Time for freedom
Cap.
1
Tortuga
L'aria
afosa e calda del giorno incombeva ancora per gli stretti ed
affollati cunicoli, senza accennare ad abbandonare le strade e le
piccole piazze, penetrando umida e a fatica nei polmoni che invano
avevano sperato in una frescura serale.
La presenza di quelle
decine e decine di corpi caldi, ammassati ai tavoli della locanda e
madidi di sudore, non facevano altro che peggiorare la cappa
irrespirabile ed anche le fiamme tremolanti delle candele sembravano
guizzare a fatica, lambendo avide l'aria satura dei pungenti miasmi
dell'alcool, del tabacco e della pelle sudata.
I miei occhi scuri
saettarono distrattamente, soffermandosi sul caos di gente
brulicante, di uomini a cui il troppo bere aveva fatto perdere la
concezione di sé ed urlavano a tutti i presenti i loro
discorsi mentre altri ridevano sguaiatamente, mostrando le ugole
lucide e i denti marci, o altri ancora si dilettavano nell'arte di
ruvidi amanti, facendo cantare con urla assai poco pudiche certe mie
“colleghe” - neanche si trattasse del teatro d'opera -
cacciando i volti barbuti e segnati dagli scontri nelle scollature
succinte ed invitanti delle donne, sollevandogli avidi le gonne.
Per
deliziare ulteriormente quel branco di clienti dalla fama assai poco
rassicurante, Chad, il proprietario della taverna, aveva ben pensato
di riesumare tra i ranghi di canaglie e disgraziati che affollavano
le strade della città, un paio di violinisti -abbastanza
improvvisati a giudicare dalle stonature stridenti che di tanto in
tanto sfuggivano dalle loro corde- ed un terzo uomo, adibito
occasionalmente alla chitarra o alla fisarmonica.
Il baccano
infernale che ne risultava avrebbe messo in soggezione chiunque non
vi fosse abituato e fatto sfoderare parecchie manette tintinnanti se
qualche pomposo ufficiale della marina vi avesse messo piede.
Il
caos che regnava sovrano nell'ampia sala non era molto diverso da
quello che vigeva lungo i vicoli tortuosi della cittadina: ad ogni
angolo si potevano trovare uomini e donne in vena di peccaminose
follie tra fiumi di rum e vino, o gruppi di canaglie intenti a
giocare d'azzardo o a sfogare le mani in risse furiose, riempiendo
l'aria di urla e spari. Ma, dopotutto, non ci si poteva aspettare
nulla di diverso dalla città patria, tana e madre di ogni
farabutto che si definisse pirata: Tortuga.
Qui vigeva l'anarchia
assoluta ed il solo nome era capace di illuminare gli occhi di
qualsiasi gentiluomo di fortuna, che vedeva quel luogo come
una promessa di dolce perdizione nella quale abbandonarsi
completamente, godendo del suo abbraccio sicuro, libero di consumare
ogni vizio e desiderio nel budello di vie costellate di taverne e
bordelli, rifocillando le membra dai lunghi mesi di mare.
Tortuga
era la culla dove ogni sorta di follia e piacere trovavano libero
sfogo, dove ogni pirata poteva trovare la risposta o l'inizio dei
suoi problemi, il principio o la fine della sua carriera. Quel covo
di canaglie era una contraddizione unica, dove qualsiasi persona
poteva cadere vittima dei suoi abissi seducenti trovandovi la vita, o
finire finire steso nel fango con una pallottola piantata in mezzo
agli occhi con la stessa facilità. Tortuga era una dama dolce
e crudele al tempo steso, capace di affascinare e stregare gli
avventori di passaggio, catturandoli con il suo razionale caos. Ma se
ai viaggiatori poteva apparire come un illegale paradiso, solo gli
abitanti che trascorrevano ogni giorno a contatto con questa realtà
conoscevano il vero volto di Tortuga...ed io ero una di
queste.
Spesso mi chiedevo come mio padre, pur stando spesso fuori
per portare in giro le sue merci, fosse riuscito a tenermi al sicuro,
lontana dalle grinfie notturne della città...
-
FARLOW!! - l'urlo di Chad mi strappò bruscamente dai miei
pensieri, perforandomi quasi i timpani: con la stazza che si
ritrovava possedeva un diaframma davvero notevole, tanto da poter
sovrastare senza troppi problemi il baccano che regnava sovrano nella
sala.
Non mi voltai nemmeno verso l'omaccione panciuto dal viso
tondeggiante che teneva stratta tra i denti storti e gialli una
bisunta pipa fumante; potevo sentire i suoi piccoli occhietti fissi
su di me, lucidi ed iniettati di sangue, furiosi come sempre.
-
Cosa ti urli, Chad? Nonostante il caos qui dentro, non sono ancora
diventata sorda. - replicai svogliatamente, continuando a passare lo
straccio sul legno lucido e levigato del bancone, pulendo le chiazze
di liquidi alcolici e non sparse su di esso.
- Non fare la solita
impertinente con me, Loren! - guaì irritato quello mentre il
flaccido doppio mento dondolava frenetico sotto la foga di quelle
parole - Vedi piuttosto di lavorare come si deve... Anzi, come dico
io, dato che sono il tuo capo e a te serve questo maledetto lavoro! -
soggiunse staccandosi la pipa dai denti, stringendola nella grassa
mano mentre gesticolava, disegnando così forme diafane e
tremolanti con il fumo che questa ancora emanava, puntandomela poi
contro come per indicarmi con fare accusatore.
Chiusi un secondo
gli occhi, sospirando profondamente, seccata dall'ennesima scenata
che stava per esibire quel maiale burbero.
- Chad, per l'ultima
volta: non ho intenzione di prostituirmi! E né lo farò
mai - declamai quasi svogliata, non perché non fossi
fermamente convinta dei miei ideali, ma piuttosto perché avevo
ripetuto tante di quelle volte quella stessa identica frase, che
oramai avevo smesso di tenere il conto, rinunciando a mettervi la
solita convinzione: tanto non serviva a nulla.
Non lo aveva ancora
degnato di uno sguardo, ma immaginavo bene come in quel momento gli
stesse ridicolamente tremando il grasso mento, come sempre quando si
arrabbiava sul serio. Mi afferrò violentemente il braccio con
la sua mano unta e paffuta, voltandomi a forza verso di lui.
Arricciai disgustata il naso quando il fetore del suo alito e della
sua barba sudicia mi investirono il volto.
- Tu non hai alcuna
volontà qui dentro, chiaro?! - mi sbraitò in faccia,
sputacchiando nella foga della rabbia - E se io voglio che tu sia una
puttana, tu lo sei e basta, senza fiatare!!
Assottigliai lo
sguardo un istante prima di mollargli fulminea un tale schiaffo da
allontanarlo da me, voltandogli la faccia con uno schiocco sordo: nei
cinque anni passati in quell'infernale locanda avevo avuto tutto il
tempo e le occasioni per diventare decisamente forte, specialmente
sotto l'aspetto fisico, e parecchi uomini che avevano tentato di
prendermi con la forza erano stati costretti a battere in ritirata
con la coda tra le game, stringendosi doloranti i gioielli di
famiglia, con le labbra sanguinanti o chiazze rosse che pulsavano
dolorose dove li avevano raggiunti i miei ceffoni.
- Piantala una
buona volta con queste follie!! - sbottai decisamente seccata,
fissandolo con disprezzo - Sono cinque anni che ogni santo giorno mi
fai questa predica senza ottenere nulla! Quando ti deciderai a
rinunciare e metterti l'anima in pace?! - commentai retorica con un
sospiro rassegnato mentre l'uomo si premeva la mano grassoccia contro
la guancia dolorante, imprecando a denti stretti.
- Torna a
lavorare, cagna! - ringhiò lui, ignorando come sempre le mie
parole, cacciandosi la pipa tra i denti e sparendo nel retrobottega,
continuando ad inveire irritato.
Scossi il capo mentre tornavo a
dedicarmi alla pulizia del bancone, rassegnata. Gli avventori che
affollavano la locanda non avevano fatto caso a quello scambio di
battute, solo alcuni, nuovi di queste parti e abbastanza sobri per
notarci, avevano allungato incuriositi il collo per osservare la
scena. Oramai le urla assillanti dell'oste contro di me erano
diventate una routine quotidiana tanto quanto le mie risposte non
meno sentite, e tutti, a Tortuga, conoscevano il mio nome. La mia
fama di donna bellissima ma intoccabile mi aveva procurato tanti
favori quante seccature dato che, se da una parte quei lupi affamati
avevano rinunciato al desiderio di far loro una delle donne più
belle che avessero mai visto -così, almeno, mi ero sentita
sempre definire da quei disgraziati- , dall'altra molte teste calde
osavano sfacciatamente tentare là dove tutti gli altri avevano
fallito, sperando di essere i primi “eroi” a conquistare
l'ambita preda. La maggior parte di loro imparava la lezione a suon
di calci e pugni, fortunatamente...
Penso fosse il sogno di ogni
donna quello di essere assai bella e spesso le mie “colleghe”
mi dicevano che la mia estrema beltà fosse una benedizione e
che fossi una stupida a non sfruttarla. Si sbagliavano, tutte quante.
Per me la bellezza è sempre stata la mia più grande
maledizione. A causa sua ero costretta ogni giorno a lottare con le
unghie e con i denti per preservare il mio corpo dal desiderio
perverso e profanatorio di ogni uomo che posava gli occhi su di me...
non era affatto bello come si credeva essere costantemente carezzate
da occhi famelici che ti spogliavano avidi con lo sguardo, senza
desiderare altro che le tue curve e la tua virtù, finendo per
considerarti come un succulento pasto: un lauto premio carnale da
sfruttare, goderne e poi gettare via una volta soddisfatto il
desiderio, pavoneggiandosi con gli altri poveri sventurati che non
avevano avuto la loro stessa fortuna.
Nonostante fossi nata e
cresciuta a Tortuga e fin da piccola abbia dovuto fare i conti con le
sue realtà, sono sempre stata una ragazza che credeva nel vero
amore. Chiamatemi sciocca, chiamatemi illusa, come tutti mi hanno
sempre definita: eppure non smisi mai, nemmeno per un secondo, di
crederci... ed era proprio per questo motivo che ogni giorno lottavo
contro i desideri esclusivamente carnali di quelle canaglie, trovando
la forza per tenergli testa nelle parole che mio padre mi ripeteva
sempre quando ero bambina e che mi portavo sempre nel cuore: “Sii
come il mare, bambina mia, che ogni volta che si infrange sugli
scogli, trova sempre la forza di riprovarci”, e io seguivo
fedelmente quel dolce augurio.
Mai mi rendevo conto di quanto la
mia bellezza fosse una condanna, più di quando mi ritrovavo ad
affrontare uomini così testardi da non arrendersi al primo
rifiuto, ma continuare imperterriti a provarci più e più
volte... e mai uomo, o meglio, ragazzo in questo caso, fu più
insistente ed esasperante di Hector Barbossa.
Aveva solo un anno
più di me ed era approdato per la prima volta a Tortuga
sedicenne, tre anni fa. La sua prima visita si prolungò per
un'intera settimana nella quale si era stabilito giornalmente alla
locanda, passando gran parte del tempo ad ubriacarsi e conquistandosi
in pochi giorni la fama di amante capace e assai focoso tra le mie
colleghe. Già dal primo giorno in cui aveva messo piede alla
Sposa Devota mi aveva puntata, mettendosi in testa che la
donna più bella di tutta Tortuga -sì: anche così
mi ero sentita descrivere alle volte, purtroppo- dovesse essere sua.
Aveva cominciato a lusingarmi con le solite smancerie, provando
inizialmente a prendermi con le buone, ma, dati i miei costanti e
freddi rifiuti, aveva cominciato ad usare anche le maniere forti,
specialmente nelle giornate in cui, anche negli anni a seguire, era
più ardito e determinato delle altre volte. Ne usciva sempre
con qualche forte schiaffo sulla guancia, stringendosi il cavallo dei
pantaloni, dolorante, anche se raramente l'avevo sentito lasciarsi
sfuggire un gemito di dolore alle mie botte, limitandosi ad abbozzare
in silenzio.
Ogni volta che all'inizio di quei tre anni si
presentava alla locanda e avanzava spedito verso di me, quasi
stentavo a credere che potesse esistere un ragazzo così
incredibilmente testardo. Col passare del tempo, però,
cominciai a rassegnarmi alla sua costante insistenza, senza
sorprendermi più quando si sedeva al bancone con il suo solito
ghigno sfacciato e lo sguardo impertinente.
E così fu anche
quella sera: si presentò con il consueto portamento fiero ed
un ghigno a metà tra il trionfante e il malizioso, già
pregustandosi la serata all'insegna di rum e donne che si
prospettava. Portava la solita bandana verde a cingergli i capelli
semi lunghi e mossi che gli lambivano le spalle, lisciandosi
distrattamente i baffi chiari con un dito mentre i suoi occhi azzurri
e penetranti scrutavano l'ampia sala. Notai che il pizzetto che
solitamente portava era stato lasciato un po' crescere in un accenno
di barbetta che gli ricopriva riccioluta il mento. Aveva anche un
cappello nuovo: ampio, di feltro blu scuro con un paio di piume di
fagiano leggermente spelacchiate ad adornargli il copricapo... di
certo l'aveva rubato a qualcuno, dato lo stato palesemente già
usato del cappello. Aveva anche rimediato un gilet di velluto rosso
ed una fusciacca di un giallo acceso che gli cingeva i fianchi,
assicurata ulteriormente dal solito cinturone di cuoio nero al quale
teneva fissate la fedele spada e la lunga pistola.
Nonostante il
suo carattere testardo e decisamente aitante da bravo diciannovenne,
si poteva notare una certa raffinatezza nel suo abbigliamento...
peccato che questo gusto raffinato non si riscontrasse anche nel suo
modo di fare.
Come al solito sentii i suoi occhi fissarsi su di
me e mi sfuggì un sospiro decisamente seccato: fui tentata di
sgattaiolare via prima che le sue grinfie mi raggiungessero, ma
desistetti dato che ero l'unica in quel turno a servire al bancone e
non avevo voglia di disertare e ricevere le solite botte dall'oste
quella sera.
Pur di farmi trovare impegnata, presi un boccale a
caso dalla mensola, prendendo a pulirlo come se nulla fosse,
osservandolo di sottecchi, irritata dalla consapevolezza di quanto mi
attendeva di lì a poco.
Il ragazzo ci mise un po' a
raggiungermi, perdendo tempo a salutare doviziosamente ciascuna delle
mie colleghe che l'avevano accerchiato, attendendo con squittii
impazienti ed occhiate invitanti che le labbra del pirata si
posassero sulle loro in un bacio decisamente troppo passionale per
trattarsi di un semplice saluto.
Le prime volte avevo sperato che
quei baci distrassero a tal punto Hector, da farlo dimenticare di me,
lasciandosi trascinare su qualche sedia a tirar su la gonna a
qualcuna delle spasimanti presenti. Ma neanche una volta era
capitato...purtroppo. Il ragazzo era uno di quei tipi che sanno bene
chi e cosa vogliono e hanno una determinazione, o testardaggine in
questo caso, tale da mettere in secondo piano tutto il resto. Ed io
avevo avuto la sfortuna di diventare la preda più ambita di
Hector.
- Buonasera Loren, mia cara. - mi salutò
mellifluo, sottolineando marcato quel “mia”
mentre, finalmente libero dalle grinfie delle altre donne, si era
lasciato cadere seduto stravaccato sullo sgabello, chinandosi verso
il bancone... era incredibile il suo senso di possesso nei confronti
di cose e persone!
- Sempre in forma, vedo! - continuò poi
al mio ostinato silenzio, sogghignando con fare divertito - Stai
tenendo allenata la mano per clienti più fortunati del
sottoscritto, eh! - commentò poi con un ghigno malizioso,
alludendo al mio lavoro di ripulitura del boccale mentre schioccava
le labbra con falso dispiacere.
- L'hai assaggiata parecchie
volte anche tu, la mia mano, proprio sulla tua faccia! - replicai
asciutta, degnandolo d'uno sguardo solo in quel momento, arricciando
ironica le labbra mentre agitavo sarcastica la mano incriminata.
Lui
l'afferrò fulmineo, approfittandone per tirarmi a sé,
ad un nulla dal suo volto mentre ghignava maggiormente.
- Mi
piacerebbe molto provare suddetta mano su altre parti, nei miei
pantaloni... - mi sussurrò sfacciatamente sulle labbra,
investendomi il viso con il suo fiato caldo che già sapeva di
rum.
Arricciai irritata il naso mentre appoggiavo il boccale sul
bancone, liberando l'altra mano per potergli dare lesta un bel
ceffone. Ma il ragazzo fu altrettanto veloce, bloccandomi anche
quella. Mi ritrovai così con entrambi i polsi ben stretti da
Hector che ora mi guardava con un ghigno vittorioso, sebbene
continuasse a mantenere uno sguardo decisamente languido.
-
Permalosa come sempre, eh, bimba? - domandò poi canzonatorio
sulle mie labbra, soddisfatto di quella situazione e facendomi
arricciare disgustata il naso.
Digrignai appena i denti, piccata
per essere stata braccata... oh! Ma non se la sarebbe di certo cavata
con così poco! Gli diedi veloce una forte testata contro la
fronte, cogliendolo di sorpresa quanto bastava per fargli mollare la
presa sui miei polsi, liberandomi le mani ed indietreggiando svelta,
lontana dalla sua portata prima che potesse riacciuffarmi.
- E
tu sfacciato come sempre, eh, Heckie? - replicai seccata, ignorando
il dolore pulsante alla testa nel punto che avevo usato per colpirlo:
era un sacrificio che facevo volentieri pur di sfuggirgli.
Lui
abbassò la mano che si era tenuto premuta sulla fronte
dolorante, sfoderando il sorriso più strafottente che
conosceva, come a confermare la mia domanda retorica.
- Ammettilo
che mi adori proprio per questo: la mia sfacciataggine ti conquista.
- insinuò mellifluo lui, scavalcando agilmente il bancone con
un balzo, rischiando seriamente di urtare il boccale che avevo
poggiato lì sopra.
Non feci nemmeno in tempo a sgattaiolare
verso la porta del retrobottega, pronta a disertare il mio turno,
rinunciando ai buoni propositi fatti prima e preferendo le botte
dell'oste alle mani impertinenti del ragazzo, che questo mi aveva già
raggiunto a grandi falcate. Mi spinse con tutto il suo corpo contro
il muro, serrando nuovamente fulmineo le mani sui miei polsi,
bloccandomi.
- Vai all'inferno, Hector... - ringhiai esasperata,
divincolandomi sotto la sua stretta; mi teneva però
schiacciata contro la parete con tutta la sua persona e anche
muovermi sotto di lui mi risultava assai difficile.
Ghignò
apparentemente divertito dalla mia uscita. Mi alzò le braccia
sopra la testa, in modo da potermi stringere entrambi i polsi con una
sola mano mente l'altra mi afferrava il volto, costringendomi a
guardarlo dritto negli occhi color del mare. Si chinò sul mio
viso ed il suo respiro mi accarezzò le labbra, facendomi
arricciare il naso.
- Ma è proprio da lì che vengo,
Loren... - esalò seducente al mio orecchio, strusciando con
fare provocante il corpo contro il mio, premendomi quasi
dolorosamente sulla parete alle mie spalle.
- ...Vedi di
tornarci, allora! - sibilai a denti stretti, per nulla impressionata
dalle sue parole, scoccandogli un'occhiata furiosa prima di alzare
fulminea un ginocchio, picchiandolo senza pietà tra le gambe
di Hector, strappandogli una smorfia di dolore.
Non appena il
ragazzo staccò le mani dai miei polsi, mi affrettai a
schizzare via, nel retrobottega, sperando che per quella sera ne
avesse avuto abbastanza.
Mi credevo oramai fuori pericolo, al
sicuro nella cucina affollata di cuochi e garzoni, quando la porta
alle mie spalle si aprì con un tonfo sordo, segno che era
stata spalancata con un calcio, mostrando un Hector ghignante e per
nulla vinto dai colpi subiti. Sgranai gli occhi, sorpresa da tanta
tenacia: fino ad allora non aveva mai osato seguirmi nel
retrobottega, limitandosi ad attendermi fuori, pronto a tornare alla
carica non appena avesi rimesso piede nella sala.
Quella sera
doveva essere più esaltato del solito, a quanto pareva.
-
E' inutile che tenti di continuare a fuggire, Loren! - esclamò
lui sotto lo sguardo attonito ed incuriosito dei vari inservienti -
Perché non ti arrendi al fascino della piacevole perdizione e
non lasci che il più abile tra gli amanti ti illustri ed
insegni i peccaminosi piaceri del campo? - domandò avanzando
imperterrito verso di me, con fare ammaliante mentre gli occhi si
posavano famelici sulla scollatura del mio vestito.
- E questo
“più abile tra gli amanti” saresti tu? - domandai
ironica, indietreggiando di qualche passo prima di schioccare seccata
le labbra, voltandomi a dargli le spalle e allontanandomi veloce,
facendomi agilmente strada tra le botti, le casse ed i sacchi che
ingombravano la cucina.
- Ovviamente, piccola! - esclamò
lui con un sorriso sardonico, gonfiando appena il petto come a darsi
delle arie mentre mi seguiva lesto, saltando svelto gli ostacoli e
pestando pesantemente gli eleganti stivali in pelle nera, seguendomi
testardo.
- Io non ne sarei affatto sicura, se fossi in te. -
replicai fredda,cominciando davvero a perdere la pazienza nel notare
che Hector non demordeva, facendosi largo a spallate tra i garzoni
pur di non perdere terreno.
Affrettai il passo, ritrovandomi
quasi a correre verso la piccola porta di legno mezza sgangherata che
conduceva sul retro; ma prima che la mia mano potesse chiudersi sul
freddo e rassicurante metallo della maniglia, il ragazzo mi afferrò
lesto le spalle, voltandomi di scatto verso di lui e spingendomi con
la schiena contro il legno della porta che scricchiolò appena
sotto il mio corpo.
- Puoi sempre constatare tu stessa sul piano
pratico...- m'invitò in un sussurro sulle mie labbra,
invitante, ritrovandomelo per l'ennesima volta ad un nulla dal mio
volto... tanto vicino da poter sentire i riccioli della sua barbetta
solleticarmi il mento.
- No, grazie, preferisco tenermi le mie
idee senza controllare di persona. - replicai irritata, premendo
maggiormente il capo contro la porta dietro di me nel tentativo di
allontanarmi da lui.
Prima che avesse il tempo di commentare
ulteriormente, allungai fulminea la mano alla maniglia alle mie
spalle, spalancando di colpo la porta. Hector, che si teneva poggiato
con l'avambraccio contro di essa, improvvisamente sbilanciato,
capitombolò in avanti, finendo faccia a terra mentre io ero
sgusciata prontamente di lato in modo da sottrarmi alla traiettoria
di caduta del corpo del ragazzo.
- Vedi ora di tornartene dalle
tue spasimanti, prima che qualche altro “abile amante”
te le occupi! - gli suggerii ironica, osservandolo mentre si rialzava
imprecando tra i denti.
Feci per chiudergli la porta in faccia,
ma mi bloccai di colpo quando un suono simile ad un rauco rantolo mi
giunse alle orecchie.
-Che aspettino pure: io ho altro che bramo
da conquistare. - replicò lui osservandomi intensamente con
gli occhi che brillavano di un desiderio quasi ossessivo, dettato
dalla caparbia testardaggine di voler ottenere ciò che si era
convinto dovesse essere suo. A quanto pareva non aveva sentito quel
rantolo.
Mi sporsi di lato, aggrottando preoccupata le
sopracciglia: avevo cominciato a distinguere un respiro rauco,
raschiato, come qualcuno che stesse soffocando. Scattai svelta
avanti, ignorando completamente Hector e dirigendomi verso la pila di
casse, illuminata dalla fioca luce delle lampade ad olio appese al
muro scrostato del retro, dietro la quale sembrava provenire quel
lamento.
Il ragazzo mi seguì con lo sguardo, sorpreso e
forse quasi offeso dalla mia totale mancanza di attenzione alla sua
ultima uscita, tanto che tentò di fermarmi afferrandomi con
una mano che io però scacciai con un gesto sbrigativo.
-
Hector, fermo un attimo: mi pare ci sia qualcuno che si lamenta lì
dietro. - borbottai mentre mi avvicinavo cauta alle casse.
Una
volta arrivata a distanza di pochi passi, il mio sguardo fu catturato
da un bagliore rossastro sul suolo umido e sudicio. Mi fermai a
guardare meglio ed il mio cuore ebbe un sussulto: sulla terra fangosa
si allargava lentamente una chiazza vermiglia di sangue caldo,
facendo capolino da dietro le casse.
- Ai poveri diavoli che ti
corrono dietro non li degni nemmeno d'uno sguardo... ma a quelli
feriti ti precipiti subito a soccorrerli, eh? - commentò con
fare di scherno Hector alle mie spalle, per nulla toccato dalla
notizia, probabilmente fin troppo avvezzo a situazioni simili in
combattimento – Va a finire che dovrò squarciarmi il
ventre per poter ricevere un po' delle tue “cure amorevoli”.
- sogghignò poi mentre sentivo il tonfo ovattato delle suole
dei suoi stivali avvicinarsi dietro di me.
Non badai minimamente
alle sue parole, decidendomi finalmente ad aggirare le casse.
Sussultai vivamente quando vidi un corpo riverso a terra in un lago
di sangue: aveva due profonde ferite ai fianchi che avevano inzuppato
interamente la camicia e il gilet di cuoio del liquido vermiglio. Era
disteso supino sulla terra molle e quando mi vide arrivare fece
saettare il debole sguardo su di me, muovendo freneticamente le
labbra come se cercasse di dire qualcosa. Uno spettacolo simile non
era affatto raro a Tortuga e ne avevo visti conciati peggio, ma non
potevo evitare di provare compassione per quegli sventurati che, per
debiti, per ripicca o per sbaglio, si erano guadagnati una pallottola
o uno squarcio sul corpo.
Mi inginocchia accanto a lui, senza
curarmi del sangue che impregnò la stoffa della mia lunga
gonna e la mia mano quando andai a scostargli delicata il tessuto
della camicia per constatare l'entità dei danni mentre gli
sollevavo la testa sulle mie ginocchia.
Notai che, a giudicare
dai suoi capelli radi e dalla barba parecchio brizzolati e la rete di
rughe che gli correva lungo il volto, doveva aver passato da un po'
la cinquantina.
- ...Gawn...Da...ga...- lo sventurato era
riuscito ad articolare qualche suono comprensibile tra un rantolo e
l'altro, fissandomi con gli occhi vitrei spalancati in un'espressione
di ansia e dolore.
Sentii Hector schioccare le labbra con fare di
noncuranza allo stato del ferito.
- Non vi agitate, è
meglio se risparmiate il fiato per respirare... - gli suggerii io
osservando preoccupata le ferite; purtroppo non c'era molto da fare:
era stato colpito ad entrambi i fianchi, appena sotto la cassa
toracica con qualche lama decisamente lunga... probabilmente con
qualche misericordia.
L'uomo mi afferrò di scatto il
polso, sgranando maggiormente gli occhi, quasi spaventato di non
riuscire a dire quanto voleva.
- Da...Daga...Dagawn... - riuscì
ad esalare in un rauco sussurro, con le labbra tremanti per lo sforzo
– Doh...erty...Doherty...
Sentii Hector fermarsi di colpo
nella sua passeggiata alle mie spalle ed avvicinarsi frettolosamente,
accigliato.
- Cos'è che ha detto? - domandò in un
sussurro al mio orecchio: di colpo aveva perso ogni nota maliziosa
nella voce, facendosi improvvisamente interessato.
Mi voltai
appena a guardarlo, lanciandogli un'occhiata interrogativa a tutto
quell'interesse. Dischiusi le labbra, facendo per rispondergli, ma il
moribondo mi precedette, serrando maggiormente la presa già
debole sul mio polso.
- Doherty!...Boh...Bonaire!!- gemette in un
rantolo, con tanto slancio che sembrava trattarsi di una questione
vitale - ...Chapman. - con quest'ultimo nome spirò,
lasciandomi di colpo il braccio, rovesciando gli occhi al cielo
mentre la scintilla vitale lo abbandonava.
Osservai perplessa il
cadavere che giaceva con la testa ancora poggiata sulle mie
ginocchia. Due di quei nomi mi suonavano familiari, anche se il terzo
non l'avevo mai sentito prima d'ora. Hector, ancora chinato al mio
fianco, si era fatto terribilmente serio, osservando con sguardo
indecifrabile il corpo inerme steso a terra. Poi, senza aggiungere
una parola, si raddrizzò, allontanandosi a grandi falcate
verso la piccola porta del retro, sparendo nuovamente nelle cucine
diretto probabilmente alla sala principale.
Gli scoccai
un'occhiata furtiva: non ricordavo dove avevo già sentito quei
nomi, ma se Hector aveva reagito in quel modo, doveva trattarsi di
qualcosa di davvero importante.