Disclaimer: The Mentalist e Grace non sono miei! Mannaggia!
Nonna mi ha insegnato a fare le trecce. Amava i miei
capelli rossi, lisci, morbidi. Erano il tramonto a cui si rivolgeva quando si
sentiva debole, il suo tramonto a tutte le ore del giorno. Lei mi amava e io
amavo lei. La amo ancora e mi manca, sempre. Mi manca vederla, affondata nel
divano, quando torno a casa dal lavoro. Lei mi dava calore, mi faceva sentire
tranquilla. E poi era uno spasso. Era più mangiauomini di me, quando facevo il
liceo! Commentava l’aspetto di ogni singolo attore televisivo e cercava di convincermi
a scappare a Hollywood e conquistarlo … pff. Nonna Grace sapeva cosa dire e
quando tacere, ma non parlava mai di sè, della sua vita. Un po’ si rabbuiava
quando le mostravo, orgogliosa, i miei voti alti, le mie A +. Si sentiva
frustrata, perché non aveva potuto frequentare il college. Avrebbe tanto voluto
studiare e invece era rimasta a prendersi cura del nonno, il patriarca, nonno
Van Pelt, il miglior allenatore dello Stato, che avrebbe poi cresciuto mio
padre, che alle parole “è una bambina!” non avrebbe saputo trattenere una
smorfia di delusione. Ecco il mio trauma
irrisolto, Jane.
Mia nonna è morta da anni, ma io non la lascerò mai
andare. È stata il mio modello, la mia ispirazione. La sua forza d’animo è
quella che vorrei avere, adesso.
La stessa treccia, fatta, ammirata, sciolta, ri-ammirata,
ri-sciolta. Non allo specchio però, non riesco a sopportare il mio stesso
sguardo per più di qualche secondo. Sono passate due settimane da quel giorno
infame e sono seduta al tavolo del mio monolocale, ritta e tesa come una corda
di violino. Prendo i capelli intrecciati fra le mie mani, odoro, guardo, tocco.
Odio questa treccia e la voglio sciogliere. Odora di polvere da sparo. Dopo infiniti
lavaggi al sapore lieve di fragola, liquirizia, vaniglia, minerali dell’Artico
e simili, nulla è cambiato. Puzza ancora di polvere da sparo. E non riesco
nemmeno a togliermi di dosso la sensazione di essere impregnata del suo sangue;
lo sento costantemente con me. È accanto a me ogni mattina, nel letto, appena
mi sveglio; al lavoro, ogni volta che qualcuno mi chiama per nome, ho sempre la
sensazione che sia lui a farlo. Istintivamente, porto la mano al fianco destro.
Cerco la pistola e quando mi accorgo di non averla in fondina, perché seduta
alla scrivania, ecco che ritorna l’odore pungente della polvere da sparo.
Sono andata ad allenarmi a sparare al poligono, la scorsa
settimana, per la prima volta da quando l’ho ucciso. Non volevo farlo, avevo
paura di quello che avrei scoperto in me. Sarei stata assalita dai ricordi
della coppietta finta - e - felice che eravamo? Sarei scoppiata a piangere? O
avrei scoperto che, ancora una volta, avevo già seppellito tutto sotto
tonnellate di psicologia spicciola e spiritualità fai da te?
Ebbene, mi è piaciuto. Mi è piaciuta la sensazione di sparare e
centrare il bersaglio e non perché sono un poliziotto e sto dalla parte dei
buoni, no. In realtà, ero felice. Felice di averlo ammazzato. Quel giorno, riversai
tutta la mia rabbia nei proiettili che lo trapassarono; la cosa più divertente fu
… che lo feci senza rendermene conto. Il mio istinto prese il controllo e mi disse
“Prendi la pistola, uccidi quello stronzo” nel microsecondo in cui vidi la sua,
di pistola, fuori dalla fondina. Non ebbi il tempo di pensare. Fu un’azione
compiuta troppo velocemente per poter essere ricostruita nei dettagli e così
come sparai d’istinto, mi arrabbiai d’istinto. Nei secondi successivi, mi scoprii
vuota e con un solo, potente sentimento di autocommiserazione. Era rimasto solo
quello in me : autocommiserazione per quello che sono stata, una dolce e
ingenua ragazzotta. Quei colpi crivellarono il mio fidanzato e anche me stessa.
Sparando di nuovo, l’ho, finalmente, realizzato. Quello sparo mi ha resa così
felice da scoppiare in una fragorosa e incontrollabile risata, con il
bersaglio di carta centrato nelle mie mani.
Ieri sono andata in palestra per la mia lezione di yoga,
un’altra “prima volta” da quel giorno. Sono arrivata negli spogliatoi convinta
che una ginnastica di respirazione e meditazione potesse svuotarmi la mente, almeno
per un’ora. Inutile dire che non è stato per niente come volevo:un’intera ora
di contorsioni e respiri calibrati passata a rivivere quel momento. Lo squittio
dei delfini della playlist rilassante scelta dal maestro yogi, una volta
arrivata sulla soglia del mio padiglione auricolare, si tramutava,
sistematicamente, in rumore di spari. In più, ogni volta che, per qualche
posizione intricata, la mia treccia arrivava al naso, ecco ritornare quell’odioso
odore di armi. Non credo di essermi sentita mai così frustrata, in vita mia.
Che mi stava succedendo? Adesso mi divertivo a sparare e lo yoga non riusciva a
placarmi nemmeno per un’oretta?
Insoddisfatta, frustrata, delusa da me stessa:ecco che l’autocommiserazione
tornava a galla, pronta a trascinarmi in un baratro; io, sola con i ricordi del
mio fidanzato - merda. Nella mia testa c’era un gran silenzio : nessuna voce
che mi diceva come comportarmi, quanti sorrisi dovevo dispensare per non far
vedere la confusione che regnava in me. Niente di niente. Nessuna canzone che
suona più e più volte, della quale non riesco proprio ad afferrare il titolo;
nessun desiderio, nessuna voglia di un piatto particolare, nessuna voce di
protesta. Nulla.
Il silenzio che aveva assalito la mia mente ha cessato di
esistere quando ho messo piede fuori dallo spogliatoio, già pronta per andare a
casa. Qualcuno urlava. Urlavano tutti. E sentivo il rumore prodotto dai sacchi
da boxe percossi. Certo, eccola lì, la soluzione. Kick-boxing. Incanalare il
mio vuoto, prenderlo per mano e, sempre per mano, condurlo fuori, fuori da me,
via da me. Liberarmi, non placarmi. Ecco ciò di cui avevo bisogno ora. Ieri ho
partecipato alla mia prima vera lezione
di kick-boxing. Avevo già praticato più di un corso di autodifesa e non mi ci
ero mai appassionata, li consideravo utili per il mio lavoro e niente più. Ma
quella era un’altra me. Questa me aveva altri bisogni, ora, altre urgenze. Ieri
sera, in palestra, ho preso il mio fallimento per mano, poi l’ho riempito di
botte, di colpi, di desideri, di speranze. Senza rendermene conto, ho pianto di
gioia e … follia, per quel che ne so. Non
tutti accettano di collassare su se stessi, Jane.
Ed eccoci ad oggi. Ancora con la treccia fra le mani, l’odore
di morte su per le mie narici, il suo sangue sotto le mie unghie, le sue mani
sui miei fianchi. Ho bruciato tutto quello che avevo di lui : cravatte e
calzini dimenticati nel mio armadio, i suoi bigliettini del buongiorno; messaggi
e foto cancellati da PC e cellulare, fiori calpestati, regali distrutti.
Ora, nella mia casa, non c’è nessuna prova che io e lui
siamo mai stati insieme.
Ora ci siamo solo io, la treccia, la puzza, il sangue e l’anello
sul tavolo. L’anello di fidanzamento mi fissa. Io fisso lui. Mi hanno detto che
ci vuole tempo, che non devo avere alcuna fretta. Io non ho fretta, ma il mio
corpo sì. Mi sta spingendo oltre. Vuole che faccia una di quelle uscite da
film, con il tramonto alle spalle e io che cammino verso l’orizzonte, in uno
spolverino color cammello. Non succederà. Io non andrò verso l’orizzonte, perché,
d’ora in poi, io sono l’orizzonte, io sono la meta : da raggiungere, da
rincorrere, da amare, da odiare. Grace Van Pelt può anche farsi odiare e sa
anche provocare e irritare.
Mi scappa un sorriso. Ho vinto io, Craig.
Mi alzo e prendo in mano l’anello : quasi brucia, per
quanto è profano. Un diamante senz’anima, non c’è cosa più triste. Esco di
casa; fuori fa freddo ma non ho preso il cappotto. Ho i tacchi ma comincio a
correre verso il banco dei pegni.
Mi fanno male i piedi, la punta del naso è congelata, la
treccia non è chiusa da un legaccio e, ad ogni passo, si scioglie un po’ di
più.
Perde la sua forma, mentre io la riacquisto. Nonna, guardami! Sono ancora viva!