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Autore: Callie_Stephanides    23/10/2011    3 recensioni
È un vento epico, quello che sfiora Sasuke e Itachi, nell’ora più buia della storia di un clan maledetto e potentissimo.
È un vento che sa di guerra e di vendetta, come di un amore indicibile che corre nel sangue e nel sangue muore.
Sakura racconta le ultime ore di Konoha e la privatissima, desolata guerra di un ragazzo che non l’ha mai vista davvero, perché dietro ai suoi occhi, no: lei non c’è mai stata.
[ATTENZIONE: what if post cap. 351 del manga]
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Akatsuki, Itachi, Un po' tutti | Coppie: Sasuke/Sakura, Shikamaru/Temari
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto Shippuuden
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Quel che uccide della fine è che non esiste.
Non ci sono punti fermi e neppure risposte univoche.
La realtà è una dialettica di contrasti, un jutsu illusorio, forse la peggiore delle menzogne.
La vita mi aveva dato una lezione preziosa: il mondo in cui credevo di vivere – di poterlo fare per sempre, soprattutto – poteva crollare da un momento all’altro.
L’avevo sperimentato sulla mia pelle per ben due volte ch’ero poco più di una bambina; per questo, forse, ero riuscita a conservare per me qualche illusione.
Non era una vera e propria stupidità, credo – Naruto mi ha insegnato che sono piuttosto i deboli e gli stupidi a non sognare nulla. I forti si stringono alle loro utopie e a bersagli ambiziosi – quanto un difetto di consapevolezza. Un’ingenuità scusabile, se vogliamo: un’ingenuità preziosa, che mi ha permesso di sopravvivere al dolore.
La prima occasione si ebbe proprio nello scontro contro Zabusa; davanti al corpo ferito ed esanime di Sasuke persi la testa, la nozione del tempo e persino quella della regola numero venticinque. Un mondo in cui il mio amore restava senza speranza non era che un universo inutile, capovolto e crudele.
La seconda fu quando Sasuke mi ringraziò per il mio affetto da niente, scegliendo quella dolce bugia in luogo di un netto rifiuto. Fu generoso e fu ipocrita: non avevo bisogno di sentirmi forte. L’unica via che cercavo era quella del cuore.
Anche in quella circostanza, il senso della perdita spezzò il mio mondo interiore, ma non si trasformò nell’onda devastante che mi sommerse quel giorno, quando la carogna di Juugo c’incatenò tutti al punto zero di una tragica parabola.
Shikamaru vomitava sangue, ma aveva trovato comunque la forza d’indicarci una direzione, suggerire uno scopo a quella nostra attesa triennale, ch’era, in fondo, una lunga preparazione all’epifania degli Uchiha. Tanto Sasuke che Itachi erano ormai due fuoriusciti. Razionalmente non v’era ragione perché ci ponessimo sulle loro tracce; emotivamente, però, erano entrambi il segno di un fallimento: erano i colori che Konoha aveva perduto e mai più ritrovato. Erano la peggiore ferita aperta nell’orgoglio della Foglia.
Fu per questo, suppongo, che la maestra Tsunade avanzò di un paio di passi, si chinò su Shikamaru e gli disse ch’era davvero un ottimo Jonin: non provasse neppure a rifiutare, dunque, la mole di lavoro che gli avrebbe affibbiato, perché quel giorno non ci sarebbero stati morti. Il suo orgoglio di donna e di Hokage non l’avrebbe permesso.
“Io non sono un Jonin,” provò a lamentare Nara, mentre si rialzava, ma la maestra Tsunade gli menò un colpetto in testa, come a dire che non si contestavano le ragionevoli promozioni sul campo.
“Non mi segui, Jiraiya?”
La voce del Quinto Hokage non era un invito e neppure un amichevole suggerimento; come sempre formulava il suo ordine con secca determinazione, lasciando intendere ch’eravamo tutti dispensati dalla missione. Eravamo stanchi, feriti in modo più o meno grave, ancora turbati: era tempo che il capo della Foglia proteggesse Konoha sola, senza la minima esitazione.

Al punto in cui ci aveva tradotti la storia, però, era evidente che fossimo un unico cuore.
“Maestra Tsunade… Ci sono anch’io!” dissi con voce chiara. Naruto mi fu subito dietro e con lui, poco a poco, l’intero villaggio. Anche se ci diede le spalle e liquidò la nostra iniziativa con un gesto quasi seccato, sono certa che l’Hokage sia stata fiera della nostra determinazione, perché in essa leggeva anche il segno delle speranze e dei sogni che i suoi più grandi affetti avevano coltivato sino all’ultimo respiro. Non solo i vivi, dunque, seguivano la canzone del vento tra le foglie di Konoha, ma anche i morti che non avremmo mai dimenticato.
Da un qualche punto lontano e pacifico del cielo, sono certa, anche il vecchio Sarutobi ci guardava con affetto. E con lui Asuma. E forse anche Haku, che aveva insegnato a me e a Naruto la forza spropositata e suicida di un amore senza condizioni.
C’eravamo tutti: chiusi nel nostro silenzio, nella nostra solitudine, nelle nostre paure e forse nell’inquieta attesa di quel che avremmo trovato.
Il maestro Kakashi, che lo scontro con Tobi aveva piagato molto più in profondità di quel che forse desiderava mostrare, spiava teso la linea di un orizzonte che ci pareva sempre più lontano, perché d’improvviso distante era anche la tragedia di cui volevamo essere testimoni.
Gai, che lo conosceva sin troppo bene, aveva senz’altro riconosciuto il lupo che covava dietro l’apparente vacuità di ogni suo atteggiamento. Come Rock-Lee mi disse, riportando le parole del suo amato maestro, il gruppo Sette era stato il primo vincolo che Kakashi aveva accettato di ricreare, dopo la tragedia che aveva distrutto la sua squadra. Per quanto non ne avesse mai fatta parola né con me, né con Naruto, in quei tre anni non aveva smesso un solo giorno di chiedersi perché non fosse riuscito a trattenere Sasuke. Perché, soprattutto, non fosse riuscito in quella missione che aveva visto sempre trionfare l’eccellenza di Sarutobi: il saper inoculare, cioè, la sicurezza di un affetto certo e stabile.
Non era colpa del nostro maestro, invece; ormai ero abbastanza adulta da sapere che non tutte le deviazioni sono imposte dal terreno: alcune sono spontanee, altre accidentali, altre ancora persino preordinate, perché l’anima di un uomo non è la corrente di un fiume – anche se può intorbidarsi con la stessa facilità.
Fu una marcia lenta, faticosa, irreale. I mercenari di Alba, rimasti ai margini della conquista fallita, ci braccarono e assaltarono ripetutamente. Non smettemmo di combattere finché anche l’ultimo di loro non fu sterminato, e a quel punto era già sorta l’alba dell’ultimo giorno.
La Valle della Fine pareva avvolta da una nebbia leggera. Da come era accelerata la respirazione di Naruto non ebbi neppure bisogno di cercare davvero Sasuke con lo sguardo, né di chiedermi cosa provasse Uzumaki.
Era tutto già scritto nella smorfia contratta e incredula con cui spiava nel riverbero accecante di quella bella giornata estiva le linee nervose ed eleganti di Sasuke. Si coglieva nell’ombra scura che velava i suoi occhi chiarissimi, dando loro qualcosa di feroce e addolorato al contempo.
Infine si esplicitò nell’urlo prolungato, accorato, intensissimo con cui scandì quel nome.
Sasuke. Sasuke. Sasuke.
Come tre anni prima, le sillabe rimbalzavano nella conca ora sorde ora acute, crescendo in intensità per poi stemperarsi nel silenzio. Uchiha, però, questa volta non sollevò neppure lo sguardo.
I suoi capelli si erano allungati e gli coprivano metà del viso.
La maestra Tsunade si portò le dita alle labbra e compresi dal suo gesto che aveva riconosciuto in quel sembiante i lineamenti di qualcuno che ricordava bene, e che si era egualmente perduto – Orochimaru. Ma lo spaventoso serpente bianco che aveva avvelenato il mio amore non possedeva l’aura di un Uchiha: un carisma tanto spettrale da far tremare persino Kyuubi.
I suoi occhi, che non avevo più avuto il coraggio di spiare, erano di un rosso rugginoso e denso, in cui le tre cuspidi dello Sharingan spiccavano più nette che mai. Un secolo prima, Naruto e io ci eravamo lasciati catturare dalla sua eccellenza perché era riuscito a svilupparne uno di primo livello. Ai tempi in cui aveva sfidato Uzumaki, il terzo era uno stadio eccezionale, legato più alla rabbia incontrollata di un momento che non alla sua preordinazione.
Quel giorno pensai invece che forse non avrei più rivisto due mandorle lucide d’ossidiana che pure non avevo mai smesso di sognare, perché i veri occhi di Sasuke erano quell’arma impressionante. Rossa e incrudelita da sentimenti deviati, come crudele pareva davvero tutto in lui.
Quando in luogo delle cuspidi apparve poi il terribile shuriken dello Sharingan ipnotico, smisi del tutto di respirare e cominciai a pregare perché non l’usasse. Mai.
Non ero spaventata per me, né per quel che poteva accadere a noi, semplici spettatori, ma temevo per la sua integrità.
Morale. Fisica. Mentale.
Era quasi già sapessi che se avesse assaggiato il miele di tutto quel potere imprevisto, straordinario com’era pure tutto straordinario in lui, non sarebbe più tornato indietro. Non sarebbe più stato uno del Gruppo Sette. Forse neppure Sasuke.
Naruto voleva scendere in campo ancora una volta; dividerli e forse persino morire, se fosse stato necessario. Voleva stringere contro il muro implacabile della verità un vecchio amico e gridargli che se avesse ucciso Itachi non si sarebbe sentito più libero, più felice, più uomo, ma avrebbe sofferto come se gli avessero strappato il cuore, perché Naruto conosceva Sasuke. Forse aveva persino inteso in profondità l’assolutezza con cui aveva sempre cullato l’indimenticabile affetto per un fratello-maestro.
Ma il Quinto Hokage glielo impedì. Le labbra della mia maestra tremavano leggermente, per quanto pure ferma suonasse la sua voce: ci eravamo dovuti spingere sino a quella conca per capire come il nostro posto non fosse lì. Non fosse da nessuna parte tra quelle pareti scoscese e quelle solitudini disperate: era un debito della memoria che nessun fideiussore o garante poteva onorare in luogo delle parti.
“E dovrei restare così… Senza fare niente?”
La rabbia azzannava il cuore di Uzumaki in ripetuti, famelici morsi. Lo sentivo stringere il mio braccio con la forza di una tenaglia, ma gliene ero grata. Era quasi riuscissi a sentire ancora più in profondità il dolore di quegli attimi attraverso il palpitare confuso e rapido del suo cuore: in caso contrario, l’apatia dell’orrore e dell’incredulità avrebbero ucciso ogni mio sentimento. Non sarei stata in grado di raccontare questa storia, né di viverla.

Itachi era ben lontano dalla nostra portata.
L’unico ad averlo incontrato era stato Naruto, ma Uzumaki era il primo ad avere il buongusto di non usare un termine fuorviante. Al più, cioè, aveva subito il più dotato e pericoloso degli Uchiha: quanto al resto, era stato solo un incubo da cui avrebbe voluto svegliarsi quanto prima.
Se avevano già cominciato a combattere, oppure procrastinato alla ricerca di inutili testimoni, non posso dire: nell’ambiente circostante, come nelle loro fisionomie, non v’era nulla che lasciasse ipotizzare si fossero già sfidati o colpiti.
Può anche darsi che abbiano preferito specchiarsi nei rispettivi ricordi, prima di decidere di cancellarli tutti. Di lasciar vincere il buio che li aveva già inghiottiti.
Il primo a prendere l’iniziativa – da che almeno ci eravamo aggiunti anche noi – fu Itachi, spogliandosi proprio dei paramenti dell’Akatsuki. Era un segno di rispetto nei confronti del fratello, ci suggerì Jiraiya, perché i membri di Alba usavano quei pesanti mantelli per celare le proprie strategie più segrete. Naruto, però, non era d’accordo e lo ringhiò a denti stretti. “Crede ancora di poterlo vincere come se non valesse niente, ma Sasuke è fortissimo. Questa volta non sarà lui a chinare il capo.”
Sorrise l’Eremita dei Rospi, con una smorfia triste e fiera al contempo. Sorrisi anch’io, intenerita, perché i sentimenti di Naruto non erano mai cambiati. Tutto il male che Sasuke gli aveva fatto veniva accantonato per lasciar vincere l’orgoglio di un amico che credeva in lui. Che credeva in quella rivincita impossibile e anzi pregava che ci fosse, perché solo allora Sasuke sarebbe stato libero. Solo allora sarebbe tornato ad appartenerci davvero.

Come il pesante mantello di Alba scivolò dalle spalle di Itachi, Sasuke assunse una posizione di guardia. Era quasi tra i due fratelli serpeggiasse una corrente invincibile di adrenalina, provocazione gratuita e attenzione rapace. Occhi rossi si cercavano oltre il nero di quei loro capelli tanto caratteristici, serici e seducenti. Prima che quella danza di morte si inaugurasse pensai più di una volta che Sasuke fosse davvero bellissimo. Poi lo scenario mutò e io inghiottii ogni entusiasmo.
Uchiha si levò in alto, con un salto atletico, bilanciato, felino. Itachi lo seguiva con lo sguardo e un’attenzione crescente. Mentre una pioggia di kunai e di shuriken si abbatteva contro il maggiore dei due fratelli, quest’ultimo si dissolveva nel nulla.
I loro movimenti erano tanto rapidi che solo il maestro Kakashi e i membri del clan Hyuga parevano in grado di registrarli almeno in parte. Quel che risultò da subito evidente era che non combattevano secondo il codice di Konoha, ma emulando la danza di morte e vita che gli Uchiha avevano sempre custodito come il loro più prezioso segreto.
Era un corpo a corpo spietato.
Di quando in quando, uno dei due combattenti veniva scagliato con forza contro le rocce del costone. Ogni volta chiudevo gli occhi, sperando che non fosse Sasuke. Naruto no, li teneva ben aperti e gli gridava di rialzarsi. Senz’altro la superiorità di Itachi non era più così scontata, né manifesta. Ce ne accorgemmo quando il confronto crebbe d’intensità e si arrivò al fuoco.
Credo che Sasuke abbia usato nel suo Katon Goukakyuu no Jutsu tutta la rabbia e la nostalgia accumulata negli anni oscuri della solitudine e della perdita, perché quello era l’unico colpo che suo padre gli avesse insegnato. Non so cosa abbia provato Itachi a riceverlo in pieno. Gaara disse che aveva stirato le labbra in un sorriso indecifrabile, prima di replicare con eguale forza. L’aria, ionizzata dallo scontro e percorsa da scariche di chakra sempre più potenti, era rovente e irrespirabile. Nel punto da cui s’irradiava quell’infernale carica distruttiva doveva essere letale.
Era un inferno in cui Sasuke pareva essere a proprio agio, però, con i suoi occhi rossi e l’espressione atona di chi non prova proprio niente: non pietà, non schifo. Forse neppure rimorso.
Era una rappresentazione orribile di quel che i ninja non avrebbero mai dovuto essere, eppure possedeva qualcosa di catartico, avvincente e ipnotico al contempo. In Naruto, senz’altro, l’istinto agonale si rinfocolava al solo ammirare una tale eccellenza. Nessuno dotato davvero di ambizione e capacità avrebbe saputo resistere a quella danza macabra.
Quando Sasuke invocò i serpenti, però, qualcosa si spezzò nella strana quiete che mi era scivolata addosso, erodendo la bambinesca e immotivata convinzione che quella fosse ancora la legittima guerra del buono e del giusto contro l’assassino.
Anche quella dei Mille Falchi era la tecnica di un cecchino e ora Sasuke maneggiava gli orribili rettili che un tempo obbedivano solo al Serpente più pericoloso di tutti.
Jiraiya impallidì, come pure la mia maestra: il gioco di specchi si delineava con evidenza e crudeltà crescenti, ponendo a nudo quanto di più vulnerabile c’era in noi, persino in chi aveva visto e vissuto abbastanza da raccontare storie tristissime. Nessuna, però, a quel punto, sembrava uguagliare lo sterminio degli Uchiha, giunto al suo ultimo colpo.
Immobilizzato, Itachi sollevò del tutto le palpebre, fissando Sasuke con un’intensità che non avrei mai compreso, se Naruto non avesse stretto ancora il mio braccio e sibilato: ‘Merda! Lo sta facendo ancora!’
Ma Sasuke non tentava di sottrarsi a quello sguardo – lo ricambiava piuttosto con pari intensità. E allora accadde qualcosa che il maestro Kakashi non riuscì a evitare, intimandoci con violenza di non fissare la nostra attenzione nella loro direzione, di non lasciarci incatenare dalla più tremenda delle illusioni. Non resistemmo, invece, e la luna rossa che aveva tormentato le notti di un bambino tradito fu ben presto anche la nostra.

Prima che riuscissimo a realizzarlo, nei fatti, precipitammo in quell’incubo tricromatico e bidimensionale che aveva quasi condotto alla follia Sasuke. Solo Rock-Lee e il maestro Gai, pronti a usare il taijutsu messo a punto da quest’ultimo, riuscirono a sottrarsi all’inganno. Fu anche per questo che, unici, seguitarono a guardare lo scontro per quello che era.
Noi no. Noi lo fissammo dal pozzo in cui un vecchio amico era caduto e annegato eoni prima.
Quanto male può sopportare un uomo, prima di arrendersi alla pazzia? Non lo so. L’unica certezza che possiedo è di aver sfiorato molto da presso quell’orrore e di non averlo mai dimenticato.
Annaspavo in un buio bituminoso, privo di reale spessore. L’unica fonte di luce era quella luna enorme, innaturale, rugginosa e ostile, su cui i crateri vuoti si aprivano come orbite cave. Non c’era nessuno accanto a me. Nessuno rispondeva ai miei richiami. Di Konoha non restavano che ombre e i cadaveri straziati dei miei affetti più cari.
Gridavo gridavo gridavo, priva, però, della speranza d’essere ascoltata: invece stavamo tutti vivendo gli incubi più atroci della nostra coscienza senza una sola possibilità d’uscirne sani.
Furono Gaara e Naruto a salvarci, traendoci oltre i margini del più tremendo jutsu illusorio che avessi mai visto. Uzumaki fu destato proprio da Kyuubi, che conosceva l’orrore di Madara e non se n’era lasciato vincere. Il Kazekage, invece, aveva vissuto una vita tanto spietata, desolata e triste d’aver già sofferto sulla propria pelle quel che una coscienza lesa tentava di riesumare. Non si lasciò sfiorare dal cadavere putrescente di Yashamaru, ma gli sorrise e lo soffiò via come la polvere di un vecchio rimpianto.
Mentre vomitavo fiotti di bava giallastra, succube ancora di quelle orrende visioni, i due fratelli Uchiha restavano immobili, l’uno innanzi all’altro, schiavi di una reciproca, sadica tortura. Era impossibile stabilire chi avrebbe vinto, perché se Itachi aveva dalla sua una ferocia inumana e una lunga esperienza, ora Sasuke godeva della sapienza di Orochimaru e del sigillo del Serpente.
Fu proprio quest’ultimo, all’improvviso, che cominciò a divorare il corpo di Uchiha; a farlo mutare come solo Naruto aveva visto, senza però raccontarlo a nessuno.
Ora so il perché: esiste uno schifo che nessun amico può tollerare. Né perdonare. Né niente. Quello era un punto di non ritorno.
Tra le fiamme di un fuoco che all’improvviso si tinse di nero – ennesima tecnica proibita di un clan nato dall’infernale ambizione di un demone – comparve una chimera alata e ripugnante. Dalle sue scapole sporgevano due arti enormi, grotteschi e palmati, che nessuno avrebbe potuto iscrivere nell’iconografia angelica. Lo spingevano in alto, sempre più in alto rispetto a quelle lingue bituminose e roventi, ma a me pareva il persistere di una rovinosa caduta.
Itachi non mostrò sorpresa per quella metamorfosi. La commentò con un po’ di disprezzo, nondimeno, perché l’intendeva come l’ennesimo segno dell’inferiorità del fratello.
Come Uchiha, cioè, non sarebbe riuscito a mandare a segno nessun colpo.
“Io non sono un Uchiha. Io sono un vendicatore.”
La voce di Sasuke, dopo anni – e malgrado quel suo aspetto da belva infernale – suonava finalmente umana. Non importava se colma di odio, rancore, disprezzo o rimpianto: filtravano sentimenti che sembrava aver soppresso del tutto.

Forse non tutto era davvero finito; forse, come diceva Naruto, era ancora possibile stendere la mano, afferrare stretta la sua e ricondurlo entro la metà giusta dello specchio.
Ma eravamo troppo lontani e il suo cuore non ascoltava la nostra voce.
Lo vedemmo sparire tra le fiamme nere, inghiottito dalla lava che vomitava lo stesso Itachi. Tutto il suo corpo era percorso dal chakra; fluide scariche correvano lungo le sue braccia, rendendolo riconoscibile e individuabile persino entro quella polla di odio puro.
“Vuol giocarsi tutto in un unico colpo,” osservò Sai.
Il maestro Kakashi rimase in silenzio. Sapeva che non ci sarebbe stata la possibilità di sferrarne un secondo, né il desiderio: era una via priva di pietà, come pure di speranza.
Quando le infernali fiamme nere si diradarono, Sasuke e Itachi erano stretti l’uno all’altro, in un abbraccio che nessuno avrebbe più potuto sciogliere, perché si erano trafitti l’un l’altro con un colpo senza ritorno. Come aveva profetizzato Uzumaki, in una simile tragedia non vi era spazio per un vincitore: solo per un’infelicità che avrebbe travolto tutti.
Rompemmo le fila. Chi ancora era in grado di muoversi, come me, discese il costone roccioso con una velocità da rimetterci il collo; anche Naruto parve ritrovare energie prima sopite, pur di raggiungere e stringere a sé il corpo di Uchiha.
Io mi sentivo tanto devastata da non riuscire neppure a piangere.
Ci volle tutta la dolcezza e l’invidiabile pazienza di Rock-Lee per costringermi a guardare la realtà per quella che era e non per ciò che avevo temuto fosse: erano entrambi ancora vivi.
In condizioni disperate, ma vivi.
Perché?
Perché forse dietro quegli occhi rossi c’era un amore che gridava più dell’odio, della morte e della vendetta. Sasuke non era un vendicatore. Sasuke era solo un fratellino inebriato dal potere di chi gli sorrideva, lo portava in spalla, gli accarezzava i capelli.
Anche se ero un ninja medico – un’allieva della grande Tsunade – la mia maestra non mi permise di occuparmi degli Uchiha.
Forse perché intuiva il mio coinvolgimento. Forse perché sapeva quanto basse fossero le speranze di vita di entrambi, e se avessi fallito – com’era toccato a lei – non me lo sarei mai perdonato.
Usai le mie energie e le mie conoscenze per Shikamaru, per il maestro Kakashi, per chiunque avesse avuto bisogno di me. Quel che occorreva alla sottoscritta, però, riposava oltre palpebre chiuse. Forse per sempre.
A dispetto dell’ingiunzione fin troppo severa che avevo ricevuto io, Naruto ebbe dal Quinto Hokage il permesso di restare accanto a Sasuke – non di regalargli un po’ del suo chakra maledetto, però, perché questo avrebbe spezzato un celebre sigillo proprio com’era nelle intenzioni di Itachi.
Ora che anche Sasuke possedeva uno Sharingan ipnotico, persino un gesto scontato, affettuoso e premuroso come quello di Uzumaki presentava corollari luttuosi.
Naruto chinò il capo e non disse nulla. Per giorni rimase silenzioso e composto accanto al letto di Sasuke. Di quando in quando gli stringeva una mano o gli sfiorava i capelli, come a lasciargli intendere che c’era. Era arrivato troppo tardi, forse, ma sarebbe rimasto al suo fianco.
Il corpo di Sasuke era stato devastato dal sigillo. La sua carne, ustionata dalle fiamme nere di Itachi e aggredita dal marchio di Orochimaru, si era coperta di immonde croste nere. Anche se nessuno me l’ha confessato in modo tanto brutale e diretto, so che la maestra Tsunade non voleva che lo vedessi sudare sangue, perché tutta la speranza che possedevo era ancorata a ricordi di un tempo che quella giornata aveva esaurito del tutto.
Avevo quindici anni. A quindici anni devi credere di poter sorridere ogni giorno, non piangere anche le lacrime che non possiedi.
Shikamaru si riprese che la pancia di Temari non si notava neppure, eppure la fissava con certi sguardi obliqui, imbarazzati e inteneriti al contempo, che non potevi fare a meno di sentirtene contagiato.
A Konoha si stava avvicinando l’inverno, ma tutto faceva sperare in una prossima rinascita.
Il giorno in cui Sasuke si svegliò cadeva una pioggerella fredda e deprimente. Non sembrava davvero una di quelle giornate in cui la vita, all’improvviso, ti sorprende con la sua bellezza, eppure accadde, quasi a ricordarmi l’infinita banalità del bene e del bello.

La maestra Tsunade, recatasi a fargli visita, non lo trovò nel suo letto. Nelle condizioni in cui si trovava era già improbabile che fosse riuscito ad alzarsi, ma che potesse camminare era fuori discussione.
Eppure lo fece, trascinandosi passo dopo passo lungo la parete, come aveva fatto anni prima, unico superstite di una strage. Era una marcia eguale e diversa, quella, perché all’incredulità si univa un infame rimorso.

Se Itachi fosse morto, cioè, sarebbe davvero rimasto l’ultimo degli Uchiha.
Fu Naruto a trovarlo e ad abbracciarlo, com’era già scritto nel loro destino – com’era giusto, perché solo un amico può vederti violare la regola numero venticinque fingendo di non vedere. Quanto a capire… Be’, sospetto che Uzumaki avesse compreso davvero prima di tutti. E più di tutti.
Itachi si svegliò qualche giorno più tardi. Non so cosa abbia provato nel trovarsi accanto il fratello che aveva torturato, umiliato, sconfitto senza riuscire tuttavia mai a farsi odiare davvero; so solo che lo salutò con un gesto che valeva più di mille parole. Lo chiamò a sé con un cenno neutro, che pure profumava di passato, e come Sasuke si piegò nella sua direzione, gli menò un colpettino contro la fronte. Piccolo piccolo, per com’era debole lui e sfregiato l’altro, ma c’era dentro una storia infinita. Una storia di cui non potevamo chiedere i dettagli, perché non ci apparteneva.
Quella era la storia di Sasuke. Tutto quel che potevo permettermi di fare era un passo indietro e chiudermi la porta alle spalle. Con discrezione.

Andai a trovarlo sola, come avevo fatto mille altre volte, ma l’atmosfera tra noi era del tutto mutata. Le parole mi ostruivano la gola, né riuscivo a guardarlo in faccia. Avevo mille domande da fare, ma le risposte non mi interessavano, perché l’unica essenziale era di nuovo davanti ai miei occhi.
“Considerando quello che ti ha fatto Orochimaru… E anche tuo fratello, non penso che saranno troppo severi, Sasuke. Il Quinto Hokage è una donna molto più generosa di quello che sembra.”
Riuscii a dirgli solo l’ultima cosa che mi sarebbe parsa opportuna, perché ricordargli un processo imminente non era davvero qualcosa che avrei detto di buongusto, né incoraggiante.

Sasuke spiegò un po’ le labbra. Era un sorriso molto diverso da quelli – rari – che avevo già visto. Era dolce. Era caldo. Era triste.
“Grazie.”
Mi disse solo questo, come quella notte.

Aveva già deciso. Da solo, come aveva sempre fatto.
Itachi fu condannato a una pena vitalizia, da scontare nelle prigioni di Konoha. I capi d’accusa erano tanto atroci che neppure furono letti per intero. Non abbassò mai lo sguardo, non tentò di difendersi. In un modo o nell’altro, davanti alla Foglia, spiccava ancora come un leader. Come un eroe. Come un vincitore.
La condanna di Sasuke, di massima legata alla sola diserzione, fu leggera, stando almeno ai dettami del villaggio. A Naruto e alla sottoscritta, per contro, quei due anni parvero una sublime ingiustizia.
Si erano forse dimenticati ch’era stato Sasuke a uccidere Orochimaru? Che Orochimaru era l’assassino di Sarutobi e un ricercato di grado S? Che in fondo era stato Sasuke ad assicurare Itachi alla giustizia?
Uchiha, però, a testa bassa, non contestò un solo capo. Sembrava piuttosto che fosse sollevato dalla fine di quella farsa pietosa, libero di tornare a una solitudine più riposante.
Prima che lo conducessero via, là dove altre catene l’avrebbero stretto – eppure, sono certa, non avrebbero pesato quanto quelle della vendetta – Naruto e io lo raggiungemmo.
Non sarebbe stato un addio, questo, ma un arrivederci, dunque bisognava salutarsi come buoni amici.
“Noi abbiamo sempre un conto in sospeso, ricordi?” gli disse Uzumaki, stringendo le palpebre per non lasciar trapelare la propria commozione. Sasuke annuì senza aggiungere nulla.
Era il mio turno, ma le parole, per l’ennesima volta, morivano strangolate da troppi sentimenti, sicché, facendo appello alla Sakura ch’ero diventata nei troppi giorni che ci avevano divisi, lo abbracciai stretto e, prima che potesse sottrarsi al mio affetto, lo baciai.
Fu un atto maldestro, appena un rapido sfiorarsi delle nostre labbra, eppure anche la cifra manifesta di una nuova promessa: non mi accontentavo di un ‘grazie’. Ero un’ingorda che pretendeva tutta la torta. Forse, soprattutto, l’amore infinito che celavano i suoi occhi d’ossidiana.
“Noi siamo qui e ti aspettiamo, Sasuke,” fu tutto quello che riuscii a strappare ai singhiozzi. Naruto mi prese la mano. La sua stretta era calda e consolante. “Sbrigati, però… O te la porto via.”
Sono passati otto mesi da quel giorno. L’estate è il sole abbacinante che ti cauterizza la retina e imbiondisce la pelle. È il profumo che sembra avvolgere ogni cosa, come una tiepida carezza. È la canzone che sussurrano le foglie di Konoha: una melodia dolce, come la nenia che culla il Re di Shikamaru o il lascito di Asuma.

Ogni giorno, dunque, corro fino alle porte del villaggio per chiedere al vento di portargli la mia voce. E lui, chissà… Forse, dietro ai suoi occhi, ora c’è anche il mio sorriso.

 

Nota finale: e ce l'abbiamo fatta! Grazie di cuore a chi, con pazienza e indulgenza, ha seguito questa storia, sebbene sia datata e, stilisticamente, bruttina. Grazie per avermi dedicato il vostro tempo e fatto compagnia. Non vi ho potuto ripagare con pagine all'altezza, ma spero che quanto avete sfogliato non vi sia parso solo tempo perso :-P
Per chi di voi non fosse ancora stanco di me, ho pubblicato ora un missing-moment di questa long-fiction, Oasi: Shikamaru e Temari alla vigilia dell'ultimo giorno.

   
 
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