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Autore: _Seppia    28/09/2011    3 recensioni
“Dobbiamo far chiasso quando siamo soli, o si cade sempre più giù. Parlo troppo anche per questo. Se non ho nessuno con cui parlare, parlo da solo”.
Progetto campato in aria di una serie di lettere scritte da Romano. So che non riuscirò ma tentar non nuoce, no?
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sud Italia/Lovino Vargas
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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La pubblico ora.

In ritardo di quasi un anno rispetto al 17 marzo ma ignorate il piccolo dettaglio, sì. L'ho ritrovata solo ora. Shhht~

 

Lettera che esiste da parecchio e che era stata scritta per il Feliciano di Lu' -ciao, saluta!- e ritrovata dopo cancellamenti vari di account.

Mnh.

Vi lascio~

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Caro Feliciano,

sappi che non so nemmeno io cosa sto scrivendo, ma apprezza queste quattro parole in croce, per favore, sai quanto io sia impedito nel metter giù qualcosa di formalmente “carino” o “accettabile” che dir si voglia. Non ne sono capace, è più forte di me, butto giù ciò che ho in mente e basta.

E mi sa che, ora, comincio a capire perché quei dannati grammaticus erano tutti prediche e rimproveri, ogni volta.

Ma non mi interessa molto, alla fine.

Questo è un documento ufficiale? No. E quindi ‘fanculo l’etichetta. Qui sono io, Romano, tuo fratello che scrive. Non son né il pezzo d’Italia che ti manca per farla tutta, ma che forse non vuoi nemmeno più, né sono il mio popolo, senza il quale non esisterei. Sono Romano Vargas.

Sono quel ragazzo che si può vedere a spasso per Roma fin troppo spesso. E tu sei mio fratello, ora. Quello che quando attacca a parlare nei suoi dialetti è incomprensibile quanto me, quello che, ancora, si diverte con gli scherzi telefonici.

Guarda, lo so, ormai, che sei tu, la cosa del signor Brambilla è vecchia di secoli.

Quello che ha un sorriso per ogni volta che io ne perdo uno.

Quello che ride troppo, per i miei gusti, ma che mi fa capire che, semplicemente, lo fa anche per conto mio.

Quello che parla, parla, anche quando non lo ascolto, che lo fa per tranquillizzarmi in quel modo tutto suo che devo sempre fingere mi dia sui nervi.

“Dobbiamo far chiasso quando siamo soli, o si cade sempre più giù. Parlo troppo anche per questo. Se non ho nessuno con cui parlare, parlo da solo”.

Hai idea di quanto questo mi abbia fatto prendere un colpo? Di quanto queste parole me le sono sentite dire, ormai quasi centocinquanta anni fa?

No, non lo sai.

Perché, per un momento, ho quasi avuto paura di averti fatto del male, non impegnandomi abbastanza, secondo le mie idee contorte, non riuscendo mai ad essere abbastanza forte da cacciare chi mi teneva giù per cercare di riacchiapparti.

Ancora oggi la penso così. Penso che sarei dovuto essere più forte. Il fratello maggiore dovrei essere io? Non lo sono stato. Continuo a non esserlo tutt’ora.

E i fatti, tanti, troppi, lo dimostrano.

E, come al solito, mi tocca starci male. Anche se sono stufo. Anche se sono dannatamente felice quanto in ansia.

Meno di venti giorni, Felì, ma te ne stai rendendo conto?

Meno di venti giorni e saranno centocinquanta.

Io che credevo avremmo retto vent’anni e poi ognuno a casa sua. C’ho messo un secolo e mezzo a capire che, entrambi, vogliamo che diventi /casa nostra/, e basta. Nostra. Né mia né tua.

Mai parola tanto semplice m’è sembrata bella. E potrei, cazzo, credo di starlo già facendo, dilungarmi fin troppo su ‘sta cosa. Ma non lo farò. Voglio evitare di venire soffocato dai tuoi soliti abbracci. Campare un altro paio di secoli non mi dispiacerebbe poi così tanto.

E sono qui, le foto in mano di quello che abbiamo passato. I libri di storia che ricordano solo gli eroi e non chi si è sacrificato affinché i “grandi” potessero trionfare.

Secondo te lo hanno conosciuto, loro, quel ragazzino del ’98 che, durante la Grande Guerra, fu ucciso proprio mentre era ormai in procinto di tornare a casa? No. Non lo ricordano e nessuno, se non quei parenti che non lo videro mai più, lo ricorderanno.

Io invece lo ricordo. Perché era accanto a me. La stessa trincea.

Io non posso morire, sono ancora qui. Lui aveva vent’anni, e non c’è più. Non c’è più da un secolo, quasi.

Ma perché ora penso a questo? Perché mi sto ributtando in mente tutto quello che s’è fatto in centocinquanta anni.

Compreso il Regime, compresi i partigiani, i tedeschi, la mia Roma presa…

Anche solo pensarci mi da un male bestia. E non continuerò.

E ancora mi chiedo come cazzo abbiano fatto, nazioni “singole” a sopportare cose del genere da /sole/.

Non avevano una cazzo di spalla su cui piangere, nessuno con cui condividere quel dolore che si sente, moltiplicato per quanti sono gli abitanti, le vittime, per ogni catastrofe.

Non avrei saputo sopportarlo, non ancora. Perché ricordiamo ancora come sono stati gli anni in cui eravamo divisi, vero?

Ricordi ancora il dolore, il senso di vuoto, dell’essere completo ma senza una parte.

Si sta da schifo.

Ho odiato piangere sapendoti star male, a chilometri da me, senza poter fare nulla.

Non voglio succeda di nuovo.

Non voglio averti di nuovo lontano.

Ed è, questa lettera, in realtà, un modo carino e delicato per trascinare le tua chiappe su un qualsiasi treno. E venire qui a Roma.

Ora.

Subito.

Perché so che t’è scappata una risata arrivato qui alla fine. E asciugati quella mezza lacrima che hai negli occhi o costringi me a venire su e prenderti a sberle finché non smetti di farlo.

Sentilo bene quello che sto per dirti, spanna gli occhi e leggi sta cosa, che non penso la ripeterò mai più.

Ti voglio bene, stupido, chiassoso, fratello.

Perché ho aspettato questo momento per centocinquanta anni, quasi. Ed ora pretendo di festeggiare /insieme/.

Di buttare a gambe per aria politici e robe simili, di essere semplicemente fratelli, anche solo per un giorno.

Non accetto un “no” come riposta.

Ma che parlo a fare, eh?

Tu sei già sul treno, conoscendoti…

Vedi di non arrivare in piena notte, scemo, che sto dormendo!

Tuo fratello, Romano.

  
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