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Autore: missohara    23/09/2011    10 recensioni
Immaginatevi una città italiana. La periferia, di questa città italiana. Un liceo classico fuori mano, una classe normale, coi suoi problemi ed i suoi pregi.
Una famiglia, due sorelle.
Ed una di queste è la mia protagonista.
Bea, Beatrice. Una "ragazza di periferia", che si destreggia in un mondo che forse le sta troppo largo.
E con lei i suoi amici, sua sorella, la sua famiglia..
Ed un ragazzo che bussa alla porta armato di un impermeabile giallo canarino e di un sorriso che sembra incarnare il cielo.
Ed eccola, lascia che sia.
Con un titolo che è la traduzione di "let it be", la storica canzone dei Beatles.
Che è la storia che sogno da anni, anche se non è esattamente uguale a quella che ho sempre voluto scrivere.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note:
Bene...
Ok..
Ehm....
Possiamo cominciare, sì.
Le note ad inizio capitolo non mi piacciono, anzi, ma qui sono doverose.
Questa storia è quella che sto scrivendo da ora.
L’idea di scrivere una storia così, però, mi ossessiona dalla prima media.
Diciamo che non è una storia d’amore. È una storia d’adolescenza,di famiglia, d’amicizia, d’amore.
L’amore è uno dei tanti elementi, che la compone.
Il mio obiettivo non è di parlare dei due protagonisti.
Ma anche di parlare della loro famiglia, dei loro amici, delle loro passioni.
Il narratore interno cambierà di capitolo in capitolo....
Spero che i miei personaggi possano, più o meno, piacervi.
Baci
Ceci - missohara

Capitolo primo:
[Beatrice]

L’ora di greco non terminerà mai, ne sono consapevole.
Ho sempre amato tutta la letteratura, e quella greca non faceva eccezione.
Ma... Ma descritta e spiegata da quella professoressa, la odio a morte.
Non ci mette sentimento, lei, perciò spiega freddamente, con voce piatta ed atona anche le più commoventi gesta degli Achei.
Legge Omero come se fossero le istruzioni di un videogioco, con lo stesso tono piatto ed inespressivo che avrebbe potuto usare nel parlare di un vetro rotto.
“è Omero, per Dio!” Voglio urlarle.

Macché... Me ne sto lì, a fissare quella lista interminabile di frasi da declinare.
Odio quella professoressa. Ha distrutto il mio amore per quella lingua da subito, con il suo fare apatico e privo di passione.
Debora, dall’altra sedia, mi fissa con gli occhi annebbiati.
Lei è la mia migliore amica. Me lo sono chiesta spesso, perché diavolo lo sia.
Ho iniziato a chiedermelo quando all’asilo voleva fondare un gruppo rock come “i stonni rolingi”, che era il suo modo di chiamare i Rolling Stones.
Ha gli auricolari ficcati nelle orecchie, ora, Debora. Dondola una gamba seguendo il ritmo del brano che ascolta, incurante di tutto e di tutti.

Ride, Debora.
Gli occhi persi sul foglio, nel suo mondo di musica, di suoni.
Ride perché lei se ne frega, della scuola. Perché lei ha fatto il liceo classico solo perché era solidale nei miei confronti.
La guardo attraverso i suoi capelli. È bella, lei.
Di quella bellezza schiva, un po’ timida. Ed è femminile, tanto. Quella femminilità che nasconde sotto ai jeans strappati ed alle magliette di gruppi sempre diversi.
Nel banco davanti a noi, Irene e Letizia.
La prima è una mia amica, la seconda meno. Irene ha gli occhi nascosti sotto alla frangetta scura.
Due fanali color speranza, che scrutano con discreta attenzione la professoressa di greco.
La sua famiglia ha problemi quanto la mia, penso. A volte la vedo scrutare il cellulare e correre in bagno.
Piange, credo. Quando esce ha il trucco sbavato, i capelli in disordine e l’aria distrutta.
Solitamente, lei, è sempre serena. Ha un sorriso pulito, da “brava ragazza”.
Eppure, di brave ragazze di periferia, si dice che se ne trovan poche.
Letizia invece strappa pagine di diario per farne piccoli bigliettini da passare ad Irene che puntualmente ignora.
La loro amicizia è un mistero per tutti.
Leti cambia ragazzo ogni settimana. Non è un’oca, è semplicemente ingenua.
I “fidanzati” di Letizia sono svariati, ma tutti hanno una caratteristica in comune: sono bastardi.
E lei se ne innamora perdutamente, come fossero i principi venuti a salvarla.
E questi, puntualmente, la lasciano dopo qualche giorno. E lei arriva durante latino (la prima ora del lunedì mattina) con gli occhi rossi per il troppo piangere e dice ad Irene: “non voglio innamorarmi più”.
E poi, tre giorni dopo, si presenta a scuola con le gote rosse di gioia ed il sorriso di una bimba.
Non è possibile odiare Letizia. La compatisci, semmai. Ma odiarla no, è troppo buona e troppo tenera.
Al primo banco c’è Lucrezia. Prima di conoscerla, ero fermamente convinta che avrei chiamato così mia figlia.
Ma quando ho conosciuto Lucretia (si firma così, col nome alla latina) mi sono ricreduta. Non è stupida e non è neppure un’oca starnazzante.
È semplicemente altera. Vive nel suo mondo di cristallo, lei. In una piccola bolla felice che fluttua indisturbata ed impenetrabile sopra di noi.
Porta i capelli alla maniera rinascimentale.
Un’insieme di crocchie, trecce, nastri e riccioli che farebbero indispettire chiunque.
È così dannatamente fuori luogo, in un liceo appena fuori dalla periferia.
Ed eccolo, finalmente. Lui, quel trillo angelico, quel sospiro di fine lezione: il suono della campanella.
Subito rumore di voci, grattare di sedie. La prof cerca di sovrastare le chiacchiere con la sua voce antipatica e monocorde, ma viene ignorata.
Mi affianco a Debora, vicina al suo motorino. I miei genitori non se ne potevano permettere uno sia per me sia per Bianca.
Allora han preferito darlo alla Piccola (così è nota mia sorella), ed a me regalare la bicicletta scassata di papà.
Quando posso, vado a casa con la mia migliore amica.
Viviamo ad un piano di distanza. Passiamo i pomeriggi insieme, a studiare.
Lei sta lì, immobile, sulla sedia della sua stanza. Armata di una chitarra che sembra comprata alla coop, con i capelli giù ed il sorriso da musicista pazza.
La adoro, quando suona. I suoi occhi si riempiono di brace, di calore, di vita.
E lei sta lì, ad esercitarsi su un assolo di qualche brano per ore, concentrata e felice.
Debora guida piano, nel traffico cittadino. Le strade scintillano di pioggia, diamanti d’acqua sporca brillano sul marciapiede.
Ci fermiamo davanti al liceo socio psicopedagogico in cui studia mia sorella.
Guardo il cortile, aspettando Bianca. Infine eccola lì, vicina al suo motorino di seconda mano.
I capelli color miele le spuntano a ciuffi dal casco azzurro, e sorride mentre mi saluta.
È bella, mia sorella. Bella di quelle bellezze molto nordiche: capelli biondissimi, occhi azzurri, pelle chiara.
È all’ultimo anno di ginnasio, lei. I suoi quindici anni scarsi li dimostra appena, nonostante sia cresciuta tanto.
Gli occhi sono i soliti: dolci, pieni di vita e vivaci.
Ma quest’estate le tappe della crescita, lei, se le è letteralmente divorate.
È diventata adolescente con un sorriso, Bianca.
Ed ora è lì, accanto al motorino che mi guarda e che sorride. Le voglio bene, le voglio troppo bene.

**

Casa mia è al nono piano di un palazzone di periferia. La periferia dei ragazzi che per guadagnare qualcosa rubacchiano e spacciano sostanze più o meno lecite. La periferia la si vede negli occhi degli operai, con le mani usurate di fatica ed il viso con la barba fatta male.
La periferia, la mia periferia.
Un palazzone grigio è il mio castello, una stanzetta con i poster dei Beatles la mia camera di principessa.
Ma mi va bene così, finché ci sono loro. Loro, i miei amici e quel poco di famiglia che mi è rimasto.
Sono china su una versione di latino da ore, ormai.
Mi concentro perché riesca a cavare qualcosa da quell’ammasso di parole vuote, pronunciate anni ed anni prima che io nascessi.
Bianca, al mio fianco, fissa il muro con fare distante.
Mi accorgo di quanto sia cambiata ogni tanto, quando nei suoi occhi scorgo una luce strana: amara, spaventosamente lontana dai soliti sguardi dolci e mansueti che mi rivolge di solito.
La nostra camera è piccola, troppo. I libri, i poster, due letti, l’armadio.
Tutto si ammassa in pochi metri quadri, separati dal resto del mondo da una porta che non si può chiudere a chiave.
Studiamo per ore. Le teste chine sui rispettivi libri di scuola, ogni tanto ci guardiamo e parliamo appena.
Siamo sempre state brave studentesse, noi due. Di quelle che i pomeriggi li passano sui libri e non se ne fanno un gran cruccio.
Il pomeriggio va via così, fra fruscii di pagine e sottolineature di appunti.
Mi accingo a preparare la tavola e Bianca cerca di mettere insieme qualcosa per cena.
Mamma è al lavoro e chissà quando tornerà, e papà starà fuori di notte per l’ospedale.
Siamo sempre state abituate a mangiare da sole. Non siamo un granché come cuoche, non posso negarlo. Ma riusciamo perlomeno a preparare qualche toast.
Ci sediamo sul divano ed accendiamo la Tv.
Per il salotto si diffonde la sigla di un quiz televisivo, non so precisamente quale. Chiudo gli occhi ed immergo la testa fra i fiori stampati del divano.
La giornata è stata lunga, come sempre.
Bianca accanto a me fissa il toast.
“Non ho fame.” Dichiara, e scappa in cucina a buttare il panino intatto.
La guardo stupita: Bianca non ha mai rifiutato il cibo, né lo ha mai gettato così in pattumiera senza riguardi.

Spero che Debora passi a trovarci. Un po’di compagnia non può non allietare questa serata novembrina.

“Spegni questa roba, basta.” Dichiara mia sorella, stizzita. Si alza e corre in camera, sbattendola d’improvviso.
Che cos’abbia Bianca, in questi giorni, non lo riesco a capire.
Prendo il computer. Mi piazzo in cucina, apro la finestra e lascio che l’aria, odorosa di pioggia, entri a fiotti nella casa.
Premo i tasti con foga, quasi volessi staccarli.
Scrivo, come sempre. Tengo uno scrupoloso diario da quando ero bambina, e lo aggiorno quotidianamente.
Mi piace scrivere. Riesco a dare un ritmo alla mia vita, con la cadenza delle parole.
È come se facessi una passeggiata fra i miei pensieri, mettendoli su carta.
Tutto mi è più chiaro, e riesco ad andare a dormire senza grovigli di riflessioni dolorose.
Il cellulare, sul tavolo di formica, inizia a vibrare: un messaggio.
Spero sia di Debora, ma è di mia madre: “Cenate voi, preparatevi qualcosa. Arrivo fra poco.”
“Bel tempismo, mamma.” Penso mentre elimino sistematicamente l’sms.
Gli occhi mi prudono di quelle lacrime che ricaccio indietro giorno dopo giorno.
Mamma non è con noi da due anni. Cioè, teoricamente lo sarebbe: viene a casa tutte le sere, mangia con noi, chiede qualcosa relativo alla scuola.
Ma mamma non c’è, non per davvero. I medici dicono che soffre di una depressione mal curata, che è entrata dentro di lei con l’arrivo di Bianca, ma che si è manifestata solo quando io ho finito le medie.
Mamma non reagisce. Potresti anche dirle che sei in cinta, e la sua risposta puntualmente sarebbe: “Parlane con papà, amore.”
Ma papà... Papà è un’altra storia, anche se non si discosta più di tanto da quella di mia madre.

Riprendo a scrivere, anche se con meno foga. Lascio che le parole si adagino piano sullo schermo del portatile, per poi sostituirle con altre.
Trascorrono decine di minuti, aspettando che mia mamma ritorni. Bianca è in camera sua: sento la sua voce che parla piano al telefono, forse sta chiacchierando con qualche sua amica.
Mi stendo sul divano. Chiudo gli occhi e mi addormento, o quasi.
È mia mamma a svegliarmi. Fisso l’orologio del soggiorno: le dieci di sera.
“Bea....” Mamma mi scuote leggermente. È una donna minuta, lei, con solo due grandi occhi scuri come segno di distinzione.
Ha il solito cappotto color liquirizia, il foulard che le hanno regalato per i diciotto anni e gli orecchini di puro finto corallo addosso.
A volte la vorrei scrollare. Scuotere quel suo corpo esile, aspettando che succeda qualcosa.
Invece no. La guardo, per un attimo.
Mi rivolge la solita espressione neutra, come se non mi vedesse realmente.
“Buonanotte, mamma.” Scappo in camera mia, congedandomi da lei con un bacio distratto.
Bianca è ancora sveglia, che armeggia con dei fogli.
Appena mi vede, però, li mette subito via in gran fretta.
“Che succede, Bianca?” Provo a chiederle.
“Niente, Bea, niente. Sono solo cose di scuola....” Non indago, non ne ho la forza.
“D’accordo. Buonanotte, Bianca.” Lei si rannicchia nel letto.
Il silenzio cala fra noi. Mi spoglio piano, per poi tuffarmi letteralmente sotto alle coperte.
Osservo per un po’ il disegno sopra di me: me l’aveva fatto mia sorella, ai tempi della sua quinta elementare.
Ritrae un’anatra che vola, con le ali aperte, sull’acqua di un qualche laghetto. L’osservo sempre, quella buffa papera, prima di dormire.
È un piccolo ricordo, un regalo di Natale da parte di mia sorella.
“Bea....?” è la voce di Bianca che mi coglie impreparata. Sussurra piano, puntellandosi con i gomiti.”Cosa c’è?” le chiedo, stupita.

“Niente.... È solo che... Niente, buonanotte.”
Non riesco ad indagare.
Ci penserò domani, dopotutto.
E con questa certezza mi addormento, scivolando in un sonno pesante e senza sogni.
**

Note:
beh....
beeene, eccovi il primo capitolo.
Che ve n’è parso? Vi piacciono, i miei personaggi?
Bea.... Parliamone, di Beatrice.
Non è una Mary Sue. Per la prima volta, sto scrivendo di un personaggio che non è che mi assomigli poi molto.
Siam cresciute in un ambiente diverso, e lei ha dei problemi familiari non indifferenti.
E poi.... E poi c’è Bianca.
Il prossimo capitolo, credo, sarà su di lei.
Il fantomatico “lui” (che un lui, in ogni storia, ci vuole” arriverà.... Arriverà, si, ma non ora.
Ora devo dipingere il contesto in cui vive Bea, e parlare di tanti personaggi.
Ad ogni capitolo, se possibile, metterò un qualche verso di canzone all’inizio.
Per questo, proprio, non mi veniva in mente niente. Suggerimenti?

Voi...

Che ne pensate?
Su chi vi piacerebbe leggere?

Sono aapertissima, sappiatelo.
Due ultime cose:
- Lucrezia-Lucretia: Non doveva venire fuori così.  Doveva venir fuori solo un'oca, non con tante manie di protagonismo. I capelli... No, non sono acconciati alla maniera rinascimentale. è Bea che distorce le cose.
- Due ringraziamenti:
.Ad Alessia, perché mi fa morire. Ho condiviso con lei la stessa fottuta angoscia del "posto o non posto", ed alla fine ha vinto "posto". Spero che la vinca anche lei, l'ansia del postononposto.
A martina, che è sempre quella che si sorbisce più scleri psicologici sulla storia. Che ci vuoi fare, al telefono... Certe cose sono immediate U.U

Baci
Ceci

   
 
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