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Autore: fallapart_    01/11/2011    2 recensioni
Amare non significa necessariamente trovare pezzi di sé.
Snow Patrol, Gary Lightbody/Nathan Connolly.
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DISCLAIMER: sfortunatamente nessuno dei personaggi mi appartiene, né sono mai venuta in contatto con loro. La caratterizzazione dei personaggi e i fatti narrati sono frutto della mia immaginazione e assolutamente non reali. Non intendo offendere nessuno e non traggo alcun guadagno dalla stesura di questo racconto.

È la mia seconda fic su di loro ed è stato un parto faticosissimo (e neanche tanto ben riuscito); non è ricollegabile alla prima, per il semplice fatto che narra dello stesso momento – l'accettazione di quel che è il loro rapporto, soprattutto da parte di Nathan – ma in chiave completamente diversa. E no, non sono brava con l'angst, per niente. Ma proviamoci.

Titolo e citazioni da “Somewhere a clock is ticking”, che in qualche modo ho sempre visto facilmente modellabile sulla loro storia (o meglio, a quella che io, fangirl frustrata, posso immaginare per loro).

Scritta per il prompt “profumo” sulla mia tabella per bingo-italia.

 

*

 

Viaggiare non significa necessariamente trovare pezzi di sé.

Ci sono notti in cui ti manca casa, e i palazzi di Los Angeles, dritti e imperturbabili, che si stagliano verso il cielo, ricordano le sbarre di una prigione. Le luci di milioni di finestre, disposte in file ordinate sullo sfondo, diventano punti sfocati, quando il mio alito disegna sul vetro macchie umide che appaiono e si dissolvono in sincronia con il respiro e il suo ritmo svizzero. C’è chi pagherebbe oro per avere una vista simile dalla sua suite a cinque stelle; io, oggi, pagherei oro perché il mio riflesso – quell’uomo di bellezza mediocre, alto, con la barba fatta male e un bicchiere di vino rosso che oscilla pericolosamente fra due dita – potesse sorridere.
Alle mie spalle, Jonny e Paul giocano a carte in un silenzio tombale, interrotto solo episodicamente dal frusciare del mazzo o il tintinnare dei bicchieri, che si scontrano in un timido cin cin, solo accennato per evitare di disturbare quello che sicuramente avranno inteso come un silenzio stampa forzato. Tom alza raramente gli occhi dal suo giornale, ma quando li alza, seppur per qualche brevissimo istante, li punta sempre su di me, mantenendo sempre una certa discrezione. Sembra che abbiano tutti paura di parlare; ed è comprensibile, perché oggi, dopo tanti anni, quel filo sottile ma apparentemente indistruttibile su cui si reggeva il nostro equilibrio si è spezzato senza possibilità di ritorno.
Con la coda dell’occhio vedo Tom infilarsi nella sua stanza e richiudere la porta scorrevole; Pablo mi fa un cenno con la mano e se ne va assieme a Jonny, con l’espressione tipica di chi va a dormire alle tre di notte sapendo che la mattina dopo se ne pentirà. Spengono tutte le luci, ma l’illuminazione urbana provvede a dare quel poco chiarore che serve a distinguere ancora i contorni delle cose.
L’orologio segna con un ticchettio estremamente fastidioso i secondi interminabili di silenzio che separano l’ultimo giro di serratura delle camere dal momento in cui, con un colpo al cuore, sento chiaramente il suono di una bottiglia sbattuta con una certa violenza sul tavolo della cucina; poi la stessa infrangersi rumorosamente sugli altri rifiuti nel cestino della spazzatura, e dei passi lenti, un po’ trascinati, sempre più vicini. Poi, una figura che conosco fin troppo bene, appoggiata allo stipite della porta e illuminata solo in un contorno impreciso dalla luce dorata dell’angolo cottura, l’unica rimasta accesa, diventa chiaramente riconoscibile nel riflesso della vetrata. Indica la porta della terrazza con un cenno traballante della testa. Stacco la fronte dal vetro e abbasso la maniglia; e quel gesto mi proietta sull’interno delle palpebre chiuse la ragione per cui, adesso, ho paura di farlo.

Le luci accecanti, i flash, l’adrenalina; il microfono che lancia la mia voce oltre la quarta parete e riempie l’aria; e poi il movimento delle tue labbra, e la tua voce, la voce che odi e vorresti evitare di usare, che striscia fuori dall’amplificatore alla mia destra. I could do most anything to you – voci, centinaia di voci di tonalità diverse che accompagnano le nostre, la pregnanza di personalità e significato di ciascuna di esse, il numero infinito di storie che vivono dietro quelle parole, che sono solo un riflesso delle mie ma raccontano, a volte, anche la vita degli altri; il brivido che mi scuote il petto non appena sento riecheggiare la prima strofa. Sono anni, ormai, che queste emozioni mi investono, ogni volta con una forza nuova; e sono anni che l’unico modo di non lasciarmi sopraffare è cercare sicurezza nella tua presenza. E quando siamo lì, anche senza toccarci, anche solo sfiorandoci schiena contro schiena, non temo più nulla – il mondo fuori, il pubblico, la morte – se non i pensieri che mi affollano la mente, i desideri che s’insinuano prepotenti nella mia carne e prendono a dominarmi.
Io non so perché lo faccio, Nate.
Non so perché il sorriso che mi si apre sul volto sembra causato più dall’azione di una droga leggera che dal movimento volontario dei muscoli facciali; non so perché il contatto del mio petto con la tua schiena non mi basta, e la testa mi si piega sulla tua spalla, e le mani sfiorano la pelle sotto la tua camicia – non lo so. Quello che so è che tu, oggi, mi hai spinto via come se io volessi tutto questo, o lo facessi spinto dal mio ego prepotente, o peggio ancora per farti un dispetto; hai concentrato, credo, in quella spinta tutta la violenza che avevi raccolto in questi anni, in tutte le situazioni in cui la tua pazienza mi ha quasi sconvolto, almeno un milione da quando ci conosciamo. Brucia ancora il taglio sul dorso della mano, e pulsa il livido sul fianco; ma più d’ogni cosa fa male il ricordo di quell’attimo di stupore, in cui non riuscivo a chiudere la bocca, né ad alzarmi da terra, né a rendermi davvero conto di quello che stava succedendo e che non avrei creduto potesse succedere mai.
In slow motion, the blast is beautiful.
Non ho saputo prendere in mano la situazione, reagire bene, reagire male, sdrammatizzare, fingere che nulla fosse successo; non ho fatto altro che fissare il profilo del tuo viso solcato dalle gocce di sudore, delineato da una sottile linea di luce rossa, e per quanto sia paradossale, ho capito. Più le tue mani tremavano, più la tua fronte si aggrottava nella morsa della rabbia, più capivo: capivo che se lo faccio è sempre, in qualche modo, in funzione di te, della lentezza eterea dei tuoi movimenti, della tua bellezza buia, nascosta da un milione di muri alti come grattacieli.
Doors slam shut.
Da quel momento, non mi hai più rivolto la parola; e non so se sia perché il tuo gesto di rifiuto riflette una rabbia reale, ancora presente, o perché in quell’istante hai letto esattamente ciò che stavo pensando.

Stringo le braccia attorno al petto, cercando di sfruttare tutte le potenzialità del maglione di lana – in questa stagione, a quest’ora della notte e a quest’altezza, con il vento che punge tutti gli angoli della città senza risparmiare nessuno, non c’è da aspettarsi temperature tropicali. Nate sopporta serenamente il tutto in maniche corte, suppongo grazie all’effetto dell’alcol; che è anche la causa del suo barcollare e del rosso intenso di cui sono dipinte le sue guance.
Prego Dio e tutti gli angeli del Paradiso che il tasso alcolico nel suo sangue cominci la conversazione al posto suo, e soprattutto al posto mio. Sono preghiere vane; restiamo in silenzio ancora per qualche minuto, finché una forza comincia a premere prepotente dal centro del petto, verso l’esterno, tirandomi fuori un «Nathan, per favore…» che ha le sembianze di un lamento patetico. La risposta, d’altronde, è quasi spiazzante, e in un certo senso deludente, nonostante il suo intento di rassicurarmi e mettermi al sicuro da ogni disastro annunciato.
«Gary, ascolta, tu… hai ragione. Ho esagerato. Scusami.»
Qualcosa nel suo sguardo vacuo non mi convince, ma lascio che prosegua il suo discorso, per quanto ciclico e confuso.
«Io… so che scherzi, l’hai sempre fatto, non vedo… non vedo perché reagire così solo ora… sei una delle persone con cui ho trascorso più tempo, dovrei trattarti… diversamente», biascica, ormai, la voce che gli trema. Si porta una mano alla fronte. «Scusami. Sei un amico, ti voglio bene.»
Quelle ultime sei parole mi trafiggono con più violenza di un milione di dardi infuocati; e nonostante tutto, il primo, irrefrenabile impulso è quello di saltargli al collo e abbracciarlo fino a soffocare entrambi. «Anche io», è lo scatto impaziente che precede le due falciate con cui attraverso i pochi metri che ci dividono, cingo con un braccio il suo fianco e lascio cadere l’altro attorno alla sua spalla. E penserei di aver trovato una temporanea e fittizia felicità nel calore del suo corpo, nell’equilibrio ristabilito, se non fosse che – ci metto qualche istante a realizzarlo – lui sta tremando.
«Ehi…» è il mio mormorio, inutile e fuori luogo, «Tutto bene?»
Un vattene sibilato fra i denti, e scosso dal tremore sempre più forte, è l’unica risposta. E mi sembra di morire quando, per la seconda volta in una vita e per la seconda volta in ventiquattr’ore, avverto le sue mani spingere rabbiose su entrambe le mie spalle; tenta in ogni modo di allontanarmi, se non fosse che questa volta io gli resisto, come in un gioco di calamite – vengo respinto, ma riesco a non staccarmi del tutto. Faccio presa sulle sue braccia, e sforzo talmente tanto i polsi che mi fanno male; lui spinge, con gli occhi socchiusi e i denti stretti, ma non può metterci più forza di così, così allenta la presa. Non mi sembra neppure di essere davvero qui; e se sto sognando, il tutto assume le sembianze del peggiore degli incubi.
Il fiato corto per lo sforzo, non riesco neanche a parlare, nonostante abbia un milione di domande. Lo spingo con tutta la forza che mi rimane verso il divano di vimini in un angolo della terrazza, in modo che si sieda, e solo dopo essermi assicurato che la sua resistenza sia del tutto cessata, faccio lo stesso.
C’è un istante lungo ore in cui Nathan fissa gli occhi nei miei, e se non fosse impossibile, giurerei che tutto l’effetto del vino sia svanito in un solo istante. Mi fissa con una sincerità tale che le domande che stavo per porre, le spiegazioni che volevo chiedere, mi si sgretolano in gola nel capire che sta per rispondermi comunque. Quello sguardo, senza il minimo preavviso, ha creato un impercettibile campo magnetico. Il vento soffia, e porta quasi con sé le parole, dritte contro la mia faccia.
«Dimmi solo quando è successo.» Quella frase sussurrata, ormai, non è carica di nessuna rabbia, e somiglia più che altro a una preghiera disperata. La luce nei suoi occhi cambia; e nell’analizzare il tono della sua voce, quasi dimentico di captare quello che è il suo significato.
Del resto, il tempo a mia disposizione per rispondere è già scaduto.
Mi afferra il busto in un nuovo scatto furioso, infila entrambe le mani sotto la mia maglietta; sento tutti i soli del mondo esplodermi sulla pelle, il freddo non è più percepibile neanche volendo, e in un ultimo slancio mi ritrovo a torso nudo, mentre la mia t-shirt a righe pende, sgualcita, dalla sua mano destra. Inspira ed espira con un ritmo e una forza ai limiti dell’umano, e solo a un certo punto mi rendo conto di quanto sia vicina al suo viso, e di quanto i suoi occhi siano lucidi, pericolosamente in bilico fra il resistere e il lasciarsi andare.
Il fiume rompe gli argini, e mi ritrovo ad annaspare in quella che è una rapida successione di immagini, di quelle immagini di cui ti restano solo pochi flash, e che la tua mente rimuove quasi automaticamente, quasi volesse rendersene inconsapevole. Quella maglietta profuma di donna. Una donna di cui non so il nome, e di cui, a dirla tutta, il profumo è l’unica cosa che mi resta.
Lo sguardo che segue mi precipita addosso come uno sciame di meteoriti.
«Gary… quando. Dimmi quando.»
Mentre tu facevi il soundcheck delle mie chitarre al posto mio, Nathan.
«Prima… diciamo, poco prima. Le sette, credo. Forse le otto. Non lo so.»
Sono preparato al peggio; eppure non reagisce. Sposta lo sguardo sulla maglietta e allenta immediatamente la presa, come se all’improvviso tutte le finestre del mondo si fossero spalancate su di lui, lasciandolo scoperto nel suo privato quotidiano; ha il volto della vergogna, e sono sicuro che le sue guance non siano così colorite solo per il vino – lo stesso vino che ha cambiato il suo umore infinite volte da quando ha varcato la porta a vetri.
«Non che mi crei problemi», farfuglia, «Ma non voglio che… non voglio che tu finisca nei guai, ecco. Le nostre fan non sono tutte adulte e vaccinate. Cosa succederebbe se…»
Non smette di parlare solo perché la mia mano preme sulla sua bocca, togliendogliene fisicamente la capacità; smette di parlare e basta. E quel silenzio vorrei riempirlo io.
Adesso basta, Nathan. Adesso basta. Sono stanco di sentire scuse. Socchiudo la bocca, ma non ne esce alcun suono; forse ho paura di coprire il rumore del suo respiro.
Non ti è mai interessato che cosa facevo a letto, e non ti riguarda neanche ora. Sfioro il suo braccio con le punte delle dita; sembra, lo giuro, che il tempo si sia fermato, per confluire solo nelle punte delle mie dita.
Quand’è che mi dirai la verità? Quand’è che smetterai di ostentare e fingere? La pelle della sua nuca sussulta nel collidere con le mie labbra, e Dio solo sa quanto è dolce il suo sapore; le sue braccia sono i tasselli mancanti delle pieghe della mia schiena, le sue dita s’incastrano perfettamente nei miei ricci, la sua bocca cerca la mia come se fosse il nutrimento, l’acqua, l’unica cosa di cui ha bisogno per vivere. Vivi, Nathan. Vivi.

Amare non significa necessariamente trovare pezzi di sé.
Non necessariamente, ma a volte sì.

  
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