Quel che uccide della fine è che non esiste.
Non ci sono punti fermi e neppure risposte univoche.
La realtà è una dialettica di contrasti, un jutsu illusorio,
forse la peggiore delle menzogne.
La vita mi aveva dato una lezione preziosa: il mondo in cui
credevo di vivere – di poterlo fare per sempre, soprattutto – poteva crollare da
un momento all’altro.
L’avevo sperimentato sulla mia pelle per ben due volte ch’ero
poco più di una bambina; per questo, forse, ero riuscita a conservare per me
qualche illusione.
Non era una vera e propria stupidità, credo – Naruto mi ha
insegnato che sono piuttosto i deboli e gli stupidi a non sognare nulla. I forti
si stringono alle loro utopie e a bersagli ambiziosi – quanto un difetto di
consapevolezza. Un’ingenuità scusabile, se vogliamo: un’ingenuità preziosa, che
mi ha permesso di sopravvivere al dolore.
La prima occasione si ebbe proprio nello scontro contro
Zabusa; davanti al corpo ferito ed esanime di Sasuke persi la testa, la nozione
del tempo e persino quella della regola numero venticinque. Un mondo in cui il
mio amore restava senza speranza non era che un universo inutile, capovolto e
crudele.
La seconda fu quando Sasuke mi ringraziò per il mio affetto
da niente, scegliendo quella dolce bugia in luogo di un netto rifiuto. Fu
generoso e fu ipocrita: non avevo bisogno di sentirmi forte. L’unica via che
cercavo era quella del cuore.
Anche in quella circostanza, il senso della perdita spezzò il
mio mondo interiore, ma non si trasformò nell’onda devastante che mi sommerse
quel giorno, quando la carogna di Juugo c’incatenò tutti al punto zero di una
tragica parabola.
Shikamaru vomitava sangue, ma aveva trovato comunque la forza
d’indicarci una direzione, suggerire uno scopo a quella nostra attesa triennale,
ch’era, in fondo, una lunga preparazione all’epifania degli Uchiha. Tanto Sasuke
che Itachi erano ormai due fuoriusciti. Razionalmente non v’era ragione perché
ci ponessimo sulle loro tracce; emotivamente, però, erano entrambi il segno di
un fallimento: erano i colori che Konoha aveva perduto e mai più ritrovato.
Erano la peggiore ferita aperta nell’orgoglio della Foglia.
Fu per questo, suppongo, che la maestra Tsunade avanzò di un
paio di passi, si chinò su Shikamaru e gli disse ch’era davvero un ottimo Jonin:
non provasse neppure a rifiutare, dunque, la mole di lavoro che gli avrebbe
affibbiato, perché quel giorno non ci sarebbero stati morti. Il suo orgoglio di
donna e di Hokage non l’avrebbe permesso.
“Io non sono un Jonin,” provò a lamentare Nara, mentre si
rialzava, ma la maestra Tsunade gli menò un colpetto in testa, come a dire che
non si contestavano le ragionevoli promozioni sul campo.
“Non mi segui, Jiraiya?”
La voce del Quinto Hokage non era un invito e neppure un
amichevole suggerimento; come sempre formulava il suo ordine con secca
determinazione, lasciando intendere ch’eravamo tutti dispensati dalla missione.
Eravamo stanchi, feriti in modo più o meno grave, ancora turbati: era tempo che
il capo della Foglia proteggesse Konoha sola, senza la minima esitazione.
Al punto in cui ci aveva tradotti la storia, però, era
evidente che fossimo un unico cuore.
“Maestra Tsunade… Ci sono anch’io!” dissi con voce chiara.
Naruto mi fu subito dietro e con lui, poco a poco, l’intero villaggio. Anche se
ci diede le spalle e liquidò la nostra iniziativa con un gesto quasi seccato,
sono certa che l’Hokage sia stata fiera della nostra determinazione, perché in
essa leggeva anche il segno delle speranze e dei sogni che i suoi più grandi
affetti avevano coltivato sino all’ultimo respiro. Non solo i vivi, dunque,
seguivano la canzone del vento tra le foglie di Konoha, ma anche i morti che non
avremmo mai dimenticato.
Da un qualche punto lontano e pacifico del cielo, sono certa,
anche il vecchio Sarutobi ci guardava con affetto. E con lui Asuma. E forse
anche Haku, che aveva insegnato a me e a Naruto la forza spropositata e suicida
di un amore senza condizioni.
C’eravamo tutti: chiusi nel nostro silenzio, nella nostra
solitudine, nelle nostre paure e forse nell’inquieta attesa di quel che avremmo
trovato.
Il maestro Kakashi, che lo scontro con Tobi aveva piagato
molto più in profondità di quel che forse desiderava mostrare, spiava teso la
linea di un orizzonte che ci pareva sempre più lontano, perché d’improvviso
distante era anche la tragedia di cui volevamo essere testimoni.
Gai, che lo conosceva sin troppo bene, aveva senz’altro
riconosciuto il lupo che covava dietro l’apparente vacuità di ogni suo
atteggiamento. Come Rock-Lee mi disse, riportando le parole del suo amato
maestro, il gruppo Sette era stato il primo vincolo che Kakashi aveva accettato
di ricreare, dopo la tragedia che aveva distrutto la sua squadra. Per quanto non
ne avesse mai fatta parola né con me, né con Naruto, in quei tre anni non aveva
smesso un solo giorno di chiedersi perché non fosse riuscito a trattenere
Sasuke. Perché, soprattutto, non fosse riuscito in quella missione che aveva
visto sempre trionfare l’eccellenza di Sarutobi: il saper inoculare, cioè, la
sicurezza di un affetto certo e stabile.
Non era colpa del nostro maestro, invece; ormai ero
abbastanza adulta da sapere che non tutte le deviazioni sono imposte dal
terreno: alcune sono spontanee, altre accidentali, altre ancora persino
preordinate, perché l’anima di un uomo non è la corrente di un fiume – anche se
può intorbidarsi con la stessa facilità.
Fu una marcia lenta, faticosa, irreale. I mercenari di Alba,
rimasti ai margini della conquista fallita, ci braccarono e assaltarono
ripetutamente. Non smettemmo di combattere finché anche l’ultimo di loro non fu
sterminato, e a quel punto era già sorta l’alba dell’ultimo giorno.
La Valle della Fine pareva avvolta da una nebbia leggera. Da
come era accelerata la respirazione di Naruto non ebbi neppure bisogno di
cercare davvero Sasuke con lo sguardo, né di chiedermi cosa provasse Uzumaki.
Era tutto già scritto nella smorfia contratta e incredula con
cui spiava nel riverbero accecante di quella bella giornata estiva le linee
nervose ed eleganti di Sasuke. Si coglieva nell’ombra scura che velava i suoi
occhi chiarissimi, dando loro qualcosa di feroce e addolorato al contempo.
Infine si esplicitò nell’urlo prolungato, accorato,
intensissimo con cui scandì quel nome.
Sasuke. Sasuke. Sasuke.
Come tre anni prima, le sillabe rimbalzavano nella conca ora
sorde ora acute, crescendo in intensità per poi stemperarsi nel silenzio.
Uchiha, però, questa volta non sollevò neppure lo sguardo.
I suoi capelli si erano allungati e gli coprivano metà del
viso.
La maestra Tsunade si portò le dita alle labbra e compresi
dal suo gesto che aveva riconosciuto in quel sembiante i lineamenti di qualcuno
che ricordava bene, e che si era egualmente perduto – Orochimaru. Ma lo
spaventoso serpente bianco che aveva avvelenato il mio amore non possedeva
l’aura di un Uchiha: un carisma tanto spettrale da far tremare persino Kyuubi.
I suoi occhi, che non avevo più avuto il coraggio di spiare,
erano di un rosso rugginoso e denso, in cui le tre cuspidi dello Sharingan
spiccavano più nette che mai. Un secolo prima, Naruto e io ci eravamo lasciati
catturare dalla sua eccellenza perché era riuscito a svilupparne uno di primo
livello. Ai tempi in cui aveva sfidato Uzumaki, il terzo era uno stadio
eccezionale, legato più alla rabbia incontrollata di un momento che non alla sua
preordinazione.
Quel giorno pensai invece che forse non avrei più rivisto due
mandorle lucide d’ossidiana che pure non avevo mai smesso di sognare, perché i
veri occhi di Sasuke erano quell’arma impressionante. Rossa e incrudelita da
sentimenti deviati, come crudele pareva davvero tutto in lui.
Quando in luogo delle cuspidi apparve poi il terribile
shuriken dello Sharingan ipnotico, smisi del tutto di respirare e cominciai a
pregare perché non l’usasse. Mai.
Non ero spaventata per me, né per quel che poteva accadere a
noi, semplici spettatori, ma temevo per la sua integrità.
Morale. Fisica. Mentale.
Era quasi già sapessi che se avesse assaggiato il miele di
tutto quel potere imprevisto, straordinario com’era pure tutto straordinario in
lui, non sarebbe più tornato indietro. Non sarebbe più stato uno del Gruppo
Sette. Forse neppure Sasuke.
Naruto voleva scendere in campo ancora una volta; dividerli e
forse persino morire, se fosse stato necessario. Voleva stringere contro il muro
implacabile della verità un vecchio amico e gridargli che se avesse ucciso
Itachi non si sarebbe sentito più libero, più felice, più uomo, ma avrebbe
sofferto come se gli avessero strappato il cuore, perché Naruto conosceva
Sasuke. Forse aveva persino inteso in profondità l’assolutezza con cui aveva
sempre cullato l’indimenticabile affetto per un fratello-maestro.
Ma il Quinto Hokage glielo impedì. Le labbra della mia
maestra tremavano leggermente, per quanto pure ferma suonasse la sua voce: ci
eravamo dovuti spingere sino a quella conca per capire come il nostro posto non
fosse lì. Non fosse da nessuna parte tra quelle pareti scoscese e quelle
solitudini disperate: era un debito della memoria che nessun fideiussore o
garante poteva onorare in luogo delle parti.
“E dovrei restare così… Senza fare niente?”
La rabbia azzannava il cuore di Uzumaki in ripetuti, famelici
morsi. Lo sentivo stringere il mio braccio con la forza di una tenaglia, ma
gliene ero grata. Era quasi riuscissi a sentire ancora più in profondità il
dolore di quegli attimi attraverso il palpitare confuso e rapido del suo cuore:
in caso contrario, l’apatia dell’orrore e dell’incredulità avrebbero ucciso ogni
mio sentimento. Non sarei stata in grado di raccontare questa storia, né di
viverla.
Itachi era ben lontano dalla nostra portata.
L’unico ad averlo incontrato era stato Naruto, ma Uzumaki era
il primo ad avere il buongusto di non usare un termine fuorviante. Al più, cioè,
aveva subito il più dotato e pericoloso degli Uchiha: quanto al resto, era stato
solo un incubo da cui avrebbe voluto svegliarsi quanto prima.
Se avevano già cominciato a combattere, oppure procrastinato
alla ricerca di inutili testimoni, non posso dire: nell’ambiente circostante,
come nelle loro fisionomie, non v’era nulla che lasciasse ipotizzare si fossero
già sfidati o colpiti.
Può anche darsi che abbiano preferito specchiarsi nei
rispettivi ricordi, prima di decidere di cancellarli tutti. Di lasciar vincere
il buio che li aveva già inghiottiti.
Il primo a prendere l’iniziativa – da che almeno ci eravamo
aggiunti anche noi – fu Itachi, spogliandosi proprio dei paramenti
dell’Akatsuki. Era un segno di rispetto nei confronti del fratello, ci suggerì
Jiraiya, perché i membri di Alba usavano quei pesanti mantelli per celare le
proprie strategie più segrete. Naruto, però, non era d’accordo e lo ringhiò a
denti stretti. “Crede ancora di poterlo vincere come se non valesse niente, ma
Sasuke è fortissimo. Questa volta non sarà lui a chinare il capo.”
Sorrise l’Eremita dei Rospi, con una smorfia triste e fiera
al contempo. Sorrisi anch’io, intenerita, perché i sentimenti di Naruto non
erano mai cambiati. Tutto il male che Sasuke gli aveva fatto veniva accantonato
per lasciar vincere l’orgoglio di un amico che credeva in lui. Che credeva in
quella rivincita impossibile e anzi pregava che ci fosse, perché solo allora
Sasuke sarebbe stato libero. Solo allora sarebbe tornato ad appartenerci
davvero.
Come il pesante mantello di Alba scivolò dalle spalle di
Itachi, Sasuke assunse una posizione di guardia. Era quasi tra i due fratelli
serpeggiasse una corrente invincibile di adrenalina, provocazione gratuita e
attenzione rapace. Occhi rossi si cercavano oltre il nero di quei loro capelli
tanto caratteristici, serici e seducenti. Prima che quella danza di morte si
inaugurasse pensai più di una volta che Sasuke fosse davvero bellissimo. Poi lo
scenario mutò e io inghiottii ogni entusiasmo.
Uchiha si levò in alto, con un salto atletico, bilanciato,
felino. Itachi lo seguiva con lo sguardo e un’attenzione crescente. Mentre una
pioggia di kunai e di shuriken si abbatteva contro il maggiore dei due fratelli,
quest’ultimo si dissolveva nel nulla.
I loro movimenti erano tanto rapidi che solo il maestro
Kakashi e i membri del clan Hyuga parevano in grado di registrarli almeno in
parte. Quel che risultò da subito evidente era che non combattevano secondo il
codice di Konoha, ma emulando la danza di morte e vita che gli Uchiha avevano
sempre custodito come il loro più prezioso segreto.
Era un corpo a corpo spietato.
Di quando in quando, uno dei due combattenti veniva scagliato
con forza contro le rocce del costone. Ogni volta chiudevo gli occhi, sperando
che non fosse Sasuke. Naruto no, li teneva ben aperti e gli gridava di
rialzarsi. Senz’altro la superiorità di Itachi non era più così scontata, né
manifesta. Ce ne accorgemmo quando il confronto crebbe d’intensità e si arrivò
al fuoco.
Credo che Sasuke abbia usato nel suo Katon Goukakyuu no Jutsu
tutta la rabbia e la nostalgia accumulata negli anni oscuri della solitudine e
della perdita, perché quello era l’unico colpo che suo padre gli avesse
insegnato. Non so cosa abbia provato Itachi a riceverlo in pieno. Gaara disse
che aveva stirato le labbra in un sorriso indecifrabile, prima di replicare con
eguale forza. L’aria, ionizzata dallo scontro e percorsa da scariche di chakra
sempre più potenti, era rovente e irrespirabile. Nel punto da cui s’irradiava
quell’infernale carica distruttiva doveva essere letale.
Era un inferno in cui Sasuke pareva essere a proprio agio,
però, con i suoi occhi rossi e l’espressione atona di chi non prova proprio
niente: non pietà, non schifo. Forse neppure rimorso.
Era una rappresentazione orribile di quel che i ninja non
avrebbero mai dovuto essere, eppure possedeva qualcosa di catartico, avvincente
e ipnotico al contempo. In Naruto, senz’altro, l’istinto agonale si rinfocolava
al solo ammirare una tale eccellenza. Nessuno dotato davvero di ambizione e
capacità avrebbe saputo resistere a quella danza macabra.
Quando Sasuke invocò i serpenti, però, qualcosa si spezzò
nella strana quiete che mi era scivolata addosso, erodendo la bambinesca e
immotivata convinzione che quella fosse ancora la legittima guerra del buono e
del giusto contro l’assassino.
Anche quella dei Mille Falchi era la tecnica di un cecchino e
ora Sasuke maneggiava gli orribili rettili che un tempo obbedivano solo al
Serpente più pericoloso di tutti.
Jiraiya impallidì, come pure la mia maestra: il gioco di
specchi si delineava con evidenza e crudeltà crescenti, ponendo a nudo quanto di
più vulnerabile c’era in noi, persino in chi aveva visto e vissuto abbastanza da
raccontare storie tristissime. Nessuna, però, a quel punto, sembrava uguagliare
lo sterminio degli Uchiha, giunto al suo ultimo colpo.
Immobilizzato, Itachi sollevò del tutto le palpebre, fissando
Sasuke con un’intensità che non avrei mai compreso, se Naruto non avesse stretto
ancora il mio braccio e sibilato: ‘Merda! Lo sta facendo ancora!’
Ma Sasuke non tentava di sottrarsi a quello sguardo – lo
ricambiava piuttosto con pari intensità. E allora accadde qualcosa che il
maestro Kakashi non riuscì a evitare, intimandoci con violenza di non fissare la
nostra attenzione nella loro direzione, di non lasciarci incatenare dalla più
tremenda delle illusioni. Non resistemmo, invece, e la luna rossa che aveva
tormentato le notti di un bambino tradito fu ben presto anche la nostra.
Prima che riuscissimo a realizzarlo, nei fatti, precipitammo
in quell’incubo tricromatico e bidimensionale che aveva quasi condotto alla
follia Sasuke. Solo Rock-Lee e il maestro Gai, pronti a usare il taijutsu messo
a punto da quest’ultimo, riuscirono a sottrarsi all’inganno. Fu anche per questo
che, unici, seguitarono a guardare lo scontro per quello che era.
Noi no. Noi lo fissammo dal pozzo in cui un vecchio amico era
caduto e annegato eoni prima.
Quanto male può sopportare un uomo, prima di arrendersi alla
pazzia? Non lo so. L’unica certezza che possiedo è di aver sfiorato molto da
presso quell’orrore e di non averlo mai dimenticato.
Annaspavo in un buio bituminoso, privo di reale spessore.
L’unica fonte di luce era quella luna enorme, innaturale, rugginosa e ostile, su
cui i crateri vuoti si aprivano come orbite cave. Non c’era nessuno accanto a
me. Nessuno rispondeva ai miei richiami. Di Konoha non restavano che ombre e i
cadaveri straziati dei miei affetti più cari.
Gridavo gridavo gridavo, priva, però, della speranza d’essere
ascoltata: invece stavamo tutti vivendo gli incubi più atroci della nostra
coscienza senza una sola possibilità d’uscirne sani.
Furono Gaara e Naruto a salvarci, traendoci oltre i margini
del più tremendo jutsu illusorio che avessi mai visto. Uzumaki fu destato
proprio da Kyuubi, che conosceva l’orrore di Madara e non se n’era lasciato
vincere. Il Kazekage, invece, aveva vissuto una vita tanto spietata, desolata e
triste d’aver già sofferto sulla propria pelle quel che una coscienza lesa
tentava di riesumare. Non si lasciò sfiorare dal cadavere putrescente di
Yashamaru, ma gli sorrise e lo soffiò via come la polvere di un vecchio
rimpianto.
Mentre vomitavo fiotti di bava giallastra, succube ancora di
quelle orrende visioni, i due fratelli Uchiha restavano immobili, l’uno innanzi
all’altro, schiavi di una reciproca, sadica tortura. Era impossibile stabilire
chi avrebbe vinto, perché se Itachi aveva dalla sua una ferocia inumana e una
lunga esperienza, ora Sasuke godeva della sapienza di Orochimaru e del sigillo
del Serpente.
Fu proprio quest’ultimo, all’improvviso, che cominciò a
divorare il corpo di Uchiha; a farlo mutare come solo Naruto aveva visto, senza
però raccontarlo a nessuno.
Ora so il perché: esiste uno schifo che nessun amico può
tollerare. Né perdonare. Né niente. Quello era un punto di non ritorno.
Tra le fiamme di un fuoco che all’improvviso si tinse di nero
– ennesima tecnica proibita di un clan nato dall’infernale ambizione di un
demone – comparve una chimera alata e ripugnante. Dalle sue scapole sporgevano
due arti enormi, grotteschi e palmati, che nessuno avrebbe potuto iscrivere
nell’iconografia angelica. Lo spingevano in alto, sempre più in alto rispetto a
quelle lingue bituminose e roventi, ma a me pareva il persistere di una rovinosa
caduta.
Itachi non mostrò sorpresa per quella metamorfosi. La
commentò con un po’ di disprezzo, nondimeno, perché l’intendeva come l’ennesimo
segno dell’inferiorità del fratello.
Come Uchiha, cioè, non sarebbe riuscito a mandare a segno
nessun colpo.
“Io non sono un Uchiha. Io sono un vendicatore.”
La voce di Sasuke, dopo anni – e malgrado quel suo aspetto da
belva infernale – suonava finalmente umana. Non importava se colma di odio,
rancore, disprezzo o rimpianto: filtravano sentimenti che sembrava aver
soppresso del tutto.
Forse non tutto era davvero finito; forse, come diceva
Naruto, era ancora possibile stendere la mano, afferrare stretta la sua e
ricondurlo entro la metà giusta dello specchio.
Ma eravamo troppo lontani e il suo cuore non ascoltava la
nostra voce.
Lo vedemmo sparire tra le fiamme nere, inghiottito dalla lava
che vomitava lo stesso Itachi. Tutto il suo corpo era percorso dal chakra;
fluide scariche correvano lungo le sue braccia, rendendolo riconoscibile e
individuabile persino entro quella polla di odio puro.
“Vuol giocarsi tutto in un unico colpo,” osservò Sai.
Il maestro Kakashi rimase in silenzio. Sapeva che non ci
sarebbe stata la possibilità di sferrarne un secondo, né il desiderio: era una
via priva di pietà, come pure di speranza.
Quando le infernali fiamme nere si diradarono, Sasuke e
Itachi erano stretti l’uno all’altro, in un abbraccio che nessuno avrebbe più
potuto sciogliere, perché si erano trafitti l’un l’altro con un colpo senza
ritorno. Come aveva profetizzato Uzumaki, in una simile tragedia non vi era
spazio per un vincitore: solo per un’infelicità che avrebbe travolto tutti.
Rompemmo le fila. Chi ancora era in grado di muoversi, come
me, discese il costone roccioso con una velocità da rimetterci il collo; anche
Naruto parve ritrovare energie prima sopite, pur di raggiungere e stringere a sé
il corpo di Uchiha.
Io mi sentivo tanto devastata da non riuscire neppure a
piangere.
Ci volle tutta la dolcezza e l’invidiabile pazienza di
Rock-Lee per costringermi a guardare la realtà per quella che era e non per ciò
che avevo temuto fosse: erano entrambi ancora vivi.
In condizioni disperate, ma vivi.
Perché?
Perché forse dietro quegli occhi rossi c’era un amore che
gridava più dell’odio, della morte e della vendetta. Sasuke non era un
vendicatore. Sasuke era solo un fratellino inebriato dal potere di chi gli
sorrideva, lo portava in spalla, gli accarezzava i capelli.
Anche se ero un ninja medico – un’allieva della grande
Tsunade – la mia maestra non mi permise di occuparmi degli Uchiha.
Forse perché intuiva il mio coinvolgimento. Forse perché
sapeva quanto basse fossero le speranze di vita di entrambi, e se avessi fallito
– com’era toccato a lei – non me lo sarei mai perdonato.
Usai le mie energie e le mie conoscenze per Shikamaru, per il
maestro Kakashi, per chiunque avesse avuto bisogno di me. Quel che occorreva
alla sottoscritta, però, riposava oltre palpebre chiuse. Forse per sempre.
A dispetto dell’ingiunzione fin troppo severa che avevo
ricevuto io, Naruto ebbe dal Quinto Hokage il permesso di restare accanto a
Sasuke – non di regalargli un po’ del suo chakra maledetto, però, perché questo
avrebbe spezzato un celebre sigillo proprio com’era nelle intenzioni di Itachi.
Ora che anche Sasuke possedeva uno Sharingan ipnotico,
persino un gesto scontato, affettuoso e premuroso come quello di Uzumaki
presentava corollari luttuosi.
Naruto chinò il capo e non disse nulla. Per giorni rimase
silenzioso e composto accanto al letto di Sasuke. Di quando in quando gli
stringeva una mano o gli sfiorava i capelli, come a lasciargli intendere che
c’era. Era arrivato troppo tardi, forse, ma sarebbe rimasto al suo fianco.
Il corpo di Sasuke era stato devastato dal sigillo. La sua
carne, ustionata dalle fiamme nere di Itachi e aggredita dal marchio di
Orochimaru, si era coperta di immonde croste nere. Anche se nessuno me l’ha
confessato in modo tanto brutale e diretto, so che la maestra Tsunade non voleva
che lo vedessi sudare sangue, perché tutta la speranza che possedevo era
ancorata a ricordi di un tempo che quella giornata aveva esaurito del tutto.
Avevo quindici anni. A quindici anni devi credere di poter
sorridere ogni giorno, non piangere anche le lacrime che non possiedi.
Shikamaru si riprese che la pancia di Temari non si notava
neppure, eppure la fissava con certi sguardi obliqui, imbarazzati e inteneriti
al contempo, che non potevi fare a meno di sentirtene contagiato.
A Konoha si stava avvicinando l’inverno, ma tutto faceva
sperare in una prossima rinascita.
Il giorno in cui Sasuke si svegliò cadeva una pioggerella
fredda e deprimente. Non sembrava davvero una di quelle giornate in cui la vita,
all’improvviso, ti sorprende con la sua bellezza, eppure accadde, quasi a
ricordarmi l’infinita banalità del bene e del bello.
La maestra Tsunade, recatasi a fargli visita, non lo trovò
nel suo letto. Nelle condizioni in cui si trovava era già improbabile che fosse
riuscito ad alzarsi, ma che potesse camminare era fuori discussione.
Eppure lo fece, trascinandosi passo dopo passo lungo la
parete, come aveva fatto anni prima, unico superstite di una strage. Era una
marcia eguale e diversa, quella, perché all’incredulità si univa un infame
rimorso.
Se Itachi fosse morto, cioè, sarebbe davvero rimasto l’ultimo
degli Uchiha.
Fu Naruto a trovarlo e ad abbracciarlo, com’era già scritto
nel loro destino – com’era giusto, perché solo un amico può vederti violare la
regola numero venticinque fingendo di non vedere. Quanto a capire… Be’, sospetto
che Uzumaki avesse compreso davvero prima di tutti. E più di tutti.
Itachi si svegliò qualche giorno più tardi. Non so cosa abbia
provato nel trovarsi accanto il fratello che aveva torturato, umiliato,
sconfitto senza riuscire tuttavia mai a farsi odiare davvero; so solo che lo
salutò con un gesto che valeva più di mille parole. Lo chiamò a sé con un cenno
neutro, che pure profumava di passato, e come Sasuke si piegò nella sua
direzione, gli menò un colpettino contro la fronte. Piccolo piccolo, per com’era
debole lui e sfregiato l’altro, ma c’era dentro una storia infinita. Una storia
di cui non potevamo chiedere i dettagli, perché non ci apparteneva.
Quella era la storia di Sasuke. Tutto quel che potevo
permettermi di fare era un passo indietro e chiudermi la porta alle spalle. Con
discrezione.
Andai a trovarlo sola, come avevo fatto mille altre volte, ma
l’atmosfera tra noi era del tutto mutata. Le parole mi ostruivano la gola, né
riuscivo a guardarlo in faccia. Avevo mille domande da fare, ma le risposte non
mi interessavano, perché l’unica essenziale era di nuovo davanti ai miei occhi.
“Considerando quello che ti ha fatto Orochimaru… E anche tuo
fratello, non penso che saranno troppo severi, Sasuke. Il Quinto Hokage è una
donna molto più generosa di quello che sembra.”
Riuscii a dirgli solo l’ultima cosa che mi sarebbe parsa
opportuna, perché ricordargli un processo imminente non era davvero qualcosa che
avrei detto di buongusto, né incoraggiante.
Sasuke spiegò un po’ le labbra. Era un sorriso molto diverso
da quelli – rari – che avevo già visto. Era dolce. Era caldo. Era triste.
“Grazie.”
Mi disse solo questo, come quella notte.
Aveva già deciso. Da solo, come aveva sempre fatto.
Itachi fu condannato a una pena vitalizia, da scontare nelle
prigioni di Konoha. I capi d’accusa erano tanto atroci che neppure furono letti
per intero. Non abbassò mai lo sguardo, non tentò di difendersi. In un modo o
nell’altro, davanti alla Foglia, spiccava ancora come un leader. Come un eroe.
Come un vincitore.
La condanna di Sasuke, di massima legata alla sola
diserzione, fu leggera, stando almeno ai dettami del villaggio. A Naruto e alla
sottoscritta, per contro, quei due anni parvero una sublime ingiustizia.
Si erano forse dimenticati ch’era stato Sasuke a uccidere
Orochimaru? Che Orochimaru era l’assassino di Sarutobi e un ricercato di grado
S? Che in fondo era stato Sasuke ad assicurare Itachi alla giustizia?
Uchiha, però, a testa bassa, non contestò un solo capo.
Sembrava piuttosto che fosse sollevato dalla fine di quella farsa pietosa,
libero di tornare a una solitudine più riposante.
Prima che lo conducessero via, là dove altre catene
l’avrebbero stretto – eppure, sono certa, non avrebbero pesato quanto quelle
della vendetta – Naruto e io lo raggiungemmo.
Non sarebbe stato un addio, questo, ma un arrivederci, dunque
bisognava salutarsi come buoni amici.
“Noi abbiamo sempre un conto in sospeso, ricordi?” gli disse
Uzumaki, stringendo le palpebre per non lasciar trapelare la propria commozione.
Sasuke annuì senza aggiungere nulla.
Era il mio turno, ma le parole, per l’ennesima volta,
morivano strangolate da troppi sentimenti, sicché, facendo appello alla Sakura
ch’ero diventata nei troppi giorni che ci avevano divisi, lo abbracciai stretto
e, prima che potesse sottrarsi al mio affetto, lo baciai.
Fu un atto maldestro, appena un rapido sfiorarsi delle nostre
labbra, eppure anche la cifra manifesta di una nuova promessa: non mi
accontentavo di un ‘grazie’. Ero un’ingorda che pretendeva tutta la torta.
Forse, soprattutto, l’amore infinito che celavano i suoi occhi d’ossidiana.
“Noi siamo qui e ti aspettiamo, Sasuke,” fu tutto quello che
riuscii a strappare ai singhiozzi. Naruto mi prese la mano. La sua stretta era
calda e consolante. “Sbrigati, però… O te la porto via.”
Sono passati otto mesi da quel giorno. L’estate è il sole
abbacinante che ti cauterizza la retina e imbiondisce la pelle. È il profumo che
sembra avvolgere ogni cosa, come una tiepida carezza. È la canzone che
sussurrano le foglie di Konoha: una melodia dolce, come la nenia che culla il Re
di Shikamaru o il lascito di Asuma.
Ogni giorno, dunque, corro fino alle porte del villaggio per
chiedere al vento di portargli la mia voce. E lui, chissà… Forse, dietro ai suoi
occhi, ora c’è anche il mio sorriso.
Nota finale: e ce l'abbiamo fatta! Grazie di cuore a
chi, con pazienza e indulgenza, ha seguito questa storia, sebbene sia datata e,
stilisticamente, bruttina. Grazie per avermi dedicato il vostro tempo e fatto
compagnia. Non vi ho potuto ripagare con pagine all'altezza, ma spero che quanto
avete sfogliato non vi sia parso solo tempo perso :-P
Per chi di voi non
fosse ancora stanco di me, ho pubblicato ora un missing-moment di questa
long-fiction, Oasi: Shikamaru e Temari alla vigilia dell'ultimo giorno.