Storie originali > Fantasy
Ricorda la storia  |       
Autore: Mary P_Stark    29/10/2011    9 recensioni
PRIMA PARTE DELLA SAGA DI OCCHI DI LUPO. Il regno di Enerios è sull'orlo della guerra con il suo nemico storico, Vartas. Solo il suo principe ereditario, Aken di Rajana, e una ragazza-lupo, Eikhe di Nestar, potranno salvare il loro regno dalla distruzione. Ma non solo per difendere le loro terre, i due giovani dovranno lottare. Anche per difendere il loro amore che, tra le gelide lande dei Monti Urlanti, è divampato come fuoco scarlatto. Incuranti della differente estrazione sociale che li separa, dei loro stili di vita così diversi e del segreto misterioso che si cela dietro gli occhi di lupo di Eikhe, i loro cuori si toccheranno nel momento di maggior pericolo.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
- Questa storia fa parte della serie 'Occhi di Lupo Saga'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

1.

 

 

 

 

 

Narra la leggenda che un uomo vestito di pelli di lupo, dagli occhi color dell’ossidiana e capelli scuri come ali di corvo, si avventurò un giorno nella foresta ai piedi dei Monti Urlanti.

Suo era il desiderio di poter dare voce al proprio dolore, oltre alla remota possibilità di chiedere al dio lupo la possibilità di debellarlo.  

Rimorso e infinita disperazione avevano colto l’uomo quando la moglie, nel partorire la loro prima figlia, era morta tra immenso strazio.

Il suo cuore aveva ceduto allo sconforto, e neppure la salvezza della figlia aveva scongiurato la caduta nel baratro in cui l’uomo era finito.

Colmo di speranza, si era quindi inoltrato nella foresta del dio lupo, nel cuore la preghiera di poter tornare a sorridere come un tempo.

Raggiunta infine la statua del dio-lupo Hevos, alle sorgenti del fiume Fenar, l’uomo si era inginocchiato dinanzi a essa, chiedendo a gran voce di poter riavere la moglie al suo fianco.

Era stato con la paura sul volto, e lo stupore negli occhi, che si era ritrovato a fissare la figura del giovane Hevos, divenuto carne innanzi ai suoi occhi.

Imberbe e dal viso perfetto, la divinità aveva osservato lungamente il postulante con i suoi occhi dorati.

Mentre un lento sorriso si era dipinto sul suo volto immortale, aveva mormorato con voce piana: “Colei che tieni tra le braccia è tua figlia, viandante?”

Osservando il fagotto che teneva stretto a sé, l’uomo aveva assentito, mormorando poi roco: “Sì, lei è mia figlia Hyo.”

Allungando una mano dalle lunghe dita aggraziate, il dio aveva sfiorato il viso della neonata che, puntando due brillanti occhi neri su di lui, aveva sorriso, gorgogliando allegra.

Ciò aveva riempito di letizia il giovane immortale.

“Ella mi diletta, viandante… concedimi di prenderla in braccio, dunque” gli aveva a quel punto ordinato il dio, sorridendo alla piccola.

Il viandante, timoroso di incorrere nelle ire dell’immortale, aveva acconsentito, porgendogli subito la bimba.

Immediatamente, Hyo aveva riso ilare e il dio, carezzandole il viso con espressione divertita, aveva dichiarato: “Ho udito la tua invocazione, viandante. Tu sai che non mi è concesso varcare le soglie del mondo dei morti, che di diritto appartiene a mio fratello, quindi, perché tu chiedi l’impossibile?”

“Seguo il culto del Lupo e non del Corvo, mio signore, per questo ho pensato di rivolgermi a voi. La mia vita non ha più senso, senza Zenah, né io sento più il mio cuore battere, senza di lei. Solo per Hyo sto continuando a respirare, ma questa non è esistenza” aveva ammesso il viandante, sospirando pesantemente.

Continuando a osservare Hyo senza degnare di uno sguardo l’uomo, il giovane dio aveva replicato con una certa acredine: “Vuoi tu dunque dire che neppure una creatura pura come tua figlia, è capace di tenerti in vita con serenità? Non conta dunque nulla, per te? Dimmi, allora, perché l’hai voluta in questo mondo?”

“Era desiderio di Zenah… e lei me l’ha portata via” aveva sibilato suo malgrado l’uomo, reclinando il capo e non accorgendosi perciò del cipiglio del dio.

Assottigliando le iridi dorate, il dio aveva così mutato i bei lineamenti del suo giovane volto e per poi asserire glaciale: “Le tue parole sono come acqua che scorre su un sasso, per le mie orecchie. Nulla conta, per me, se non la vita di ogni essere vivente. Non mi occupo di morti ma, se per te è così importante Zenah da passare sopra all’esistenza della tua stessa figlia, intercederò per te presso mio fratello, così da ricongiungerti alla tua amata… a una condizione, però. Dai a me Hyo, e io ti riunirò a Zenah.”

“Cosa? Ma…” aveva tentennato l’uomo, risollevando il capo per fissarlo timoroso.

“Decidi in fretta, uomo, prima che la mia pazienza venga meno!” aveva esclamato il dio, continuando a vezzeggiare con un dito la bambina.

“Lo farete davvero?”

“Dubiti forse della parola di un dio!?” aveva perciò tuonato Hevos, facendosi di fiamma e fissandolo veramente per la prima volta.

I suoi occhi avevano emanato sdegno e furia al tempo stesso.

L’uomo era infine crollato a terra scuotendo il capo così il dio, sogghignando soddisfatto, aveva dichiarato sprezzante: “Ah… capisco. Allora è vero che, la di lei vita, non conta niente, per te. E sia! Riavrai la tua amata, ma pagherai per sempre lo scotto di averla voluta di nuovo con te.”

“Cosa volete dire?” aveva esalato l’uomo, impallidendo dinanzi alle sue parole profetiche.

“Ciò che per un uomo mortale conta come lo scorrere della sabbia in una mano, così non è per una donna, ma te ne renderai conto da solo. Ora va’, prima che cambi idea!” aveva esclamato a gran voce il dio, svanendo in una nuvola di luce.

Hyo era scomparsa con lui.

 

***

 

  Un alito di vento si incuneò tra le finestre socchiuse della stanza di Aken che, sbadigliando, si risvegliò dal suo sonno leggero.

  Sbattendo più volte le palpebre per comprendere da dove provenisse quella fastidiosa corrente d’aria, osservò cupo i battenti dischiusi prima di decidersi ad alzarsi.

Slanciate le lunghe gambe fuori dal letto, il giovane principe si incamminò verso la finestra, poggiando i piedi sulle morbide stuoie di pelliccia che lo riparavano dal gelido pavimento di pietra.

Chiusi i battenti, osservò ora completamente sveglio le case e i palazzi della città di Rajana, la capitale del regno di Enerios.

Rajana era già desta da ore, centro nevralgico dello scambio di merci provenienti da ogni angolo del loro ricco reame.

Dalle possenti montagne a nord giungevano gemme preziose, pelli pregiate e nobili metalli, che consentivano ai paesini abbarbicati tra rocce e declivi scoscesi di sopravvivere a quelle aride lande.

Dal sud, ove il mare era ricco di vita, pesci di ogni razza e perle rilucenti giungevano in eguale quantità, diretti sia al mercato interno che a quello estero.

Aken sorrise di fronte al brulicare di persone e mezzi, nei pressi della grande piazza del mercato.

Ironico, si chiese cosa sarebbe successo se, un dannatissimo giorno, tutta la prosperità del suo regno fosse scemata di colpo.

Nessuno di loro sarebbe sopravvissuto un solo giorno, a rape ed erbe di campo. Nessuno.

“Troppa opulenza” brontolò tra sé, prima di distogliere lo sguardo dalla finestra per dedicarsi ad altro.

Presi da una sedia gli indumenti che, la sera precedente, aveva ripiegato diligentemente, Aken indossò calze, pantaloni e camiciola di lino finissimo.

A quel punto, indeciso sul da farsi, osservò per un momento una delle sue ricche tuniche ricamate ma, al fine, indossò un giustacuore di cuoio al suo posto.

Un buon allenamento mattutino non gli avrebbe certo fatto male e, vestito come un damerino di corte, non avrebbe potuto farlo.

Così deciso, infilò ai piedi corti e consunti stivali di cuoio e, dopo aver legato in una coda di cavallo i lisci e neri capelli, che ormai gli giungevano ben oltre le spalle, uscì dalla propria stanza.

A grandi passi, quindi, si diresse senza ulteriori indugi verso la caserma di Rajana.

In quanto principe ereditario, Aken avrebbe dovuto fare colazione insieme alla sua famiglia, e non certo nel refettorio dei soldati.

Ormai da tempo, però, si era concesso il lusso di disertare quell’impegno mattutino.

Nel corso degli anni, le persone invitate al tavolo dei reali erano diventate, per lui, sempre più insopportabili e fonte continua di mal di testa.

Non amava la sua posizione e, meno ancora, essere l’oggetto delle brame di potere della nobiltà.

Da quando aveva compiuto diciotto anni, la Corte aveva tentato con ogni mezzo di vederlo sposato a questa o quella dama di corte, ma sempre di ottimo lignaggio.

A sette anni di distanza dal suo primo ballo ufficiale, e alla susseguente investitura a erede della corona, nulla era cambiato.

Quei lugubri pensieri lo portarono ad accigliarsi per alcuni attimi ma, quando raggiunse le scale di servizio, Aken si rasserenò a ogni gradino lasciato dietro di sé.

Non amava il luogo in cui i suoi avi avevano vissuto per secoli.

Non che il palazzo, con le sue alte torri merlate di arenaria grigia, le sue mura possenti e i suoi robusti contrafforti, non fosse bello, o non meritasse di essere osservato con ammirazione.

Semplicemente, vivere lì non lo aggradava.

L’essere costantemente controllato, studiato, vivisezionato dalla Corte, rendeva la sua vita a palazzo ben peggiore di una campagna militare.

Durante la lotta, poteva brandire spada e scudo per difendersi, ma a palazzo?

Un coltellino da burro era ben misera arma, e non poteva certo levarla contro coloro che, il suo ardore di guerriero, riteneva meno che mere caricature di uomini.

Meno che meno, poteva sfoderarlo contro le nobili dame di corte che, con i loro ventagli e i loro profumi svenevoli, erano forse peggio delle zecche.

Con uno sbuffo, lanciò un rapido sguardo all’alta torre di guardia, su cui svettava la bandiera con il lupo nero, su campo rosso, che era il simbolo del suo regno.

Dopo averla osservata sventolare al vento per alcuni attimi, riprese il suo lesto cammino verso la foresteria della caserma.

Meglio non pensare a quanto avrebbe voluto essere come quel lupo, e fuggire per sempre da quei luoghi.

Spartana come ogni ricovero militare, la caserma di Rajana – situata nei pressi del Palazzo Reale – poteva vantare non solo i soldati meglio addestrati del regno, ma anche la più fornita scuderia di Enerios.

I cavalli, scelti esclusivamente per la loro forza, possanza e capacità di resistenza in battaglia, erano i meglio addestrati di tutto il reame.

Solo il regno di Vartas ne vantava di migliori. Non che a loro piacesse ammetterlo, ma era un dato di fatto.

Aken ammirava da sempre quelle bestie indomite che, come autentici guerrieri, correvano incontro alla morte portando al galoppo i propri cavalieri, senza temere colpo di spada o punta di lancia.

Il suo destriero non faceva differenza.

Come ogni mattina, il principe si recò alle scuderie per salutare il suo fedele destriero Rohal, con cui aveva già combattuto diverse battaglie.

Lo stallone nero, scorgendolo sull’entrata della stalla, sbuffò sonoramente, agitando il capo oltre la bassa porta lignea del suo box.

Il giovane principe, sorridendo lieto, si avvicinò per carezzarlo e dire gentilmente: “Buongiorno, mia fulgida tempesta.”

Rohal strusciò il muso contro la sua spalla, dimostrandogli tutto il suo affetto incondizionato e Aken, sorridendo maggiormente, gli allungò un dolcetto, sussurrando complice: “Se mi vede lo stalliere, ci metteremo nei guai, ma di certo te lo meriti. Acqua in bocca, però.”

Il suo nitrito allegro dimostrò al principe quanto il regalo fosse stato gradito.

Dopo un ultimo grattino alle orecchie, il giovane se ne andò in direzione della caserma per raggiungere il refettorio.

Lavatosi le mani in un bacile di acqua fresca, prima di entrare nella bassa struttura a pianterreno ove i suoi uomini si riunivano per il rancio, Aken salutò i presenti, ricevendo in risposta inchini e pacche sulle spalle.

Sorridendo a tutti loro con trasporto, si diresse senza ulteriori indugi verso le vivande già pronte, prendendo un po’ di carne salata e del pane di noci.

Non gli fu difficile trovare un angolo libero ove sedersi. A quell’ora, molti soldati erano già di ronda, quindi la sala era quasi vuota.

Sedutosi a un tavolo di legno grezzo come gli altri soldati presenti, Aken iniziò a mangiare tranquillamente, lo sguardo perso nel vuoto e ora del tutto privo di preoccupazioni.

Era più a suo agio tra i soldati, i cavalli e le spade, piuttosto che tra trine, merletti, profumi speziati e vuote parole.

Che si divertisse il fratello minore, a corteggiare le dame! Lui aveva di meglio da fare!

Quel breve idillio, però, durò ben poco.

Un paggio in livrea, entrando nel refettorio con il chiaro intento di trovare proprio lui, distrusse i suoi piani per quella mattinata.

Non appena quegli occhi spiacenti si posarono sul suo volto aggrottato, Aken seppe di avere terminato lì, per quel giorno.

Bloccandosi subito – era insolito che i paggi si facessero vedere in caserma, se non per questioni urgenti e della massima importanza – Aken gli fece cenno di avvicinarsi.

Annuendo, il ragazzo in livrea si inchinò contrito, mormorando: “Vostra Altezza mi scuserà, ma Sua Maestà richiede la vostra presenza nella sala del trono.”

Storcendo il naso, Aken borbottò: “Cosa vuole, Sodan? Non te l’ha detto?”

Scuotendo il capo, il giovane replicò vagamente imbarazzato: “Non ha ritenuto opportuno dirmi nulla, Vostra Altezza.”

Spostando di lato il piatto di peltro ancora semi pieno, Aken si adombrò ulteriormente in viso, seguendo poi Sodan fuori dal refettorio.

Ripresa la via del palazzo, il principe macinò a grandi passi la distanza che lo separava dalla sala del trono, facendo le scale a due a due per impiegare meno tempo.

Sapeva di non fare cosa gradita alla sua famiglia, desinando in refettorio, ma addirittura interromperlo per spregio, gli sembrava troppo!

Preso un gran respiro quando finalmente raggiunse la porta della sala del trono, Aken lasciò che Sodan lo annunciasse ai genitori.

Con passo deciso, quindi, si avviò verso il palco ricoperto di velluto rosso, dove il padre e la sua matrigna erano assisi.

Re Arkan di Enerios era un uomo possente e fiero, di cui Aken aveva preso in pieno l’aspetto.

Una lunga cicatrice ne solcava il viso, scendendo dal sopracciglio destro fino al mento in una linea frastagliata e sottile, retaggio di un’antica battaglia contro il regno di Vartas.

I suoi capelli, ormai canuti al pari della barba folta, rispecchiavano la sua età, così come la gamba sinistra irrigidita dall’artrite.

Pur non volendolo, questo aveva costretto il re a utilizzare un bastone per muoversi più speditamente.

Nonostante questo, Arkan avrebbe potuto benissimo uccidere dieci uomini con la sola forza del suo braccio, tanta era ancora l’energia vitale insita in lui.

Era un guerriero da cui guardarsi le spalle, nonostante tutto, e Aken lo sapeva.

Inchinandosi dinanzi al padre pur fremendo di rabbia dentro di sé, il principe puntò i suoi occhi smeraldini in quelli d’acciaio dell’uomo che, dopo un momento, esordì dicendo: “Ho notizie preoccupanti da comunicarti, Aken. Ho preferito non aspettare oltre e mettertene al corrente.”

Aggrottando immediatamente la fronte, Aken raddrizzò la figura possente, stringendo le  mani dietro la schiena.

In attesa di ragguagli, fissò un attimo la sua matrigna, sorridendole gentilmente.

Il re sospirò, riprendendo la parola e tornando a ottenere l’attenzione del figlio.

“Due settimane orsono, ho inviato un falco ad Anok Fort, ma non mi sono giunte notizie in risposta dalla guarnigione. Ormai, sono diversi mesi che non riceviamo messaggi da parte loro e comincio a temere che, a Vartas, stiano combinando qualcosa che non vogliono farci sapere.”

Come per ogni abitante di Enerios, il solo sentir nominare  Vartas – regno a loro confinante, e nemico giurato da diverse generazioni – fece irrigidire Aken.

Accigliandosi maggiormente, il giovane guerriero fissò ansioso il padre, presagendo notizie ancora più allarmanti di quelle che già aveva udito.

Anok Fort era stato costruito sul confine tra i due regni, nelle vicinanze della Valle del Silenzio, proprio per tenere sotto stretta sorveglianza i movimenti di Vartas.

Ma se, come il padre sospettava, qualcosa era avvenuto al forte, qualcuno avrebbe dovuto scoprire cosa stesse succedendo prima della riapertura dei passi, la primavera successiva.

“Volete che organizzi una spedizione, padre?” chiese allora Aken.

Annuendo, Arkan disse contrariato: “So che siamo agli albori dell’inverno e che, al nord, le condizioni non sono ottimali, ma non possiamo attendere la primavera, con il rischio che loro ci attacchino trovandoci impreparati. Vorrei inviare qualcuno degno di fiducia, ma conosco solo te, da poter inviare in mia vece.”

Aken preferì non dire nulla in proposito: non era insolito che il padre non si fidasse dei suoi stessi uomini e, più di una volta, lui era dovuto intervenire per sedare eventuali disagi.

Era cosa risaputa, tra le truppe, che i generali erano fedeli ad Aken, e non al re suo padre, e proprio per questa totale mancanza di fiducia.

In questo, re Arkan aveva sempre difettato. Non aveva mai dato lustro a coloro che lo servivano, e questo aveva creato una spaccatura, tra la Corona e l’Esercito.

Solo Aken era il collante che ancora teneva legati i due mondi.

“Contattare il borgomastro di Marhna è stato inutile, perciò procedi con cautela, figlio. Non vorrei trovassi una serpe in seno, al tuo arrivo tra le montagne” aggiunse Arkan, del tutto ignaro dei pensieri del figlio.

Annuendo a sua volta, Aken replicò ombroso: “Sarò cauto nei limiti del possibile, padre. Preparerò i miei uomini, e partirò alla volta del forte entro il più breve tempo possibile. Dovremmo essere in grado di prendere la via delle montagne già domani.”

“Molto bene” assentì Arkan.

A quel punto Anladi, la seconda moglie del re, prese la parola.

Più giovane di Arkan di quindici anni, Anladi era stata data in sposa al re dopo la morte della madre di Aken, perita a causa di una brutta febbre polmonare.

Al re, Anladi aveva dato due figli, di cui Arkan andava particolarmente fiero, e si era presa cura di un bambino di sei anni, senza più una madre, portandolo alla maturità.

Aken provava affetto profondo per quella donna minuta dai biondi capelli e gli occhi azzurri come le acque dei ghiacciai, cui il fratellastro Ruak assomigliava in tutto e per tutto.

Non aveva mai provato risentimento alcuno nei suoi confronti, anche se lei aveva preso il posto che, un tempo, era stato di sua madre.

Osservandola curioso, le sentì dire: “Durante il viaggio di ritorno, vorrei sostassi presso la tribù di Kaihle. E’ molto tempo che non abbiamo sue notizie, e vorrei sapere come sta. Ovviamente, le porterai i miei saluti e ringraziamenti, oltre ad alcuni doni che vorrei farle avere.”

Kaihle era, come Aken ben sapeva, la Signora di una delle tribù di donne-lupo presenti alle pendici della catena montuosa che li separava da Vartas.

Era stato presente anche lui quando, ormai disperati, avevano chiamato a palazzo Kaihle per salvare Anladi - e il principe che portava in grembo - da morte certa.

Nessuno dei loro guaritori era stato in grado di fare nulla, ma quella donna era riuscita laddove tanti uomini avevano fallito.

Aveva accudito la partoriente fino alla nascita del bimbo, scongiurando la morte di entrambi dopodiché, senza chiedere nulla in cambio, se n’era tornata alla sua tribù.

Era l’unica donna-lupo che Aken avesse mai conosciuto in vita sua.

Se lei in particolare non gli era sembrata una donna sciatta o volgare, le voci che circolavano sul loro conto non erano certo delle più lusinghiere.

Di loro, si diceva che fossero più simili a uomini che a donne, e che la loro proverbiale capacità di parlare con i lupi fosse dovuta a un patto fatto con i demoni delle nevi.

Secondo il suo modo di vedere, erano solo sciocche credenze, ma comprendeva senza difficoltà alcuna da dove nascessero quelle storie colme di timore.

Pur essendo una pratica vecchia di secoli, e accettata dalla Corona, gli abitanti di Enerios ancora stentavano a comprendere come interi gruppi di donne vivessero sole nelle foreste del regno.

Figurarsi tra le vette impervie dei Monti Urlanti.

Fra loro non era concessa la presenza di nessun uomo e, quel che più sconcertava, erano seguite a vista, e venerate, dai lupi che condividevano la loro esistenza.

Ma Kaihle, quella donna-lupo che aveva visto solo una volta, aveva salvato la sua matrigna e il fratello, perciò meritava rispetto.

Annuendo, Aken dichiarò: “Le porgerò i vostri saluti, madre, e le porterò i vostri doni per ringraziarla.”

Sorridendo, Anladi annuì al figliastro, e aggiunse: “Ricordati di salutare tuo fratello, prima di partire.”

“Non mancherei mai” sorrise un momento Aken, tornando poi a rivolgersi ad Arkan. “Avete altro da dirmi, padre?”

“Solo avvisarti che lady Tyana è con tua sorella Melantha, e vorrebbe vederti” asserì il padre, con un accenno di irritazione nella voce.

Arcuando un sopracciglio con espressione ironica, Aken celiò: “Ancora, padre? Vi ho già detto che, quando vorrò un cappio dorato al collo e una catena alla caviglia, ve lo farò sapere.”

“Ti ho solo chiesto di conoscerla, nulla più. E’ così difficile?” sospirò a quel punto il re, esasperato dalle intemperanze di lunga data del figlio maggiore.

“Sì, in effetti. E, finché non sarò soddisfatto di ciò che vedrò, non mi sposerò. Con permesso” ironizzò il principe, uscendo dal salone dopo un breve quanto frivolo inchino.

Incamminatosi lungo il corridoio con passo rigido e irritato, Aken raggiunse in breve tempo le scale che conducevano dabbasso, nell’ampio cortile sul retro del palazzo.

Da lì, per giungere al campo da tiro con l’arco, ove solitamente si allenava suo fratello Ruak, avrebbe impiegato pochissimo.

Nel contempo, avrebbe evitato a piè pari i luoghi in cui, solitamente, passeggiavano le dame di corte per mostrarsi ai nobili imbellettati e pronti a maritarsi.

Lui, di certo, non sarebbe stato tra questi. Che si dilettassero pure gli altri, nel rincorrere quelle arpie, pronte soltanto a mettere le mani sugli ori dei poveri malcapitati.

Non voleva neppure sentir parlare di matrimonio, dopo la scandalosa scenata di lady Eluane.

Vistasi rifiutare durante un balletto di gala, aveva strepitato come un’aquila, accusandolo di essere un amante di uomini.

Quel suo accenno, non solo l’aveva spinto a sollevare una mano per schiaffeggiarla – subito calata per rispetto verso entrambe le loro famiglie – ma gli aveva anche fatto comprendere quanto vuota e vanesia fosse la ragazza.

Se non era in grado di accettare un rifiuto senza dare di matto, non poteva certo essere all’altezza della Corona cui tanto ambiva.

Una donna degna di tale nome avrebbe preso il suo diniego con maggiore classe e, sicuramente, facendo meno baccano.

Inoltre, dargli dell’amante di uomini! Lui!

Quel pensiero lo irritò per l’ennesima volta.

Aveva avuto davvero un bel fegato ad accusarlo di una cosa simile, visto quanto fosse risaputa la sua nomea di amante.

Non una di loro, aveva preteso qualcosa di più della sua compagnia e lui, ben volentieri, si era prodigato per ringraziarle per quel comportamento disinteressato.

Non che sguattere o contadine potessero sperare nella Corona, ma ad Aken era servito stare con loro, e condividerne l’intimità del loro letto.

Durante le fredde notti d’inverno, o nei caldi giorni d’estate che bruciavano Rajana e le sue mura, quelle giovani donne erano state la sua salvezza.

Quelle ragazze, che di merletti e regole di comportamento non facevano certo uno stile di vita, gli avevano insegnato a gustare i veri piaceri della vita.

Una risata, una battuta sussurrata all’orecchio nel momento dell’amplesso, una carezza sincera, un bacio d’addio dato col cuore.

Ben poche avevano voluto essere pagate per i loro servigi, limitandosi ad accettare le sue visite come un regalo insperato.

Trattandosi di giovani sole, orfane di genitori o vedove, lui aveva equamente provveduto ad aiutarle e, da loro, non aveva mai ricevuto pressioni o critiche.

Forse, comprendevano più di chiunque altro il suo bisogno di evadere dal palazzo.

Forse, anche loro avevano bisogno di isolarsi dal mondo, per qualche ora, e godere della compagnia di un uomo che non abusasse di loro.

Forse, solo loro lo vedevano realmente per quello che era. Un uomo, e nulla più.

Sbuffando contrariato per la piega melanconica che avevano preso i suoi pensieri, Aken scalciò un ciottolo con rabbia.

Aguzzando poi lo sguardo, cercò tra i molti giovani, impegnati in allenamento, la figura del fratello Ruak.

Tendenzialmente, non era difficile trovarlo, vista la sua passione per l’arco lungo, oltre che per la sua chioma bionda, così rara a corte.

Sorridendo non appena lo scorse, l’alta e longilinea figura abbracciata da neri abiti di pelle, Aken si avvicinò a Ruak e il suo istruttore con passo veloce.

“Buongiorno! Già impegnato a maltrattare il tuo arco?”

Fermandosi di colpo, e ritirando il braccio prima di scoccare la freccia che teneva saldamente tra le dita, Ruak si volse a mezzo nel sentire la voce del fratello.

Sorridendo di rimando ad Aken, esclamò: “Buongiorno a te! Dovresti saperlo che io non maltratto le mie armi. Men che meno il mio fedele arco. Già in fuga da Tyana?”

Ridacchiando insieme all’istruttore di Ruak, che ben conosceva le sue reticenze a sposarsi e l’assidua caccia che, invece, stava conducendo Tyana, Aken ammise: “Più o meno. Quella ragazza è davvero testarda come un mulo. Sembra quasi che, nel raggio di cento miglia, non esista un solo uomo che le piaccia. Tranne il sottoscritto, ovviamente.”

“C’è in palio la corona, Vostra Altezza. Credo sia questo, il vero motivo della sua ritrosia a scegliere altri uomini” commentò l’istruttore, sogghignando suo malgrado.

“Come darti torto! Il punto è che queste nobildonne sono tutte così maledettamente pedanti che…” brontolò il principe ereditario, prima di scrollare le spalle e cambiare discorso. “Ti rubo mio fratello per un po’, Nogarth.”

“Attenderò qui, Altezza” annuì l’uomo, appoggiandosi a una staccionata di legno.

Allontanatisi di qualche passo, Aken si fermò per sedersi scompostamente su un muricciolo di sassi e, fissando il fratello con aria seria, disse a un curioso Ruak: “Devo partire per un viaggio, fratellino, quindi dovrai badare tu alla famiglia.”

Spalancando gli occhi cerulei, incorniciati da scure ciglia nere, Ruak lo fissò sorpreso prima di chiedere turbato: “Non siamo un po’ avanti con la stagione, per un viaggio?”

“La necessità lo impone. Nostro padre prevede guai sul confine, ed è giusto andare a controllare” gli spiegò Aken, stringendogli le spalle con un braccio quando il fratello si sedette al suo fianco.

Ruak era quasi alto come lui, ormai, pur se non altrettanto robusto.

Avevano un’identica carnagione bronzea e volti dai tratti nobili, ma il fratello minore aveva occhi gentili e caldi come quelli della madre.

Quelli smeraldini di Aken, invece, avevano visto troppe morti e troppo sangue, per essere egualmente limpidi, ma non erano meno belli di quelli di Ruak.

“Capisco” annuì il fratello minore. “E, come al solito, nostro padre non si fida che di te, per una missione simile, nonostante tu sia l’erede e quindi, di fatto, assai importante per la Corona.”

Aken sbuffò, sapendo bene cosa volesse dire il fratello, con quelle parole.

“Lo conosci. Non lascerebbe a nessun comandante, una missione così importante.”

“Ma mette a rischio te, nell’impuntarsi a questo modo” sottolineò Ruak, sbuffando a sua volta.

“Da per scontato che io torni, visto che sono suo figlio. Chi mai potrebbe battermi?” ironizzò a quel punto Aken, dandogli una pacca sulla gamba.

Ruak lasciò perdere il discorso, limitandosi a dire: “Starai attento, per lo meno?”

“Quando mai non sono stato attento?” lo irrise bonariamente Aken, ghignando in risposta.

Storcendo il naso, Ruak gli rammentò per contro: “Ti ricordo che sei quasi finito in un crepaccio, per rincorrere una lepre.”

“Un caso fortuito” ridacchiò lui, pur tornando serio subito dopo. “Te lo prometto; starò attento e tornerò a casa tutto intero.”

Ruak lo fissò in cerca di rassicurazioni e, dopo aver scorto negli occhi del fratello tutta la sua buona volontà, accennò un sorriso e celiò: “Non è che questa storia te la sei inventata per evitare le brame della bella Tyana?”

Ridendo fragorosamente, Aken ammise: “Casca a fagiolo, non posso negarlo, e non mi dispiace allontanarmi da chi vorrebbe mettermi una corda attorno al collo. Mi piace ancora troppo divertirmi, e senza restrizioni da seguire.”

“Lo immagino, e non posso darti torto. Finché puoi…” commentò Ruak, con aria saputa.

Storcendo il naso con espressione torva, Aken replicò: “Cosa vuoi saperne, tu, sbarbatello?”

Ruak ridacchiò, strizzandogli l’occhio.

“Più di quanto tu non creda, fratello.”

“Oh” esalò il fratello, basito di fronte all’affermazione di Ruak. “Ah, beh, allora…”

Tornando serio, il giovane principe abbracciò strettamente il fratello maggiore per un attimo, prima di dire contro la sua spalla: “Fai buon viaggio, Aken, e torna da me.”

“Spero proprio di sì” sorrise lui, stringendolo a sé e dandogli sonore pacche sulla schiena.

Amava Ruak come se fosse nato dalla sua stessa madre, e non avrebbe mai voluto causargli alcun dolore.

Questa volta, però, promettere di essere prudente, gli parve una concessione davvero dura da fare.

***

Osservando il suo aiutante di campo, che conosceva da più di nove anni, ormai, Aken sospirò forse per la centesima volta, ed esalò: “E’ davvero necessario starsene qui seduti a elencare tutti i lavori che non eseguirò in mia assenza, e che tu dovrai sobbarcarti in mia vece?”

Sollevando ironicamente un sopracciglio, la penna d’oca stretta nell’unica mano rimastagli, Kannor replicò suadente: “Proprio perché tu non sarai presente, io devo avere ben chiaro cosa fare, mentre tu corri a menar le mani su al nord.”

“Ah-ah. Davvero spiritoso” sospirò Aken, passandosi una mano tra i folti capelli rilasciati sulle spalle.

I suoi uomini si erano dichiarati entusiasti di partire, forse stanchi di crogiolarsi tra le sicure e amene pareti della città.

O, più semplicemente, desiderosi di lucidare col sangue le loro preziose spade.

A ogni buon conto, nel giro di poche ore, ognuno dei soldati da lui scelti per partire, aveva preparato armi e bagagli e ora, a lui, spettava solo il compito di guidarli.

Un’unica lagnanza gli era giunta, e proprio da Kannor.

Non aveva gradito sapere che, anche per un viaggio all’apparenza semplice come quello, sarebbe rimasto a Rajana.

Era stato un autentico inferno fargli comprendere i motivi per cui desiderava lasciarlo a Rajana.

Non a causa del suo braccio monco, ma per avere un amico a gestire i suoi interessi in vece sua.

Ora, a sera tarda e con l’odore pungente della cera di pino ad ardere nei bracieri di ferro battuto, Kannor si stava sottilmente vendicando.

Appioppandogli quel noiosissimo lavoro di ‘controllo scartoffie’, come amava chiamarlo lui, sapeva di fargli un dispetto non da poco.

Non aveva mai dimenticato quando, sul campo di battaglia, aveva dovuto mozzargli il braccio maciullato per salvargli la vita.

Anche a distanza di anni, Aken si sentiva sempre in colpa per non aver potuto far altro per lui, oltre che prendergli quella mano che ora, fantasma, aleggiava vicino alla manica vuota della sua camicia immacolata.

Kannor non gliene aveva mai fatto una colpa e, anzi, lo aveva sempre preso in giro per i suoi rimorsi.

Spesso, lo aveva gratificato con pessime battute sull’essere un uomo con una mano sola, a cui Aken aveva sempre riso a fatica.

Quella sera, quella mano mancante avrebbe voluto prenderlo a pugni, se avesse potuto, tanto si sentiva a disagio.

Ma forse si meritava il vago sentore di fastidio che gli rodeva le carni.

Tornando serio, Kannor puntò la penna sul foglio pergamenato e borbottò: “Non ti servirà a niente ragionare su cose passate, o sulla mia mano che non c’è più. Ho capito perché non mi vuoi lassù tra i monti, e lo accetto perché so quanto poco ti piaccia che degli estranei ficchino il naso nei tuoi affari. Per questo, non per motivi reconditi, stiamo facendo questo lavoro noiosissimo. Anche se un po’ di soddisfazione la sto provando, la ammetto, a rovinarti la serata.”

Il sorriso pacioso con cui terminò la frase fece sorridere Aken che, ghignando, lo indicò divertito, asserendo: “Lo sapevo che avevi uno spirito sadico, nascosto dietro quella faccia da schiaffi!”

“Parla per te, baffetto!” ghignò Kannor, ricorrendo a un vecchio nomignolo che la coorte gli aveva affibbiato al tempo in cui, giovane guerriero in partenza per una battaglia, aveva sfoggiato dei ridicolissimi baffi per darsi un tono.

Ridendo di quel ricordo – a cui era seguito il brutto incidente di Kannor – Aken sussurrò: “Avrei voluto restare là con voi per sempre.”

Sorridendogli comprensivo, l’amico replicò: “E io vorrei tanto toglierti il peso che grava sulle tue spalle, amico mio, ma non posso davvero. Di tutte le cose che posso fare per te, questa mi è impossibile.”

“Lo so” sospirò Aken, prima di aggiungere: “Dai, continuiamo.”

“Sì, agapry. Continuiamo” annuì Kannor, tornando a fissare lo scritto dinanzi a lui.

Amico caro.

Ne aveva così pochi, a ben pensarci!

***

Serrati i lacci e controllato che tutto fosse a posto, Aken sistemò le varie sacche da viaggio, allacciandole agli anelli appositi della sella.

Sulla schiena del cavallo, legò il telo oleato della sua tenda e infine, scrutati i suoi uomini con occhi attenti, chiese burbero: “A che punto siete?”

“Siamo a posto, principe” dissero quasi in coro, senza neppure sollevare gli occhi da ciò che stavano facendo.

Non c’era bisogno di inchini o sguardi compiacenti, con Aken.

Annuendo, lui dichiarò: “Ottimo. Partiamo tra dieci minuti!”

“Sì, Altezza” esclamarono a gran voce i suoi uomini.

Non un cedimento nel tono, non un dubbio. Lo avrebbero seguito ovunque, e in questo lui contava.

Annuendo nuovamente prima di lanciare uno sguardo torvo in direzione del cielo plumbeo, Aken si avviò in direzione dei suoi familiari.

Questi, lo attendevano sotto l’architrave della porta maestra che dava sul cortile di palazzo.

Lì, diede un’occhiata d’insieme a tutti loro, come a volerseli imprimere nella memoria, dopodiché percorse gli ultimi passi che li separavano e abbracciò i genitori e il fratello con calore.

Rivoltosi poi alla sorella, che se ne stava ritta al fianco della madre e dell’amica Tyana, chiese con voce piana: “Pregherai per me, sorella?”

“Come ogni volta” replicò laconica lei, allungando una mano perché il fratello gliela baciasse.

Sogghignando divertito – era risaputa la loro acredine – Aken le baciò il dorso della mano prima di lanciare uno sguardo a Tyana, al fianco di Melantha, e aggiungere: “Chiederò anche a voi una preghiera, mia signora, perché il viaggio sia sicuro e il ritorno vittorioso.”

“Sarò lieta di pregare per voi, Altezza” sorrise melliflua la fanciulla, forse sperando di essere baciata a sua volta.

Aken si limitò però a inchinarsi dinanzi a lei con rigore marziale e, con un movimento elegante, tornò sui suoi passi senza più voltarsi indietro.

Non si sarebbe mai lasciato andare a gesti teneri con Tyana, poiché sapeva bene di non provare nulla per la procace fanciulla.

Se il padre si fosse risentito del suo modo di agire, beh, avrebbe avuto tutto il tempo di sbollire la rabbia.

Raggiunto che ebbe il suo destriero, salì in groppa con un fluido e potente movimento di gambe e, scrutando i suoi con malcelato orgoglio, gridò: “Possiamo partire, uomini! Ci aspetta un bel po’ di strada da percorrere!”

Con un corale grido di esultanza, la compagnia si mosse come un sol uomo verso l’uscita del maniero, Aken in testa al gruppo mentre gli altri guerrieri lo seguivano a gruppi di due.

Non appena raggiunsero le larghe porte difensive, Aken le scrutò aprirsi per loro.

Dopo aver lanciato un ultimo sguardo alla sua famiglia, volse subito gli occhi in direzione della via principale della città, che lo avrebbe condotto fino alla Carovaniera del Nord.

Da lì, avrebbe volto i loro sguardi verso i Monti Urlanti, verso i loro profili netti e seghettati, oltre i quali si trovava il regno di Vartas.

Gli abitanti di Rajana salutarono il loro principe in partenza, e cori festosi si levarono per augurare a lui e ai suoi uomini una vittoriosa spedizione.

In cuor suo, però, Aken dubitò fortemente che dei semplici canti di esultanza potessero bastare; non questa volta.

Questa volta, qualcosa lo turbava, anche se non riusciva a comprendere da dove gli venisse quella sensazione.

Lui era sempre stato un uomo d’azione, non si era mai lasciato scoraggiare da mendaci preoccupazioni, spesso ingannevoli e menzognere.

In quell’occasione, però, il disagio iniziò a insinuarsi in lui fin dal primo passo fuori dalle mura di Rajana, e andò peggiorando a ogni miglio accumulato alle loro spalle.

Osservando gli alberi ricolmi di foglie ingiallite, pronte a cadere sull’erba secca dei prati e sul fondale ghiaioso della Carovaniera, Aken si chiese che genere di tempo avrebbero trovato tra i monti.

Era risaputo che l’inverno, tra le lande del Nord, giungeva prima, e i Monti Urlanti non erano famosi per i loro benvenuti calorosi.

Non era il periodo migliore per avventurarsi sulle alte montagne che li separavano da Vartas, ma la minaccia incombente di un attacco era motivo più che valido per correre qualche rischio.

Non lo avrebbero certo fermato un po’ di vento freddo e del nevischio, questo era assodato.

Solo, avrebbe preferito da parte del padre una maggiore fiducia nei suoi sottoposti.

Denigrare così apertamente l’abilità dei suoi ufficiali, in favore del figlio maggiore, non era cosa che sarebbe passata inosservata.

Già da tempo, Arkan aveva allontanato da sé le più alte sfere del comando militare, preferendo delegare tutto ai figli.

Se questo era stato, di per sé, un segno di fiducia nei confronti di Aken e Ruak, aveva però segnato una netta spaccatura con i comandanti della guarnigione.

In gran segreto, sia lui che il fratello avevano comunque chiesto consiglio agli ufficiali, ma Aken dubitava che la loro mano tesa sarebbe bastata.

Era il re, a comandare, non i figli.

E tenere a distanza i comandanti militari era un errore grossolano.

Aken era un guerriero esperto, e aveva passato anni a combattere come soldato presso il reame amico di Karton, dietro diretto ordine del padre.

Presto, sarebbe spettato anche a Ruak un simile compito anche se, personalmente, avrebbe preferito tenere il fratello sotto la sua ala almeno per qualche anno ancora.

Tutta la sua esperienza, però, gli sarebbe servita ben poco se, durante una guerra, non avesse potuto contare sul valido aiuto dei comandanti delle guarnigioni militari.

Era questo, che suo padre non teneva in debito conto.

Sperava soltanto che, se fosse giunto il momento di utilizzare l’esercito, le alte gerarchie dell’esercito non li avrebbero abbandonati a loro stessi a causa delle decisioni insensate del re.

Guardando un momento Likas, uno dei suoi amici di lunga data, sorrise mestamente e chiese: “Hai portato la tua solita fiaschetta? Credo di aver bisogno di una dose di corroborante liquido.”

“Ma certo, principe” sogghignò lui, mostrandogliela. “Non manco mai di portare il mio porta fortuna. Ci fermiamo al solito posto, Altezza?”

“Piantala di adularmi col mio titolo, Likas. Sai come mi chiamo” rise Aken, afferrando dalla mano dell’amico la vecchia fiaschetta in metallo, colma di idromele speziato.

La madre di Likas soleva sempre prepararne un po’ al figlio, in previsione di missioni come quelle.

“Sì, per la tua gioia immensa, ci fermeremo a Rastanie” aggiunse poi il principe, ghignando all’amico.

“Ottimo! Devo giusto dire due parole a una ragazza che conosco” sorrise soddisfatto Likas, sfregandosi le mani coperte da guanti di cuoio grezzo.

Un altro soldato rise e replicò: “Dirle qualcosa? Tu vuoi farle qualcosa!”

Tutti risero e Likas, sogghignando, ribatté: “Che ci posso fare se Kanania è così bella!?”

Dandogli una pacca sulla spalla, Aken ammise divertito: “Ne siamo convinti tutti, Likas, ma vedi di non arrivare stremato, o potrebbe averne a male.”

“A costo di dormire sulla sella, arriverò fresco come una rosa” rise lui, guardando bramoso la sagoma scura del paese all’orizzonte, che avrebbero raggiunto solo in serata.

Scrutandolo a sua volta, Aken si chiese se, per togliersi dalla mente quelle sgradevoli sensazioni, avrebbe preso a sua volta una donna con cui scaldarsi il letto.

Quando, però, raggiunsero Rastanie, il suo malumore fu così palese da scoraggiare tutte.

Neppure la più audace delle ragazze della casa di piacere - dove fecero tappa dopo cena - si avventurò al suo tavolo, lasciandolo solo con il suo boccale di birra e le sue riflessioni.

Qualcosa nelle parole del padre lo aveva turbato, sebbene non avesse detto niente di specifico.

Era più che ovvio, per lui, che il pericolo di un’invasione fosse più reale di quanto molti dei suoi uomini non credessero.

Per la buona riuscita del viaggio, però, prudenza voleva che quelle preoccupazioni rimanessero solo sue.

Ai suoi soldati non avrebbe espresso alcun timore; lui era la loro guida, e doveva essere un punto di riferimento per tutti loro.

No, nessun cedimento.

Finito il boccale di birra, che aveva acquistato più per abitudine che per reale necessità, Aken si alzò e uscì dalla casa di piacere per gustarsi il fresco della sera.

L’odore fumoso e stantio di quel luogo non aveva certo contribuito a sanarne l’umore, come pure le grida eccitate di alcuni uomini ubriachi.

L’esterno del locale, profumato dei dolci sentori della notte ormai prossima, era preferibile al caos dell’interno.

Sedutosi su un basso muretto di cinta che delimitava un campo a maggese, osservò le prime stelle alte in cielo e il piccolo spicchio di luna apparso all’orizzonte, vicino ai monti ancora lontani.

L’aria era pungente, ma a lui non dispiaceva.

Portava con sé il profumo dei pini e della resina, l’odore freddo della neve che imbiancava le cime dei Monti Urlanti e il calore dei camini accesi nelle case.

Tutt’intorno, non v’era nessuno.

Era solo, in quell’angolo di strada, intento a contemplare il cielo di quella serata di fine autunno, gustandosi aromi e odori che solo in campagna poteva trovare.

Voltandosi in direzione dei prati quando udì il richiamo di un cervo in lontananza, Aken si chiese se, da quelle parti, vi fossero dei lupi.

Come a confermare i suoi sospetti, dalle vicine colline si levò l’ululato inconfondibile di uno di loro.

“Sono a caccia” commentò in un sussurro, appoggiando distrattamente un piede sul muricciolo.

Passò almeno mezz’ora prima che, dalle ombrose cime delle colline, lo stridio di un cervo si levasse improvvisamente nella notte stellata.

A giudicare dal rantolo sorpreso dell’animale, doveva essere stato catturato.

Levatosi in piedi prima di spazzolare via dai pantaloni dei residui di polvere, Aken lanciò un ultimo sguardo al contorno indistinto del bosco, prima di avviarsi pacificamente verso la locanda.

 Sperò, pur senza sperarci troppo, di poter godere di una buona notte di sonno, in previsione del viaggio del giorno successivo.


  
Leggi le 9 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Mary P_Stark