testa, a dirgli che era il padre ad avere torto, che quello che faceva andava bene; non aveva il cuore di cercare di correggerlo, di dirgli che esistono situazioni in cui è meglio tacere. Tra il pianto e il suo metabolismo infantile, Sherlock prese presto sonno, appena rincuorato dalle parole del fratello maggiore; Mycroft gli sistemò il cuscino e le coperte, baciandogli di nuovo i capelli prima di andare via, chiudendo la porta dietro di sé. Aveva il cuore che batteva forte in gola, e le lacrime di Sherlock gli bruciavano sulla mano con cui le aveva asciugate. Provò un moto di forte odio verso suo padre, che non cercava mai di capirlo, che si limitava a punirlo come se fosse un animale. Perché doveva essere lui a crescerlo? Lui che non gli dedicava abbastanza tempo, lui che preferiva sempre la via più breve, più facile, lui che non si sporcava mai di fango sul sentiero più impervio. Lo trovava triste, ingiusto, inaccettabile. Ma aveva quattordici anni, non era in grado di fare null'altro per suo fratello se non consolarlo, rassicurarlo.
Arrivò in ritardo per la cena di un quarto d'ora, ma i genitori erano entrambi troppo occupati ad intrattenere gli ospiti per accorgersene, fortunatamente per lui. Mangiò poco e lentamente. Sottovoce domandò alla cameriera che gli toglieva il piatto del dolce, intatto come l'aveva servito, di conservarlo per Sherlock, e lei annuì, sorridendo. Il mattino dopo i genitori sarebbero dovuti andare via presto per lavoro, ed era suo compito portare Sherlock a scuola: sarebbero rimasti a casa, invece, e avrebbero fatto colazione con il budino e la millefoglie guardando i cartoni animati in salotto.

Lo aveva portato personalmente nella miglior clinica dell'Inghilterra per disintossicarsi: sentiva, in maniera dolorosa e distinta, un pezzo del suo cuore galleggiare in uno dei numerosi liquidi che costituivano il suo corpo da quando lo aveva trovato nel suo appartamento nel centro di Londra con un respiro rarefatto, il viso di marmo e il corpo freddo. Aveva disposto che avesse una camera privata e la possibilità di suonare il violino ad ogni ora del giorno, per quanto avesse disturbato Mycroft si assicurò che nessun infermiere lo interrompesse. Quando andò a trovarlo di certo non si aspettava un minimo ringraziamento, fu anzi vagamente rincuorato nel vederlo rancoroso ed irritato, nervoso come un gatto su un filo elettrico – rincuorato al vedere Sherlock essere Sherlock.
“Non sapevo che il tuo lavoro ti permettesse di avere così tanto tempo libero da poterti occupare dei tossicodipendenti di Londra, Mycroft.”, sibilò gelido. Muoveva istericamente le dita delle mani e dei piedi – camminava senza ciabatte per tutta la stanza, come se ogni punto del pavimento, una volta toccato, diventasse lava – e lo guardava con sguardo incrinato, distrutto, come gemme screziate dal temporale. “Dovresti andare in giro per le scuole a fare promozione. È un lavoro che sognano tutti.”
“Ho sempre tempo per occuparmi di mio fratello.”
Avrebbe voluto portargli un regalo, ma sapeva che avrebbe buttato qualsiasi dono dalla finestra. C'era un vaso rosso, sul tavolo vicino al letto, pieno di fiori ormai secchi: erano un regalo della mamma, che doveva essere passata almeno quattro giorni prima; forse non aveva più avuto il coraggio di mettersi davanti ai risultati della propria condotta senza impazzire.
Mycroft guardò il viso pallido, le occhiaie nere e profonde, le braccia troppo magre, la maglietta che scopriva una spalla. Si domandò dove avesse sbagliato, se permetteva che suo fratello a ventitré anni fosse ridotto in quel modo. Non doveva vivere da solo, era quello che lo stava rovinando, portando verso un baratro – aveva bisogno che qualcuno lo sorvegliasse, come quando era un bambino, perché non era in grado di prendersi cura di sé.
“Non mi sembra che qualcuno te lo abbia mai chiesto.”
“Non ne sono sicuro, non avendo amici con fratelli minori, ma suppongo sia una cosa abbastanza naturale, sai?”
“Nessuno ti ha chiesto di agire secondo natura, Mycroft. Quello che faccio di me e dei miei soldi sono affari miei, non tuoi. Non devi intrometterti, e non mi sembra assolutamente che sia la prima volta che te lo dico, Mycroft.”
Continuava a girovagare per la stanza, confuso e isterico, e il tono di voce si era progressivamente alzato, appena acuto di isteria in alcune parole, durissimo quando pronunciò il suo nome.
Come aveva potuto lasciare che si riducesse in quella forma così misera, che umiliasse se stesso diventando un drogato? Sentiva che in qualche modo era anche colpa sua, che non aveva fatto abbastanza, che suo fratello aveva bisogno di qualcosa di più, di un maggiore controllo esterno – no, non un controllo, una guida, una guida che gli indicasse vagamente una strada, che disegnasse i contorni di un percorso molto largo ma i cui confini erano muri di filo spinato.
“Non sono affari tuoi, Sherlock. Non esisti solo tu a questo mondo.”
Vide il vaso che stava per colpirlo ma non si scansò.
“Moralista del cazzo.”
Sapevano entrambi che la conversazione era finita. Senza un respiro, Mycroft uscì dalla stanza, lasciando Sherlock urlare contro i muri.

"Che scena familiare."
John trasalì quando vide Mycroft sedersi accanto a lui: non aveva sentito il rumore della porta che si apriva, né i suoi passi.
"Salve, Mycroft...", sospirò quando il suo cuore riuscì a tornare al proprio ritmo naturale, senza però mai distogliere lo sguardo dal coinquilino: avrebbe potuto svegliarsi in quel momento e l'avrebbe trovato distratto; se fosse stato al suo posto, sveglio dopo due settimane di coma, si sarebbe offeso - e conoscendo Sherlock, che si offendeva semplicemente quando gli si faceva presente la sua ignoranza, in quel caso non lo avrebbe mai perdonato.
"Uno spettacolo tremendo, vero?", pronunciò con tono stanco. Si lasciò andare leggermente contro la sedia, come se non volesse davvero avere un supporto, un conforto. "Non riesco mai ad abituarmici."
"E' stato altre volte in ospedale?"
Per quanto Sherlock amasse mostrare il proprio talento, la propria intelligenza superiore, il proprio essere mostruosamente al di sopra degli altri, non parlava di sé, di ciò che aveva passato, delle parti molli del proprio essere. John sapeva poco e niente di lui, tutto ciò che aveva in mano erano supposizioni fragili come castelli di sabbia.
Mycroft annuì di nuovo, amaro. "Innumerevoli volte. Quando era adolescente si cacciava in guai molto più grossi di lui - credo abbia notato anche lei che non sa tenere a freno la lingua", ridacchiò appena, "e questo non ha mai influito bene sul suo fisico. Per anni si è allenato come boxeur, e credeva fosse importante che tutta Londra vedesse quanto fosse portato. E' finito in un letto d'ospedale più volte di quante i nostri genitori potessero sopportare; nostro padre ha cominciato presto a non dare più peso ai guai in cui si cacciava, perché non li vedeva in altro modo che come gli ennesimi tentativi di attirare l'attenzione. Sherlock ne ha sempre voluta, gli piace stare sotto le luci dei riflettori, vuole gli sguardi e gli applausi come un attore di teatro."
"Effettivamente è un grande attore.", sorrise John, riscaldato dal modo in cui Mycroft slacciava se stesso per parlare del fratello. Sherlock si era sempre dimostrato duro, perennemente infantile e sfrontato nei suoi confronti, non come Mycroft; ma lo sorprese comunque il tono con cui ne parlava. Era bello, splendente, quasi dolce.
"E' una dote di famiglia, quella. Lo siamo un po' tutti. Come tutti siamo intelligenti e capaci di gestire noi stessi. Sherlock non lo ha mai imparato. Lei non sa quante volte è stato causa di imbarazzo per i nostri genitori, coi suoi modi sfacciati e assolutamente incontrollabili."
"Non che sia mai migliorato."
Si sarebbe aspettato che il volto di Sherlock si piegasse in qualche smorfia irritata, come se riuscisse a sentire i loro discorsi - sarebbe stato tremendamente da lui, carpire gli altri anche in condizioni estreme.
"Mai. Non del tutto, almeno. Con lei è migliorato molto. Sa, Sherlock non ha mai tenuto veramente a nessuno se non a se stesso. Se avessero catturato me al posto suo, non giurerei che sarebbe venuto a salvarmi."
Aveva un tono così amareggiato che a John venne istintivo provare a smentirlo, ma Mycroft sorrise, sostenendo che non c'era bisogno che mentisse, o che fingesse di sapere di cosa stesse parlando. "Non sto facendo una colpa a nessuno, esprimevo solo la verità. Non sa quanto mi renda felice che ci sia qualcuno come lei per Sherlock, adesso."
"Non saprei quanto essere contento, in verità. Ora sanno dove colpirlo."
"Non dica così. Avrebbe trovato un modo comunque. Non sottovaluti l'intelligenza dei criminali, dottor Watson."
"Non lo faccio, stia tranquillo, non lo faccio assolutamente."
Mycroft sospirò di nuovo: portò gli occhi ad un polsino slacciato. Lo riallacciò con rimprovero.
"Sherlock non finiva in ospedale solo dopo le risse. E' stato un tossicodipendente per molto tempo. Non sono mai riuscito a proteggerlo da se stesso, sa? E'-"
"Frustrante. Terribile. Impossibile da accettare."
John conosceva bene il senso di colpa che così tanto stava facendo parlare Mycroft, che tentava disperatamente di liberarsi appena, così impaurito che quella pietra lo portasse in fondo ad un oceano da cui non sarebbe mai più scappato. Mycroft sorrise. A John parve di colpo molto più vecchio della sua età. Il sorriso stanco, le borse sotto gli occhi. Indossava, notava in quel momento, una camicia vecchia di almeno tre giorni, e il nodo alla cravatta era storto.
"Avrei dovuto immaginare che conoscesse la sensazione."
"Fin troppo bene. I fratelli sono enormi sensi di colpa che camminano."
"Similitudine decisamente calzante."
Sherlock non si muoveva. Più John lo guardava, più aveva voglia di gridare, di incolpare qualsiasi dottore per non riuscire a svegliarlo, come se fosse possibile. Voleva prenderlo e scuoterlo, ordinargli di ritornare, che Moriarty era ancora a piede libero, che c'erano così tanti casi ancora da risolvere che non poteva permettersi di dormire ancora. Avrebbe voluto insultarlo, ricordargli che era lui quello che non dormiva mai, che non era quello il caso di recuperare tutto il sonno perduto negli anni. Stava dimagrendo troppo, il vento avrebbe potuto portarlo via; doveva svegliarsi per mangiare o non avrebbe avuto le forze di correre per Londra come il pazzo che era. Con la coda dell'occhio osservò per un secondo il viso di Mycroft, dipinto nei colori della rabbia e del risentimento, nei toni bluastri del senso di colpa più profondo, come se fosse stato lui ad organizzare tutto con James Moriarty.
"E' tutta colpa mia."
Era un sussurro che si sarebbe sperso nell'aria, se non ci fossero stati solo loro due nella stanza.
"Non dica idiozie."
"Se sua sorella Harry si trovasse in coma, lei non si sentirebbe allo stesso modo?"
Sì, sì, sì, sì mille volte. Certo, avrebbe provato lo stesso. Se l'avessi aiutata, se mi fossi opposto più duramente al suo bere, se l'avessi portata in clinica, se fossi stato presente, se l'avessi ascoltata di più, se non l'avessi abbandonata.
"Scusi."
"Se fossi stato più presente, la vita di Sherlock sarebbe andata meglio."
"Lei non può controllare la vita di suo fratello. Ha trentaquattro anni, è capace di scegliere per se stesso. Io capisco --"
"No, non è in grado di scegliere per se stesso. Sarei dovuto essere un fratello migliore."
"Da quello che ho visto lei ha cercato di recuperare, ma è lui che si è sempre opposto."
"E' naturale, l'ho abbandonato, non posso certo sperare che tornando d'improvviso lui possa accettarmi."
"Abbandonato?"
"Ho preferito la mia vita alla sua."
"Signor Holmes, io credo che sia normale --"
"Non lo è. Sapevo sin da piccolo quanto l'equilibro mentale di Sherlock sia fragile, eppure ho preferito lavarmene le mani.
"E' comprensibile, umano e normale, signor Holmes. Mi sembra sciocco rimproverarsi. Non è egoismo, lei --"
"Lo è!"
Nel modo in cui si arrabbiavano, gli Holmes erano identici. Ma Mycroft non si alzò, non cominciò ad insultarlo; la rabbia si sciolse come ghiaccio e, con un profondo sospiro, tornò se stesso. "Lo è. Sarei dovuto essere più presente, meno egoista. Conoscendo lui e nostri genitori avrei dovuto agire di conseguenza."
John trovava che fosse un discorso senza senso, che si stesse addossando colpe non sue.
"Non sarebbe in coma, adesso. Avrei dovuto impedirgli di mettersi a caccia di criminali così pericolosi."
"Sa anche lei che sarebbe impazzito se non si fosse potuto sfogare in qualche modo."
"Avrei trovato altri modi perché lo facesse, meno pericolosi. Non posso permettere che mio fratello si metta in costante pericolo in questo modo."
"Ma -"
"Mycroft, stai zitto e vattene..."
Sherlock si era svegliato ed era tornato subito se stesso. Gli occhi di John pizzicarono di gioia. Non si accorse che Mycroft aveva ubbidito a suo fratello.
“Come ti senti?”, gli domandò con tono quasi materno, commosso. Sherlock si limitò a guardarlo con rimprovero e astio, impossibilitato a dire altro: doveva aver sprecato le sue ultime forze per suo fratello.
Mandò un messaggio a chiunque conoscessero, con le lacrime agli occhi.

Tornò a casa che pioveva a dirotto e i vestiti erano zuppi. Gocciolò nell'ingresso, con una mezza crisi interiore perché avrebbe dovuto pulire: un lampo illuminò a giorno, per un lungo istante, l'appartamento, vuoto e silenzioso. John sbuffò, profondamente adirato.
"Ti avevo detto di non uscire almeno per un mese, maledizione!", urlò come se potesse sentirlo. Era stato un ingenuo a credere che almeno il coma lo avrebbe fermato per un po': si sarebbe dovuto aspettare che una volta recuperate le capacità motorie si sarebbe rimesso subito alla caccia di Moriarty.
Con rabbia decise di fingere di non essere preoccupato per la salute di quell'idiota – quando la testa non faceva che martellare in ansia - e scese dalla signora Hudson, chiedendole se aveva per caso qualche avanzo per lui, che era appena tornato dal lavoro e non aveva voglia né di uscire né di cucinare qualcosa - anche perché, si ricordò in quel momento, non faceva la spesa da una settimana, ed era sicuro che non ci fosse nulla nella credenza, soprattutto da quando Sherlock, annoiato, aveva cominciato a fare esperimenti con il cibo, col risultato di impregnare la casa di un fortissimo e nauseante odore di verdura marcia.
"Oggi era giorno di svendita, al supermercato", trillò allegra la signora, mettendogli in mano tre enormi contenitori, "sono stata fuori tutto il pomeriggio e ho fatto rifornimento per un mese. Vi ho preparato alcune cose che potrete riscaldare per i prossimi giorni."
Si sentiva un po' in colpa ad aver fatto arrendere la signora Hudson ad essere la loro babysitter.
"La ringrazio davvero, signora Hudson, le sono molto grato.", disse con un cenno del capo da sopra i contenitori; uno profumava di pollo arrosto e patate, e gli veniva da piangere per la commozione di un pasto decente, "Dureranno moltissimo, visto che Sherlock non c'è e che comunque non avrebbe mangiato granché.", aggiunse con un sibilio irato.
"Come non c'è?", ripeté la signora allarmata: aveva preso a cuore Sherlock come un figlio maleducato, la cui salute era uno dei suoi primi pensieri.
"Non ho idea di dove sia, e quando ho provato a chiamarlo ho trovato il cellulare a suonare nel divano. Non vuole farsi trovare."
"Oh, santo cielo... speriamo torni presto, non è in condizione di fare chissà quali sforzi..."
"Lo sappiamo noi quanto lo sa lui, ma non sembra che sia una motivazione sufficiente a fermarlo. Non si preoccupi, signora Hudson, tornerà presto."
Il sorriso affabile di John sembrò rincuorare appena l'anziana vedova, che rispose al sorriso e sistemò il contenitore in cima, prima in precario equilibrio. "Mi raccomando, tu mangia, che mi preoccupo anche di te.", gli disse come per rassicurarlo che fra i suoi figli non si facevano preferenze. John lo intuì - lo stesso tono con cui sua madre gli accarezzava il viso bagnato di lacrime - e le sorrise.
"Mangerò di sicuro, sto morendo di fame."
"Vuol dire che sei sano."
Tornò su lentamente, ben attento a non fare cadere nulla, o si sarebbe picchiato per aver sprecato così tanto cibo.

Si svegliò con il rumore della pioggia che batteva contro una finestra accanto a lui, alla sua sinistra. Intuì di non essere a casa: il suono era leggermente diverso, il che indicava un diverso spessore del vetro, e in più indicava che si sarebbe dovuto addormentare vicino ad una finestra, il che era impossibile perché era sul divano, prima di cadere in stato comatoso, e quello su cui era sdraiato era più morbido del suo divano.
Si tirò su e cercò di guardarsi attorno. Decisamente non era Baker Street. Era un appartamento enorme, ma le finestre erano oscurate. Si avvicinò comunque: il rumore del traffico era soffocato, come se ci fosse un cuscino tra lui e il mondo, e questo significava che si trovava molto in alto rispetto alla strada. Ma non riusciva a capire nient'altro.
"Moriarty, non ti facevo così codardo da colpire una persona addormentata, sai? Ti facevo più divertente."
Suppose che la moda di colpire John fosse passata, che fosse diventato preferibile un attacco diretto.
Nessuno rispose. Sherlock aguzzò l'udito per cercare di catturare il minimo suono - dei passi, un respiro, qualsiasi cosa che riuscisse a fargli intuire chi lo avesse rapito e perché. Moriarty aveva promesso di bruciargli il cuore se avesse continuato a ficcare il naso, ed era esattamente quello che aveva fatto. A Moriarty piaceva giocare col cibo: si domandò quanto avrebbe aspettato prima di torturarlo, perché morisse lentamente, con dolore.
Era come se avesse perso d'un colpo tutti i sensi, perché erano inutili al fine della deduzione - non riusciva a capire dove si trovasse, perché fosse lì, se fosse davvero Moriarty. Era come essere immerso in una piscina durante una guerra.
"Abbi perlomeno l'educazione di rispondere!", gridò con la stessa rabbia di un animale imprigionato. Cominciò a muoversi febbrilmente per l'appartamento per analizzarlo, irritato dall'impotenza: arredamento costoso, riproduzioni di quadri miste ad opere originali, muri immacolati. Entrò in una camera da letto e, aprendo l'armadio, trovò tutte le sue camicie, tutte le sue scarpe, persino le mutande e le calze, e alcuni pacchi regalo sistemati in fondo. Un pizzico di paura cominciò a prudergli nell'incavo del gomito: iniziò a grattarsi furiosamente, ed ogni volta cercò di fare un solco più profondo con le unghie.
D'improvviso, lo scatto dello zoom di una telecamera.
"Sei diventato molto più subdolo e codardo dall'ultima volta che ci siamo visti. Hai paura, forse?", continuò a gridare, innervosito.
"Fatti vedere!"
Ancora il silenzio grave, profondo, che lo costringeva come le sbarre di una gabbia che ad ogni secondo si stringeva di più attorno a lui. Migliaia di sassi che si sbriciolavano dentro i suoi polmoni e lo rendevano furioso.
Continuò a guardarsi in giro, e tutto ciò che fu capace di fare fu calcolare quanto Moriarty avesse speso per l'appartamento. Pensò che fosse suo, per un attimo, considerando quanto doveva essere ricco, ma non c'erano tracce che la casa fosse stata mai abitata - non escludeva che fosse di sua proprietà ma escludeva che ci vivesse.
Lo scatto della porta che si apriva, in fondo all'appartamento, lo allertò. Furiosamente cercò una pistola, aprendo e buttando a terra tutti i cassetti, ma non trovò altro che calze, mutande, riviste, cravatte, aspirine. Sarebbe stato idiota presentarsi davanti a Moriarty completamente disarmato, ma non c'era altra soluzione. Tornò nel salotto in cui si era svegliato, e la voce evaporò nella sua gola.

La signora Hudson era davvero la cuoca migliore di cui avesse mai avuto esperienza. Sapeva cucinare di tutto e quel tutto le riusciva perfettamente; se da una parte l'esperienza contava molto, ricordava che sua nonna invece era un disastro, e che avevano preso l'abitudine di andare al ristorante per i pranzi domenicali.
"Sherlock avrebbe mangiato di sicuro.", disse ad alta voce mentre leggeva in poltrona, sentendosi idiota per la necessità di farsi compagnia. Sbuffò; erano le undici di sera e di Sherlock neanche un sibilo, e l'idea che fosse chissà dove cominciava seriamente a preoccuparlo, per quanto avesse preferito smettere di farlo - non era possibile che un uomo di trentacinque anni avesse bisogno di un controllo costante, per quanto Mycroft affermasse il contrario.
Pensò di chiamare suo fratello, ma sarebbe stato inutile: se non lo sapeva lui stesso, era altamente improbabile che Mycroft avesse una minima idea di dove fosse, e poi lo avrebbe fatto preoccupare, e dopo il discorso all'ospedale voleva tutto tranne quello. Sospirò, rassegnato all'idea di poter aspettare e basta, e sperare che non si cacciasse in qualche guaio - il che era un pensiero stupido, perché se Sherlock non cercava guai erano loro a raggiungerlo, braccarlo, assalirlo. Non che gli dispiacesse granché, in verità: lui viveva per la sensazione di essere costantemente sul filo del rasoio, ed era questo l'aspetto più preoccupante dell'intera faccenda. Sperò tornasse a casa sano e salvo il giorno dopo, con quel sorriso enorme da bambino sotto l'albero di Natale. "Ho trovato tre cadaveri impiccati nei bagni pubblici, chiusi da dentro, John ti muovi a venire? Dormirai un'altra volta.", avrebbe detto, o qualcosa di simile, e lui gli avrebbe vietato di correre per Londra, e lui si sarebbe lamentato e gli avrebbe giurato che sarebbero corsi solamente in taxi, e lui avrebbe ceduto, e in realtà in taxi ci avrebbero passato dieci minuti come sempre. Sperò proprio che tornasse presto Sherlock, così avrebbe passato il suo tempo a rimproverarlo, perché si stava annoiando e lui non era davvero tipo da sparare al muro - anche perché altrimenti la signora Hudson avrebbe bevuto sidro di mele dal suo teschio vuoto.

Sherlock, ad un numero imprecisato di miglia di distanza da John e dai suoi pensieri, dormiva placidamente sul letto. Qualche movimento elettrico ogni tanto facevano capire che era ancora vivo. Lo osservava dormire, e si beava di quanto sembrasse calmo e al sicuro.
Sherlock, ad un numero imprecisato di miglia di distanza da John e dai suoi pensieri, sognava incubi neri ed appiccicosi, in cui vedeva dall'esterno il proprio corpo martoriato e mangiato da corvi ed avvoltoi, e quegli uccelli si trasformavano in Sebastian, in suo padre, in --
"Mycroft!"
Lo urlò svegliandosi di colpo e guardando suo fratello che sedeva accanto a lui: Mycroft lo guardava sorridendo. Aveva la mano vicinissima al suo viso, come se avesse voluto accarezzarlo.
"Mycroft?", ripeté, guardandolo confuso, la sagoma di suo fratello ancora poco definitva. Poi, portando una mano al braccio, si ricordò dei sedativi con cui lo aveva infilzato quando aveva cercato di colpirlo, in preda alla rabbia di vedere lui alla porta, che gli sorrideva."Mycroft, cosa faccio qui? Perché mi ci hai portato? Dove diavolo sono?"
Suo fratello continuava a sorridere affabile. La speranza che fosse uno scherzo si stava affievolendo. "Non sei riuscito a dedurre nulla, vero? Era mia intenzione. Vivrai qui, d'ora in poi, Sherlock. Nessuno sa dove sei, nessuno sa che sono stato io a rapirti, e nessuno potrà più farti del male. Non correrai più alcun pericolo."
Sherlock sbarrò gli occhi, incredulo di fronte alle parole di suo fratello. Sentiva la stanchezza riafforare, cercare di impossessarsi del suo corpo – ma non poteva cedere, non poteva la carne prendere il sopravvento sulla mente, era il suo credo fondamentale, una delle sue certezze più radicate.
"Non ne ho intenzione, Mycroft.", ringhiò, in una pallida imitazione del suo modo di fare. Il suo tono non uscì arrogante come sempre, e la testa gli girava dolorosamente.
"Non mi sembra che le tue intenzioni possano valere qualcosa, in questo caso. Vivrai in un appartamento splendido, avrai tutto ciò che desideri, basta che tu me lo scriva su una lista, verrò a prenderla appena mi sarà possibile. Nonostante la tua opinione, il mio lavoro è abbastanza duro ed impegnativo, purtroppo non riuscirò a venire qui molto spesso. Ma ti guarderò sempre con le telecamere, 24 ore su 24, così sarò sicuro della tua incolumità, che è il mio unico interesse. Non ci sarà un momento in cui sarai solo, Sherlock. Non più. E no, non puoi fuggire. E' completamente chiuso ed isolato, e per tutti questo è semplicemente un appartamento che ho acquistato in cui ogni tanto vengo. Mi dispiace, ma non posso più permettere che tu metta in pericolo la tua vita come è successo finora. Avrei voluto farlo appena sei uscito dall'ospedale, ma l'appartamento non era ancora pronto, e non potevo permettere di farti vivere in uno che non rispondesse esattamente alle tue esigenze. Ci sono tutti i tuoi vestiti, come hai già visto, e tutto quello che ti serve per gli esperimenti l'ho comprato nuovo di zecca, ed è tutto in una stanza creata appositamente per questo, isolata da tutto il resto, così che tu non possa rischiare di danneggiare il resto della casa. So che l'idea non è esattamente di tuo gradimento, ma bisogna usare solo le maniere forti con te, altrimenti non c'è modo di poter ragionare."
La gola di Sherlock era secca, di sabbia durissima, e ogni tentativo della sua voce di uscire per insultarlo - urlare – fare qualsiasi cosa era vano. Si perdeva a pezzi tra i granelli e vicino ai denti non era più se stessa.
"Mycroft, il mal funzionamento della tua dieta deve aver fatto qualche danno al tuo cervello. Non c'è modo che tu possa tenermi chiuso qua."
"Certo che c'è. Non puoi uscire con una chiave, la porta si apre con un sistema a riconoscimento vocale. Non puoi minacciarmi di parlare per te perché non ci sono armi, e in un combattimento corpo a corpo io avrei la meglio. Ti consiglio semplicemente di rilassarti e accettare la tua condizione, perché io so qual è il tuo bene, molto più di quanto lo sappia tu. Non dovrai preoccuparti più di nulla, penserò a tutto io.”
Avrebbe voluto afferrargli il collo e spezzarglielo, ucciderlo e farlo in pezzi – non sarebbe più uscito ma almeno si sarebbe vendicato, e al diavolo il sistema di riconoscimento vocale, sarebbe riuscito a farlo funzionare, non c'era nulla che non poteva fare. Ma Mycroft infilzò di nuovo la siringa nel braccio, facendolo piombare di nuovo nel petrolio di un incubo vissuto in terza persona.

Si svegliò alle dieci del mattino – in realtà dovevano essere più o meno le dieci e un quarto, la sveglia sul comodino era indietro di circa quindici minuti - con un vago senso di inquietudine e cinque chiamate senza risposta sul cellulare, come lesse quando lo prese in mano. Teneva sempre la suoneria accesa, solo la sera prima lo aveva lasciato muto come quando era al lavoro. Erano tutte di Lestrade: doveva esserci qualche nuovo caso da sottoporre a Sherlock, che non gli era stato possibile contattare. Sbadigliando lo richiamò, stropicciandosi gli occhi con la mano libera, cercando di frenarsi appena lo sentì rispondere.
“Mi hai chiamato, Lestrade?”
“Volevo sapere se Sherlock è in casa.”
Dal suo tono grave doveva essere un caso veramente serio: forse erano coinvolti dei bambini, ai quali Lestrade era particolarmente sensibile – quando riusciva a sbottonarsi diceva sempre che ne avrebbe desiderati un paio, lui che era cresciuto con un padre perfetto e aveva l'assoluta convinzione di poterlo essere a sua volta.
“No” sbadigliò, scusandosi, “no, manca da ieri. Lo cercavi?”
“Devi venire in obitorio, John.”, pronunciò grave con il distacco tipico di chi parla spesso di cadaveri che sfumava in una nota acuta e dolorosa.
“... cosa?”
“Crediamo di aver trovato Sherlock..”
Il mondo sfumò, cedendo il posto ad un silenzio sibilante. Gli avevano staccato la spina, gli avevano trafitto gli occhi con una freccia avvelenata, avevano dato in pasto i suoi organi vitali ad un branco di lupi affamati.
Poi si rese conto che Sherlock non sarebbe mai morto. Lui era immortale, era sopravvissuto a tutto. Che stupidaggine, il cadavere di Sherlock. Non sarebbe mai esistito.
“C'è Sherlock lì con te e questo è uno scherzo di pessimo gusto, soprattutto perché mi ha fatto preoccupare tutto il giorno. Almeno è rimasto con te. Me lo passi? Voglio sapere perché ha dimenticato – anzi, lasciato il cellulare a casa. Giusto per farmi venire un attacco di cuore, vero?”
“John, non è un discorso che possiamo fare al telefono. Vieni all'obitorio, per favore. C'è la possibilità che non sia lui. Vieni il prima possibile.”
“Okay, okay, arrivo.”
Sherlock non sapeva proprio organizzare gli scherzi. Questo era così pesante e così finto che anche un bambino lo avrebbe smascherato: certo che lo credeva davvero deficiente. Ma non si offese, considerando che era una completa perdita di tempo. Scendendo giù dal letto sbuffò irato, mentre si toglieva il pigiama e lo abbandonava in qualche angolo casuale della stanza. Bel modo di sprecare il proprio giorno libero, a stare al gioco di un bambino di cinque anni, non c'era che dire. Avrebbero perlomeno dovuto offrirgli due cene per farsi perdonare i battiti del cuore che aveva mancato.

Era lui.
L'orrenda consapevolezza fece il giro del suo corpo, raffreddandone ogni angolo, prima di arrivare al cervello che ne prese nota, ghiacciandosi.
Era Sherlock. Freddo, muto, immobile. Gli occhi chiusi, le labbra aperte - il cuore perfetto, ora bluastro e screpolato, secco. Era un dottore, era stato un soldato, era abituato a cadaveri in peggiori condizioni: ma nessuna esperienza lo aveva mai preparato neppure all'idea di Sherlock in obitorio.
Le sue spalle, le sue gambe lunghe, riconosceva il viso per metà sotto la pelle bruciata, avrebbe saputo tracciare il suo corpo martoriato dalle incisioni di un coltello. Gli aveva estratto il cuore dal petto.
Se continuerai a ficcare il naso, ti brucerò il cuore.
Il fuoco, le bombe, le bruciature, il suo corpo ridotto in quel modo, torturato post mortem come ultimo sfregio alla sua esistenza. Desiderò averlo trovato lui, avrebbe potuto abbracciarlo fino all'arrivo della polizia, cercando di passargli metà della sua vita, così che quella poca rimasta ad entrambi l'avrebbero vissuta assieme.
Non c'era niente attorno a lui. Sentiva gravissima la mancanza del respiro di Sherlock, ne percepiva l'assenza come di un parente morto. Quando si sentì chiamare gli pizzicarono gli occhi perché non era una voce profonda e scura, ma era Lestrade che, distrutto, quasi mormorava, quasi si mangiava le parole, come se non volesse più parlare. John sentiva, forte come un urlo e rimbombante come un'eco, la domanda in punta di lingua che non voleva porgli.
“È Sherlock.”
Molly, dietro di loro, strinse i denti e tirò su con il naso. In silenzio cominciò a compilare il modulo, tenendosi lontana da loro, mai così spaventata da un cadavere. Donovan e Anderson uscirono dalla stanza mentre John mandava un messaggio a Mycroft. Gli disse solo di venire all'obitorio, perché sapeva che non ci sarebbe stato bisogno di nessun'altra parola. Fu lì in mezz'ora. John lo trovò spezzato, come un albero colpito da un fulmine. Sciolto in se stesso, si accasciò sul corpo del fratello, quasi senza riuscire a respirare da quanto forte i singhiozzi lo scuotevano. Molly lo prese da parte, con la voce che tremava, perché compilasse dei moduli, una burocrazia che non gli era mai sembrata così inopportuna, indegna di esistere. Come poteva firmare accanto al nome del proprio fratello?
Sarebbe dovuto restare a casa, non sarebbe dovuto andare al lavoro. Perché ne aveva trovato uno? Sarebbe dovuto rimanere disoccupato, sarebbe potuto rimanere a casa con Sherlock. Lo conosceva, ormai, sapeva com'era fatto, sapeva che non sarebbe mai rimasto buono sul divano ad aspettarlo, aveva già sprecato troppo tempo all'ospedale e Moriarty era là fuori che lo aspettava, attendeva con febbrile eccitazione che Sherlock si lanciasse di nuovo al suo inseguimento. Era stato un idiota, un povero imbecille, Sherlock aveva sempre fatto bene ad insultarlo. Era tutta colpa sua.
“Non è colpa sua, John.”
La voce di Mycroft, un agglomerato di fili del telefono spezzati, gli giunse lontana centinaia e centinaia di miglia. Erano ancora nella stessa stanza, sullo stesso pianeta?
Poteva esistere un mondo accettabile in cui Sherlock Holmes era morto?
“In qualche modo sarebbe uscito. Nessuno è colpevole tranne chi l'ha ucciso.”
Non riusciva a guardarlo in faccia, aveva paura che avrebbe trovato le accuse che temeva, nonostante le sue parole.
“Lo so.”
“No che non lo sa.”
Perché era confortante che ci fosse un'altra persona in grado di capire quando stava mentendo anche senza guardarlo? E perché allo stesso momento era terribile che ci fosse un altro Holmes a vita – e forse i genitori, non aveva idea se fossero ancora vivi. Come sarebbe riuscito a stare accanto ai suoi genitori al funerale?
Il funerale. Il funerale. Alla facoltà di medicina ci sarebbe dovuto essere un corso di sopravvivenza alla morte del proprio migliore amico. Perché si sa come curare la tubercolosi, si studia per debellare l'AIDS, e nessuno insegna come sanare se stessi?
Come lo avrebbe detto alla signora Hudson? L'avrebbe uccisa. Non voleva essere lui a dirglielo, non voleva tutte quelle responsabilità – voleva un periodo infinito incosciente di lutto. Voleva trasferirsi in un'altra vita in cui non aveva mai conosciuto Sherlock Holmes.
“Mi dispiace, John”.
Non riconobbe la voce, né il tono, a malapena lo raggiunsero le parole: in ginocchio, accanto al suo cadavere, stringeva forte la sua mano, annullando il mondo attorno a lui col suo pianto.
Il funerale si tenne tre giorni dopo. Era riuscito a rimanere abbastanza lucido da vestirsi elegante, una sorta di ultimo regalo a Sherlock. La signora Hudson non avrebbe preso parte al funerale, voleva che il suo ultimo ricordo di Sherlock fosse di una persona insopportabile e viva. Chiamò un taxi perché l'idea di stare nella stessa macchina di Mycroft e dei loro – dei suoi genitori gli era insopportabile, come se avesse dovuto giustificare la morte del loro figlio minore. Mycroft gli aveva persino offerto di abitare per un po' da lui (“Sa, abito in una villa, prima ci vivevano anche i miei genitori – sa, l'ho comprata apposta perché vivessero con me, per non sentirsi soli, ma adesso si sono trasferiti ad Oxford... sicuro di non volere? Piuttosto che a Baker Street da solo...”), ma l'idea di tradire Sherlock così lo aveva fatto rabbrividire.
C'erano più persone di quanto si sarebbe aspettato – non avrebbe scommesso un centesimo su tutta Scotland Yard al completo, addirittura Donovan e Anderson. Lestrade aveva gli occhi gonfi e bassi di chi trattiene a forza un pianto isterico. Si sarebbe dovuto avvicinare ai familiari per le condoglianze ma rimase fermo dov'era, accanto all'ispettore, a distanza di sicurezza. Li guardò tutti per un attimo ciascuno: in tutti gli Holmes c'era qualcosa che gli ricordava Sherlock. Gli sembrava di impazzire, sarebbe voluto esplodere piuttosto che essere lì.
Tutto quello che venne detto attorno a lui nella memoria si incastrò come un ammasso informe di parole gommose, senza significato, tutto ciò che accadde era una pellicola degli anni venti, in bianco e nero, rovinata dal tempo. Solo il momento peggiore, quando la bara venne coperta di terra, nella sua mente rimase vivido e cristallino, come dipinto dietro gli occhi.

“Oh, Sherlock, non va bene, non va bene per niente. Hai perso tre chili. Perché non mangi?”
Dritto sulla bilancia aveva solo i boxer addosso. Mycroft lo aveva portato in bagno e lo aveva spogliato lentamente, sorridendo. Diceva che doveva monitorare il suo stato di salute, e questo comprendeva il controllo del peso.
“Non mi piace quello che mi porti.”
“Cosa vorresti mangiare, allora?”, gli domandò in tono amorevole. Gli tolse le mutande e lo fece entrare nella vasca da bagno, colma di acqua tiepida e schiuma. Si ricordava che da piccolo suo fratello amava fare il bagno in quel modo, così da poter giocare con le bolle di sapone. Si ricordò di un disastro particolarmente grosso, una volta, in cui per sbaglio aveva allagato tutto. “Se me lo dici mi accerterò che le cuoche assecondino i tuoi desideri.”
Si sedette sul bordo della vasca e gli bagnò i capelli. Cominciò a lavarli, massaggiando delicatamente la cute. In bagno c'era profumo di mandorle.
“Non mi piace niente.”
“Su, Sherlock, non essere capriccioso. Se non mi dici quello che vuoi come possono le cuoche farti qualcosa che ti piaccia?”
“Non voglio mangiare.”
“Sherlock, su.”
“Vaffanculo.”
Gli tirò appena i riccioli con leggero rimprovero mentre gli sciacquava i capelli. “Non fare il bambino.”
“Non ho mai preso ordini da te, non credo che inizierò ora.”
La presa si fece più forte – appena appena, ma Sherlock la percepì.
“Non è un ordine, era solo un consiglio da fratello maggiore.”
Si lasciò mettere il balsamo in silenzio, guardando sporgere le proprie ginocchia dall'acqua.
“Ieri c'è stato il tuo funerale.”
La voce s'infranse sulle bolle di sapone: una decina scoppiarono. Sherlock soffiò la schiuma, e osservò la curva delle ossa del proprio polso.
“Immaginavo avessi architettato qualcosa del genere. È stata una bella cerimonia, spero, degna di me.”
“Splendida. La mamma ha avuto un mancamento quando ti hanno messo sotto terra.”, gli disse placidamente, quasi in tono dolce, mentre lasciava agire il balsamo. Prese la spugna, e Sherlock lo guardò con astio: Mycroft sospirò forte, roteando gli occhi, e lo lasciò pulire da solo. Sherlock non glielo lasciava mai fare, ma una piccola concessione non gli avrebbe fatto male. Gli passò la spugna e il bagnoschiuma come una concessione regale.
“Immagino che papà non ci fosse neppure.”
“Invece c'era.”
“Avrà pianto di gioia, non mi ha mai sopportato.”
“Che discorso infantile, smettila subito. C'era anche John, sai. Non ho mai visto nessuno più disperato di lui.”
Gli sciacquò i capelli con un pettine perché non rimanesse traccia del balsamo. Lo fece uscire dalla vasca e lo avvolse nell'accappatoio, cominciando a sfregargli le braccia e le gambe. Odorava di buono come quando erano piccoli e la mamma glielo metteva in braccio dopo il bagno. Lo sentì tremare appena, il collo curvarsi.
“Possiamo smettere di parlarne, non mi sembra un discorso che ti possa piacere portare avanti. Allora, vuoi che ti porti qualche altro libro, la prossima volta? Non credo di riuscire a venire prima della settimana prossima.”
Accese il phon e cominciò ad asciugargli i capelli per dargli il tempo di pensare.

Si piegò su se stesso per il dolore allo stomaco. Le molle del letto cigolarono appena. Per quanto cercasse di non pensarci, la fame se lo stava mangiando da dentro. Riusciva a sentire l'odore delle cene e dei pranzi che, da dentro il frigorifero, aspettavano solo di essere riscaldati per qualche minuto. Aveva così fame che gli si stava per annebbiare il cervello. Da una parte sapeva che sarebbe riuscito a resistere almeno ancora una settimana e che mangiare avrebbe voluto dire arrendersi a Mycroft, dall'altra era perfettamente consapevole che senza cibo non sarebbe riuscito a pensare, e quella era l'unica cosa che gli rimaneva.
Il tentativo di sabotare la porta a riconoscimento vocale era fallito. Aveva provato ad attaccare Mycroft ma lo aveva gettato a terra, scusandosi poi per avergli fatto del male. Si tolse il cerotto e scoprì una crosta enorme vicino alla piega del gomito, dove aveva sfregato contro il pavimento. Infilzò le unghie nella carne viva.
Aveva bisogno di fare qualcosa, di distruggere – di distruggersi. Le braccia erano piene di graffi e in ogni dove c'erano cocci dei vasi che aveva rotto, le bende insanguinate che Mycroft gli aveva messo due giorni prima – non mangiava da quattro giorni, si rese conto – quando lo aveva trovato con la testa sanguinante dopo aver colpito il muro. Soffocava continuamente, per la prima volta dopo quasi sei anni avrebbe preferito morire che essere lì, vivo e pensante e pienamente nella sua coscienza.
Si avvicinò al frigo, lo aprì e in preda ad un raptus mangiò tutto quello che si trovò davanti, ficcandosi tutto in bocca con le mani, sperando di soffocare.
L'orologio sopra la cucina segnava le due e trenta, Sherlock non sapeva dire se del pomeriggio o della notte, perché i suoi orari già irregolari si erano completamente fottuti. Mycroft entrò – allora era pomeriggio - e lo tirò via dal frigo, trattenendolo con forza. “No no no, Sherlock, non si mangia in questo modo, lo sai benissimo. Da bravo, mettiti a tavola, ti riscaldo qualcosa – stai mangiando tutto freddo, ti farà male allo stomaco.”
Quando Mycroft lo toccava sentiva la pelle bruciare, ma era così debole che non sarebbe riuscito a ribellarsi. Sentiva le sue dita strettissime attorno alle braccia come un lucchetto. Si fece mettere a sedere a tavola ma si rifiutò di toccare il cibo caldo che suo fratello gli mise davanti. Scostò il piatto, guardandolo con ostinato rancore, come se avesse ancora un senso portargliene. Come se non fosse sicuro che sarebbe morto lì.
Se ne era reso pienamente conto quando si era fatto male al gomito. In un modo o nell'altro, mangiando e dandogli retta o continuando nella sua condotta, sarebbe morto lì. Di vecchiaia, di malattia, o sarebbe impazzito e il suo cuore sarebbe esploso. Una consapevolezza bruciante – la prima volta che si era arreso dinanzi a qualcosa. Eppure dare soddisfazione a suo fratello continuava a presentarsi come un'opzione insopportabile, inaccettabile.
“Spero tu non voglia che ti imbocchi, Sherlock.”
“Ci sono altre cose che vorrei, ma non credo possano essere esaudite a meno che tu non abbia un attacco di cuore o un incidente stradale.”
Mycroft rise appena, apparentemente sinceramente divertito. “E poi chi si prenderebbe cura di te, Sherlock?”
“Lo farei da solo, come ho sempre fatto.”
“Abbiamo già fatto molte volte questo discorso, Sherlock.”
Era tornato improvvisamente serio e gli aveva spinto di nuovo il piatto davanti. “Mangia. Non ti fa bene saltare i pasti, stai continuando a dimagrire.”
“So prendermi cura di me, Mycroft, so che mangiare mantiene in vita il mio corpo, ho frequentato le elementari, grazie mille. Mangerò più tardi, non mi piace farlo in compagnia.”
“Non sai prenderti cura di te stesso, Sherlock, altrimenti non saremmo arrivati a questo punto.”
“Oh, certo, ora è colpa mia se hai una tara grossa come l'America in testa, vero?”
“Se tu fossi mai stato abbastanza grande da non cacciarti in guai più grossi di te ogni volta che esci non mi avresti costretto a prendere provvedimenti.”
“Io non mi cacciavo nei guai, era la mia vita, e tu non avevi diritto di intrometterti.”
“Certo che lo avevo!”, cominciò ad urlare Mycroft, guardandolo rabbioso, “Sono tuo fratello e non potevo permetterti di continuare così! Con Moriarty hai rischiato davvero di morire, come potevo rimanere seduto a guardare?”
“Come hai fatto per tutto il tempo quand'ero ragazzo!”
“Sto solo cercando di rimediare. E dovrai accettarlo, Sherlock, non c'è molto altro da fare. Io ho da lavorare, mangia.”

Sherlock doveva avere cinque anni, quel giorno che tornò da scuola piangendo. Aveva un ginocchio bendato che continuava a bruciargli e gli occhi gonfi e rossissimi. Per quanto l'autista cercasse di consolarlo, Sherlock si dibatteva come un gatto selvatico, correndo da suo fratello col naso che colava.
“Cos'è successo?”, gli chiese Mycroft con orrore, prendendolo in braccio. Era piccolissimo per la sua età, ma tutti i maschi Holmes lo sono fino alla prima adolescenza, quando si allungano come rami magici.
“Jack” singhiozzò suo fratello, stringendolo, “Jack della terza elementare, quello stupido, mi ha spinto per terra in cortile, sui sassi...”
“Perché lo ha fatto?”
“Solo perché gli ho detto che andava male a scuola e lo prendevano tutti in giro perché era troppo stupido, e allora mi ha spinto e sono caduto e mi sono fatto male...”
Mycroft si ricordava di quel bambino, enorme e arrogante, che tremava di paura di fronte a quelli più grandi di lui ma non aspettava un secondo a prendersela con i più piccoli. Andavano in una scuola che copriva dall'asilo alle superiori, gli era più volte capitato di vederlo terrorizzare i più piccoli, di sgridarlo senza ottenere niente. Ma questa volta aveva oltrepassato il limite, alzando le mani su suo fratello.
“Povero, povero...”, lo vezzeggiò Mycroft, accarezzandogli la testa mentre il bambino calmava il pianto. “Su, su, va tutto bene, ci pensa tuo fratello domani...”
Lo portò in cucina con sé dove riempì una tazza di latte e un piatto di biscotti. Si misero sul divano a leggere fino a tarda sera – i genitori non sarebbero tornati che la settimana dopo, e ne approfittavano sempre per fare il più tardi possibile, rimanendo nei limiti concessi dal fisico di Sherlock.
Il giorno dopo Jack, con un occhio nero, il naso rotto e i lacrimoni, andò a scusarsi con Sherlock, che non osò mai più toccare.

Era una settimana che la febbre che non scendeva, rimaneva lì costante, anche di poche linee ma sempre presente. Sherlock aveva cominciato a mangiare meno del solito, giusto il minimo indispensabile per tenersi lucido, lo stesso per quanto riguardava bere. Si sentì colpevole, in qualche modo sarebbe dovuto essere più presente, almeno perché mangiasse. Sarebbe rimasto con lui per un po' tutto il giorno, fino a quando non si fosse abituato a quella vita e avesse acquisito dei ritmi regolari – fino a quando non si fosse arreso al suo bene.
“Sherlock, ti prego, prendi la medicina.”
Continuò a rifiutarsi come aveva fatto tutto il pomeriggio, cercando di toglierselo di dosso.
“Sherlock non posso far venire un dottore, e se non ti curi starai peggio...”
“Chiama John.”
“Lo sai che non posso farlo.”
“Fallo venire, io rimarrò qui.”
“Dovrei crederti? Prendi l'aspirina, muoviti.”
“Fai venire John o non prenderò niente.”
“John ti crede morto.”
“Correggilo.”
Riprese a tossire e Mycroft aveva voglia di spaccargli il bicchiere in testa. Stava in ginocchio accanto al suo letto dopo aver saltato una riunione per lui e tutto quello che sapeva fare era chiedergli di John.
Cos'aveva John più di lui? Cosa c'era in lui che non andava bene? John non era niente, John non era suo fratello. Lui aveva molto più diritto di stargli accanto. Come poteva chiedergli di John?
“Non posso, Sherlock, sii ragionevole.”
Sherlock si arrotolò su se stesso, in posizione fetale tossiva col corpo scosso e Mycroft non sapeva che fare. Mandò un messaggio ad Anthea: le disse che stava davvero male e che per un po' non si sarebbe presentato al lavoro. L'Inghilterra poteva cavarsela da sola per un po'.
Stargli sempre accanto era l'unica soluzione. Avrebbe imparato a fare i conti con la sua presenza, si sarebbe abituato e avrebbe smesso di fare storie.
Quando fu esausto di protestare riuscì a fargli prendere l'aspirina. Lo lasciò addormentarsi e andò a prepararsi un caffè per la veglia notturna a suo fratello.

La vista di Sherlock era annebbiata e il suo cervello confuso. Non ricordava quasi più niente: non ricordava da quando viveva lì né perché, e soprattutto per quale motivo Mycroft fosse sempre in quella casa. Non aveva un lavoro? Cosa faceva sempre lì?
Aveva fame. Sapeva che erano giorni che l'aveva, che era l'unica costante. Ma non aveva intenzione di dirglielo.
Sentiva il corpo bollente, spossato, debolissimo. Odiava versare in quello stato, perché il suo cervello era per forza una parte fisica e ne risentiva anche lui, e non riusciva a pensare propriamente come al suo solito. Era irritante.
Cosa stava facendo Mycroft? Perché non c'era John in cucina? Era John quello che faceva un buon the. Poi, John, John – John comprava i biscotti perfetti per accompagnarli, quando non litigava con le macchinette. Era successo tre volte. John era proprio sfortunato con la tecnologia. Scriveva così lento al computer. Era sfortunato in generale, la prima donna che aveva trovato stava per finire ammazzata dai cinesi. Una volta aveva vinto mille sterline all'estrazione del lotto ma aveva perso il biglietto – no, non lo aveva perso, Sherlock lo aveva bruciato in un esperimento. Non gli aveva parlato per un giorno intero. Poi Sherlock gli aveva offerto la cena e gli era passata, dicendo che mille sterline, cosa vuoi che siano, in fondo in nome della scienza posso sacrificare questo e altro.
Gli piaceva John. Era uno strano tipo di persona; innanzitutto non lo aveva mandato al diavolo, non diceva che era pazzo. Gli stava vicino.
Chissà quanto aveva pianto al suo funerale.
Gli mancava. Non lo avrebbe mai ammesso né fatto capire, ma gli mancava non sentire la sua voce e non avere qualcuno per cui parlare.
Mormorò il suo nome sottovoce prima di addormentarsi.

Due giorni dopo la febbre era passata ma Sherlock passava tutto il suo tempo a dormire.
Mycroft era seduto accanto a lui sul letto. Sembrava tranquillo, sano. Gli accarezzò una guancia e i capelli. Lo faceva sempre quando era piccolo. C'erano delle volte in cui aveva gli incubi e bastava che Mycroft gli sussurrasse che era lì con lui per farlo stare bene e tranquillizzarlo. Malgrado le speranze e i tentativi, non poteva più essere così e non riusciva a darsi pace. Aveva sempre creduto di poter essere capace di vegliare sufficientemente di lui, di poter rimediare ai propri errori a quel modo – forzando la sua vita verso una linea più retta e sicura. Ne era stato terribilmente sicuro fino a quando non aveva sentito il respiro di Sherlock farsi più lieve, debole. Respirava a fatica, con grande sforzo. Rischiava di perderlo.
Si assicurò che fosse ben coperto ed uscì dalla sua stanza, chiudendo silenziosamente la porta. Aprì l'ingresso dell'appartamento e si infilò in ascensore. Salutò il portiere e, una volta in strada, chiamò John. Erano le sette di sera, sarebbe dovuto essere facilmente reperibile.
“Pronto? Ha bisogno di qualcosa?”
“No, no, dottor Watson, stia tranquillo. Volevo solo dirle di venire a prendere mio fratello. Chiami Lestrade, se vuole, e un'ambulanza, non ho conoscenze mediche ma credo sia in condizioni gravissime. Sono certo che non mangi da giorni, né che abbia bevuto alcunché. Si è rifiutato. Lei sa quanto è infantile.”
Non sentì nessuna voce dall'altro capo del telefono. Doveva averlo sconvolto; era una reazione naturale ed ovvia.
“John?”, lo chiamò per accertarsi che non fosse svenuto. Ma no, non poteva esserlo, un uomo dell'esercito doveva essere abituato a ben altro.
“Se questo è uno scherzo non fa ridere per niente, Mycroft, e se lo fa per la perdita di suo fratello le posso consigliare una brava psicologa. Ma non si sfoghi con me.”
“No, no, no, mi ascolti. Non sono mai stato così serio. Quello che abbiamo seppellito era un sosia perfetto, ma le sarà tutto più chiaro dopo la mia confessione alla polizia. Ora non c'è tempo per parlare. Venga al 96 di Sydney Street, e si muova.”
Una decina di minuti di macchina da Baker Street. Forse aveva sempre voluto essere trovato, sin dalla prima idea del suo piano.

La sirena dell'ambulanza come il giorno del Giudizio Finale, le luci che lampeggiavano anche se chiudeva gli occhi e li strizzava, la voce di John che urlava il suo nome. Gli aveva creduto, alla fin fine. Si era aggrappato ad una speranza sottile come un filo strappato.
“Salve, dottor Watson.”, lo salutò calmo, sorridendo all'ispettore e ai suoi uomini. “Solo voi due, e fate salire gli uomini con la barella. Ma che salgano per le scale, noi tre saliremo in ascensore. Entrate, entrate, non vi mangio. Mi farò arrestare, successivamente. Non c'è bisogno che mi guardi in quel modo, ispettore. Muovetevi, non so neppure se è ancora vivo.”
Si lasciò seguire tranquillamente nell'ascensore vuoto. Mycroft premette l'ultimo piano e le porte si chiusero: John aveva l'impressione che qualcosa si chiudesse per sempre.
“Perché --”
“Perché credevo di poterlo proteggere veramente, John. Se lo avessi tenuto sempre con me – se fossi riuscito ad averlo sempre sotto il mio controllo sarebbe stato bene. O almeno lo credevo. Credevo che avrebbe capito, accettato, compreso che lo faceva per il suo bene, perché saperlo costantemente in pericolo di vita mi uccideva. Ma ho sbagliato. Io amo mio fratello, signori miei. Molto più di quanto nessun altro potrà mai farlo e molto, molto di più di quanto possiate credere, ma so rendermi conto quando commetto un errore.”
Un discorso folle pronunciato con il massimo della calma, con voce placida e tranquilla, liscia come il mare. L'ascensore si aprì e quella stessa voce aprì le porte dell'appartamento. John se l'aspettava incrinata, disperata, dolorante, e invece era sempre la stessa. Mycroft era sempre uguale a se stesso.
Un forte odore di chiuso e il tentativo di coprirlo con deodoranti per ambienti li investì. John si precipitò dentro l'appartamento, il cuore che si era ingigantito e batteva in ogni punto del corpo. C'era ancora quel sottile, cortissimo filo di ragnatela a cui aggrapparsi – poteva essere vivo, Mycroft non gli avrebbe mai fatto del male, Mycroft gli aveva portato da mangiare per tutto quel tempo e lui doveva essere vivo oh sì Dio doveva esserlo per forza Sherlock Holmes non muore mai -
Sdraiato sul divano, sembrava che dormisse, un braccio sulla pancia e uno per terra. Si doveva essere addormentato d'improvviso, era così ben vestito. Ma sembrava così pallido, scavato – da quanto tempo non mangiava? Ogni parte del suo corpo batteva come un tamburo.
Si avvicinò lentamente a lui, mentre i secondi si prolungavano e sperava che non morissero – anche il tempo si sarebbe dovuto piegare al battito delle emozioni umani, dilatarsi e restringersi a comando. Con l'orecchio vicino alla bocca, sentì che respirava ancora, flebilmente. Quando precipitò in ginocchio accanto a lui, Lestrade chiuse le manette attorno ai polsi di Mycroft, che continuava a non opporre resistenza.
“Io l'ho amato e lo amo molto di più di quanto possiate mai credere. Non mi aspetto che voi comprendiate. Io volevo davvero proteggerlo, ero certo del mio metodo, sicuro che nessuno lo avrebbe fatto meglio di me. Ma Sherlock non ne aveva bisogno, e io non l'ho capito. Volevo che avesse bisogno di me. Credevo di essere sufficiente. Se ne prenda cura lei, dottor Watson.”
John teneva il corpo di Sherlock fra le braccia, il proprio cuore che batteva fortissimo contro quello dell'altro, debole ma costante. Privo di conoscenza, si limitava a respirargli contro la pelle, privo di ogni forza ma vivo, che era tutto quello che contava.
L'ispettore lo portò fuori mentre i dottori arrivavano con la barella e vi appoggiavano sopra Sherlock, la cui mano, per un istante, strinse quella di John, come se lo avesse riconosciuto.

  
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