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Autore: SidRevo    04/11/2011    9 recensioni
Trecentosettanta miglia e un anno e mezzo a dividerli...
Quando il tempo – per quanto sia “solo tempo” – riesce solo a ferire, invece che rimettere le cose al loro posto; quando due persone, in quel loro ostinarsi a complicare le cose, nascondono l’innata capacità di ritrovarsi sempre e comunque, e la facilità con cui sanno rincontrarsi senza smettere mai di amarsi; quando si tratta di Brian e Justin.
Tratto dal capitolo: “«Se ci muoviamo, per le…nove di questa sera saremo lì!»
«Jace, sono stanco.» ribadì, ma l'altro non si arrese.
«D’accordo, allora domani!»
«Quale parte del ‘non verrò a Pittsburgh’ non ti è chiara?» domandò, e mai come allora ebbe l’impressione di sentirsi parlare esattamente come Brian.
«Oh, tu verrai. Verrai eccome!» sorrise sornione, come se avesse già vinto; e Justin non poteva neanche lontanamente immaginare quanto fosse vicino alla realtà dei fatti.”

So che è l'ennesima “sesta stagione” che viene pubblicata, ma ho voluto provare a dare una mia versione, visto che non ho altro modo per esorcizzare la mancanza di questo superbo telefilm! Spero vi piaccia!
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro Personaggio, Brian Kinney, Justin Taylor, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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11.Old routine.


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6x11 – Old routine.



«È davvero un piacere conoscere di persona un talento come lei, signor Taylor!»
Quelle parole arrivarono a Justin come un eco lontano, ma in qualche modo riuscirono a riportarlo alla realtà. Abbandonò i propri pensieri – che da molti giorni ormai avevano sempre lo stesso nome e lo stesso bellissimo volto – e si costrinse a prestare attenzione allo sconosciuto che gli sostava davanti e gli sorrideva entusiasta.
Impose alle proprie labbra di piegarsi in un sorriso pressoché credibile e strinse la mano che gli era stata porta. «La ringrazio.» si limitò a rispondere poi, biascicando le parole, ormai troppo stanco anche per pensarne altre.
Non riusciva a fingere così bene; non quando ogni suoi pensiero era totalmente catalizzato a miglia e miglia di distanza, mentre la sua speranza era riposta in un cellulare che non squillava. O meglio, squillava anche troppo, ma non mostrava mai sul display l’unico nome che avrebbe voluto vedere.
Da quando se n’era andato, il silenzio era tornato a dividere lui e Brian come un muro invalicabile. Né lui era riuscito a chiamarlo, né l’altro l’aveva mai fatto.
Un soffocante silenzio che era andato ad unirsi al senso di vuoto in cui si sentiva sprofondare lentamente ogni giorno di più, come se la mancanza dell’uomo che amava lo stesse snaturando; come se gli stesse togliendo tutto.
Si sentiva sempre più stanco, a malapena si riconosceva; eppure la speranza di poter tornare al più presto alla sua città natale non si era mai affievolita.
Era solo quella che lo spingeva ad andare avanti; a riprendere in mano i propri pennelli ogni giorno, a colorare le tele e presenziare a tutti quegli stupidi eventi a cui Gary lo costringeva a partecipare.
Non era quello che desiderava per sé, ma il suo sogno e la voglia di non deludere nessuna delle persone che avevano sempre creduto in lui – Brian in primis – lo spingevano ad andare avanti e a desistere dal mandare tutto all’aria.
Era sempre stato un tipo caparbio, anche nelle situazioni che sembravano esser impossibili da superare. Non si era mai arreso; non si era mai dato per vinto, e alla fine il premio più grande non era stato tanto l’aver ottenuto il risultato, quanto vedere il sorriso e una luce orgogliosa negli occhi di coloro che per lui contavano di più.
Era soprattutto per loro che stringeva i denti e sopportava, proprio come in quel momento: un pomeriggio che avrebbe preferito passare ovunque, meno che lì, in mezzo a centinaia di sconosciuti con cui era costretto ad intrattenersi, tra Jace che gli lanciava occhiate insofferenti e Gary che lo controllava a vista.
Si passò una mano tra i capelli e fece un cenno di saluto allo stesso – sconosciuto – signore distinto con cui aveva appena intrattenuto non sapeva neanche che tipo di conversazione. Si stropicciò gli occhi che sentiva bruciare, sotto le palpebre che si facevano sempre più pesanti e sospirò stancamente, finché non si rese conto delle occhiate contrariate che Jace gli stava lanciando.
«Credi di poter tenere gli occhi aperti...» gli domandò proprio lui, assottigliando lo sguardo. «...o devo procurarmi un pennarello per disegnarteli sulle palpebre?»
Justin sorrise fievolmente e si stiracchiò un poco. «Sono solo un po stanco.»
«Uhhhm. Grazie per l
informazione, Taylor. Non se ne sarebbe accorto nessuno. Un vero maestro nel nascondere le cose.» commentò laltro con sarcasmo.
«Non ho dormito molto stanotte.»
«Lo so bene. E grazie a te non sto dormendo neanche io!» ribatté Jace, con un tono sempre più acido, atto a nascondere la reale preoccupazione che da giorni lo assillava. «Tu e i tuoi stramaledetti barattoli di vernice che sbatacchi ovunque. Al piano di sotto cè gente che vuole dormire, nel caso tu non lo sapessi.» incrociò le braccia al petto e continuò la sua filippica, nonostante fosse nato nella sua testa il sospetto che il bellartista non lo stesse più ascoltando. «E giuro che ti chiederò i danni se mi verranno le occhiaie e...Justin, mi stai ascoltando?»
Ormai perso tra stanchezza e nostalgia di casa, Justin fu colto di sorpresa dal tono improvvisamente alto dell’altro, e si scosse spalancando gli occhi. «Eh? Sì, certo.»
«Non ti prendo a sberle solo perché ho intenzione di chiamare Debbie.» sospirò Jace, scuotendo la testa con rassegnazione. «Ci penserà lei per me.»
«Non oseresti...» tentò di minacciarlo il ragazzo, ma la voce gli uscì più fievole del previsto. Era davvero a pezzi.
«E allora dormi la notte, invece di fare il pazzo!» riprese a rimproverarlo, per poi passargli un braccio sulle spalle. «E adesso andiamo a far imbambolare qualche riccone con le tue opere.»
Justin gli sorrise con gratitudine, consapevole di quanto dietro a quei rimproveri o alle critiche si nascondesse in realtà pura preoccupazione, dettata da quella sorta di affetto fraterno che caratterizzava la loro solida amicizia. Circondò la vita di Jace con un braccio e, facendosi forza, si apprestò a ravvivare il sorriso sulle sue labbra e a perdersi in altre chiacchiere con chi sa ancora quanti sconosciuti e probabili compratori, sforzandosi di distogliere i propri pensieri da quel cellulare che si ostinava a giacere immobile nella sua tasca.



*'*'*



A trecentosettanta miglia di distanza anche qualcun altro si prodigava nel rigirare tra le proprie mani il cordless del lussuoso ufficio in cui era rinchiuso da ore.
Brian osservò i tasti attentamente, arricciando le proprie labbra in una continua battaglia con se stesso; indeciso tra premerli ed avviare quella dannata telefonata o meno.
Fece per scostare il pollice sul primo numero quando, dopo aver dato una fugace occhiata all’orologio, si decise a riporre il cordless sulla propria piattaforma con uno sbuffo scocciato e a lasciarsi sprofondare contro lo schienale della poltrona in pelle scura.
Incrociò le mani in grembo, dandosi mentalmente dell’idiota – perché mai, Brian Kinney, si era ridotto così, alla stregua di una patetica checca, prima di quel famoso incontro con il suo raggio di sole – e piantò gli occhi verso il soffitto, fino a quando non riuscì a scorgere con la coda dell’occhio due presenze familiari che sostavano in modo ridicolo sulla soglia, stringendo dei fascicoli tra le mani.
«Sareste così gentili da spiegarmi che cazzo ci fate impalati lì come due idioti?» borbottò acido, fulminando sia Cynthia che Ted con lo sguardo.
«Controllavamo il campo di battaglia.» rispose il suo contabile, passando gli occhi in ogni angolo dell’ufficio, prima di dare una gomitata a Cynthia. «Ad esempio, quel tagliacarte è piuttosto inquietante.»
Brian aggrottò immediatamente la fronte, contrariato. «Dico, vi ha dato di volta il cervello?»
«Anche la lampada è considerata un oggetto contundente, no?» mugugnò però Cynthia, ignorando completamente il proprio capo e continuando il suo strano scambio di opinioni con Ted.
«Se è per questo potrebbe lanciarci dietro anche lo schermo del pc.» ribatté l’altro, già impaurito dalle sue fantasie, quando Cynthia sospirò con fare teatrale e gli diede una pacca sulla spalla.
«Coraggio Ted, è per una buona causa.»
«Sappi che ti ho voluto bene.» ribatté lui, continuando a non prestare attenzione a Brian, la cui espressione si stava facendo sempre più livida di rabbia.
«Anchio.» annuì la donna, con unespressione affranta. «Anche se ti ostini ad indossare quei boxer orrendi.»
«Ehi, ma...» provò a protestare Ted, aggrottando la fronte, ma la voce innervosita del Boss echeggiò in tutto lo spazioso ufficio.
«Si può sapere che cazzo vi prende?!»
Cynthia sobbalzò ed artigliò le mani con forza al braccio del collega. «Ecco si è arrabbiato.»
«Non solo, vi licenzierò anche seduta stante se non mi dite immediatamente cosa cazzo sta passando nelle vostre teste marce.»
«Secondo te morde?» provò a sussurrare il contabile, ma non lo fece abbastanza piano perché Brian non lo sentisse.
«Theodore...» sibilò infatti, assottigliando lo sguardo e lasciando presagire che se non avesse ricevuto immediatamente una risposta soddisfacente, avrebbero di certo passato un bruttissimo quarto d’ora.
«È solo che...» tentò allora l’altro uomo, sbrodolando le proprie parole con estrema cautela. «...avevamo solo paura ad entrare qui, ecco.»
«Sì, insomma...» intervenne Cynthia, con la sua proverbiale mancanza di tatto. «...Justin se nè andato e tu sei diventato intrattabile!»
Con quella scomoda verità, gli occhi di Brian divennero immediatamente due pozzi scuri di rabbia; tanto penetranti e pungenti che entrambi i suoi dipendenti indietreggiarono di un passo, spaventati dalla possibilità di essere inceneriti sul posto. «Vi do cinque secondi per portare il vostro culo lontano da qui.» sibilò Brian, scandendo bene ognuna di quelle parole.
«Te lavevo detto che si sarebbe incazzato!» esclamò la donna, spingendo Ted verso il corridoio per sfuggire a quellira.
«Cynthia!» tuonò subito dopo Brian, facendola sussultare ancora.
«Eccomi!»
«Le cartelle che avevate in mano.»
La donna titubò per un attimo sul da farsi, finché non si decise a poggiare quelle stesse cartelle su un tavolo dell’ufficio, restando a debita distanza dalla scrivania. «Eccole.»
«Ma che cazzo ti dice il cervello?! Portale qui!» sbottò nuovamente lui, digrignando i denti.
«Non ho marito, né figli...» mugugnò lei, stringendosi i fascicoli colorati al petto.
«E mi auguro per loro che non li avrai mai.»
«...ma sono comunque troppo giovane per morire.»
Brian sollevò una delle sopracciglia. «Su questo potremmo discutere.»
«Ma proprio tu parl...» si azzardò a ribattere lei, punta sul vivo e nuovamente combattiva così come era sempre stata, almeno fino a quando non si accorse dell’espressione visibilmente stizzita sul volto del proprio capo. «...ok...lascio le cartelle e me ne vado, ho capito.»
«Ottimo.» sentenziò lui, per poi richiamarla: «Ah, Cynthia...chiamami Theodore.»
Lei annuì immediatamente, per poi affrettarsi ad uscire dall’ufficio.
Brian tornò a rilassarsi sulla propria poltrona, massaggiandosi la radice del naso con l’indice ed il pollice, prima che quella ritrovata quiete fosse interrotta dalla voce di Ted. «Eccomi, volevi dirmi qualcosa?»
«Entra e chiudi la porta.» sbuffò, accarezzandosi distrattamente la fronte con un dito.
«Mi devo preoccupare?»
«Fa come ti dico e chiudi quella cazzo di porta!» sbottò allora Brian, sollevando gli occhi al cielo con esasperazione.
«Ok, ok.» si affrettò a rispondere il contabile, per poi eseguire l
ordine ed avvicinarsi alla scrivania al cenno del pubblicitario. «Allora? Che...che cè?»
«È tutto ok?» chiese semplicemente l
altro, sospirando appena le parole.
«Oh, sì. Hanno telefonato quelli della Brow Athletics e con il pagamento è tutto in regola come previsto, mentre quelli della...»
«Non stavo parlando di lavoro. Stavo parlando di te.» lo interruppe, lasciandolo interdetto, prima di puntualizzare. «Di te e Blake.»
Ted si soffermò a fissare il proprio capo con uno sguardo a metà tra il sorpreso e lo scettico. «Mi stai davvero chiedendo come vanno i miei problemi sentimentali?» domandò poi, ma nel momento in cui vide quegli occhi verde petrolio roteare nuovamente, sollevò le mani in segno di resa. «Ok, ok. Be, a dire il vero non so neanche io cosa risponderti. La verità è che non lo so. Cerco di non pensarci e non abbiamo ancora parlato...»
«Hai bisogno di qualche giorno di riposo?» si affrettò a chiedere, così da portare al termine quella confessione che sembrava prolungarsi più del dovuto; o meglio, più di quello che Brian fosse capace di sopportare.
Sapeva bene che Ted era quel tipo di persona che non si stanca mai di lamentarsi di tutti i suoi problemi, ed aveva perfino iniziato a pensare che tutte quelle “condivisioni” a cui aveva partecipato durante la sua disintossicazione, l’avessero anche peggiorato...eppure, nonostante la sua petulanza ed il suo essere sempre così melodrammatico – quasi ai livelli della regina del dramma, Michael Novotny – rappresentava senza ombra di dubbio un membro fondamentale e completamente affidabile della Kinnetik, nonché – per quanto gli costasse ammetterlo – un vero amico.
Era per questo motivo che gli aveva porto quella domanda.
Era il suo modo per chiedergli se avesse bisogno o meno di aiuto, o se avesse solo bisogno di tempo per sé e per pensare.
«No, figurati.» gli rispose però Ted, con un mezzo sorriso di gratitudine.
«Ted...ricordi? Se fai qualche casino, io ti uccido.» puntualizzò immediatamente, così da poter nascondere le reali motivazioni di quell’interessamento dietro la propria preziosa agenzia.
«Lo so, e so di quel che parlo. Non ti metterei mai in qualche guaio.» lo rassicurò l’altro, fingendo di credere a quella scusa. «Il lavoro mi aiuta a stare meglio e non pensarci.»
«Dovrai affrontarlo prima o poi.»
«Anche tu.»
Brian restò interdetto per qualche secondo da quella risposta, finché non vide nel sorriso amichevole di Ted la risposta al suo interrogativo. Come era ovvio che fosse, si stava riferendo a Justin.
Consapevole di questo, trattenne a stento uno sbuffo e mise su la sua classica faccia di bronzo, dietro cui nascondeva ogni sentimento, preoccupazione o pensiero, e finse di non aver capito: «Anche io, cosa
«Non l
hai ancora chiamato, vero?» chiese allora Ted, in tono retorico. «E non fare quella faccia. Sai benissimo di chi stiamo parlando.»
Gli occhi verde scuro rotearono ancora in un
espressione scocciata, così da darsi il tempo per trovare una via di fuga: «I file dellIconic sono pronti?» tentò allora, sviando il discorso, ma dopo tutti quegli anni insieme era ovvio che non gli avrebbe creduto.
«Senti, se non vuoi parlarne con me, va bene...ma dammi retta per una volta: chiamalo. Sono certo che ne ha bisogno.»
«Theodore...» sibilò Brian minaccioso, ed il contabile sollevò entrambe le mani.
«Sì, sì. Te li faccio avere sulla scrivania tra due ore.»
«Unora. Al massimo.» rettificò il pubblicitario con un sorriso sadico sulle labbra.
«È sempre un piacere lavorare per te.» ribatté Ted con un tono acido, proseguendo poi col borbottare qualcosa di incomprensibile mentre raggiungeva la porta e la richiudeva alle proprie spalle, lasciando Brian nuovamente immerso nel silenzio del proprio ufficio, affiancato dal rumore odioso ed assordante di tutti i suoi pensieri insistenti.


“Delicate” – Damien Rice


Dopo qualche minuto trascorso da solo, Brian non era ancora riuscito a cancellare le parole di Ted dalla propria mente. Per quanto tentasse di concentrarsi su altro, qualsiasi cosa sembrava ricordargliele ed amplificarle fino a farle diventare così insistenti da risultare fastidiose.
Con uno sbuffo prese a giocherellare con la preziosa stilografica nera ticchettandola sulle proprie morbide labbra, mentre i suoi occhi si fissarono nel vuoto, finché la mano libera, probabilmente mossa da quella martellante sensazione divenuta insostenibile, raggiunse il cordless e premette in modo frenetico tutti i numeri di quella sequenza così familiare, ed un suono cadenzato raggiunse le sue orecchie, seguito da un rumore secco.
Aveva risposto.
«Brian.»
Nel sentire il suo nome pronunciato da quella voce il suo cuore ebbe un sussulto, prima di cominciare a pompare come un pazzo, come se avesse appena corso una maratona. Sentì il fiato venirgli meno, mentre la mano prese inspiegabilmente a tremare, eppure in qualche angolo profondo di sé, trovò la forza di parlare: «Ehi...» biascicò appena, per poi schiarirsi la voce. «...come...come procede nella Grande Mela?»
Il silenzio che seguì quella domanda non durò che qualche secondo, ma a Brian parvero ore, a causa della paura che lo attanagliava ogni volta, quando Justin era lontano da lui. La paura che prima o poi potesse dimenticarlo e cancellare tutto quello che avevano vissuto.
Respirò a fondo, stringendo con più forza le dita sul cordless, finché tutti i suoi timori vennero immediatamente dissipati dalla voce del suo piccolo e bellissimo artista che, con un filo di voce tremante, confessò candidamente: «Mi manchi.»
A quelle parole un lieve sorriso spuntò sul viso di Brian, dopo di che tornò a rilassarsi sulla poltrona e a chiudere gli occhi immaginando che Justin fosse ancora lì al suo fianco.
In fondo laveva sempre saputo che quel ragazzino impertinente era sempre stato molto più bravo di lui ad esprimere i propri sentimenti e, a dirla tutta, se era arrivato ad esserne capace lui stesso, lo doveva solo e soltanto a Justin e alla pazienza con cui glielo aveva insegnato.
Ogni volta, con una semplicità disarmante, Justin trovava il modo di dirgli le parole che aveva bisogno di sentirsi dire, come se inconsapevolmente potesse capire anche a distanza ogni sua preoccupazione; e si sentiva perfino patetico per questo, ma gli capitava di pensare che certe cose accadessero semplicemente perché quel moccioso luminoso come il sole...fosse stato creato apposta per lui.
«Va tutto bene, raggio di sole.» sussurrò lentamente, con il cuore più leggero, nonostante la nostalgia di lui.
«Torno presto.» rispose Justin, azzeccando ancora le parole esatte.
«Lo so.» sussurrò Brian con dolcezza, prima di schiarirsi nuovamente la voce ed assumere un tono più autoritario. «Ora però torna a lavoro.»
«Ok...ma tu non guadagnare troppo, eh.» gli rispose semplicemente e, nel momento in cui lo sentì ridere, seppur in modo appena accennato, Brian si sentì riempire di calore, quasi fino ad esplodere.
«Nah! Giusto qualche milione.»
Justin rise ancora, e il bel pubblicitario provò il desiderio di non separarsi più da quel telefono, così da poter sentire ancora quella risata cristallina che riusciva a fargli tremare il cuore.
Gli impegni di entrambi però non avrebbero permesso una cosa del genere; e Brian se ne rese conto nel momento in cui la spia rossa sulla piattaforma del cordless prese a lampeggiare, informandolo di un’altra chiamata posta in attesa. «Devo andare anch’io.» si sforzò di dire allora, e sentì Justin annuire.
«Ti amo.» gli confessò poi, sempre con la sua proverbiale semplicità, per cui Brian non poté far altro che sorridere e sentirsi davvero leggero. «Ciao.»
Qualche altro secondo di silenzio ed il suono acuto della chiamata che veniva interrotta lo raggiunse, lasciandogli una piccola fitta di malinconia a bruciare nel petto.
Brian si morse delicatamente le labbra e riaprì gli occhi, tornando a quella realtà in cui Justin era troppo lontano perché lui potesse ricambiare quelle sue parole con un bacio, uno sguardo o un abbraccio.
Prese un respiro profondo e, aprendo il primo cassetto della scrivania, gettò un lungo sguardo a quella foto che custodiva gelosamente all’insaputa di tutti.
Erano semplicemente loro due, in una delle tante cene a casa di Debbie; una sera come un’altra, ma allo stesso tempo speciale perché erano felici.
Per un attimo, Brian provò una sciocca invidia per “quel se stesso” che ancora aveva la possibilità di stringersi a quel corpo filiforme, abbracciandolo da dietro e respirando il profumo di quei capelli biondissimi.
Sorrise del modo in cui in quell’immagine stringeva a sé Justin, neanche avesse il bisogno di rimarcare che si appartenevano, nonostante il fatto che tra loro non fossero mai esistiti catene o “lucchetti alle porte”.
Si passò la lingua sulle labbra ed attardò ancora lo sguardo sul sorriso del suo raggio di sole, accecante così come era sempre stato; o forse anche di più, perché come tutti gli ricordavano sempre, Justin sorrideva maggiormente quando si trattava di loro due.
Il tempo di un ultimo sospiro, e finalmente si decise a separarsi da quella foto, non senza prima aver sussurrato quelle maledette parole che gli esplodevano dentro, ma che ogni volta gli si incagliavano nella gola: «Ti amo anch’io.»



*'*'*



«Sono a casa!» esclamò Melanie mentre rincasava dal lavoro, facendo echeggiare la propria voce per tutto l’ingresso. Si tolse il cappotto, rabbrividendo per colpa dello sbalzo termico tra la sua accogliente casa ed il gelo di Toronto, e raggiunse la cucina con la fronte aggrottata per non aver ricevuto risposta.
Si passò una mano tra i capelli che portava ancora corti, sempre più interdetta, finché notò il post-it giallo lasciatole da Linz attaccato allo sportello del frigorifero.


Sono fuori con JR. Torno presto. Gus ha fatto i capricci come al solito ed è rimasto in camera sua, vedi di parlarci tu. Ti amo. L.”


Con gli occhi ancora incantati sul foglietto, Melanie si ritrovò a sospirare.
Da quando erano rientrate a Toronto, Gus non le aveva ancora perdonate per averlo nuovamente allontanato da Pittsburgh, ma soprattutto da suo padre.
Era sempre stato difficile gestire la mancanza che il bambino manifestava nei confronti di Brian, ma in un modo o nell’altro erano sempre riuscite a fargli tornare il sorriso sulle labbra e, anche se di tanto in tanto riprendeva a piangere o a fare i capricci, almeno erano solo brevi episodi separati l’uno dall’altro, e non uno continuo che sembrava non voler arrivare ad una fine.
Andava a scuola malvolentieri, non rivolgeva la parola a nessuna delle sue mamme se non per lo stretto necessario mantenendo sempre il suo broncio e, cosa peggiore, terminava ogni telefonata con Brian con un pianto disperato in cui lo pregava di andarlo a prendere insieme a Justin e di tenerlo a Pittsburgh con sé.
Sia lei che Linz erano arrivate al punto in cui non sapevano più dove mettere le mani, e neanche le parole che Brian rivolgeva al bimbo – e che di solito riuscivano a calmarlo – sembravano essere poi più così convincenti.
Con uno sbuffò scocciato, Melanie accartocciò il post-it per poi gettarlo, prima di salire le scale e raggiungere la stanza del bambino. Aprì la porta e lo trovò come sempre immerso tra i disegni, solo che quella volta non aveva i pastelli in mano, bensì il cordless e l’agenda di Linz. «Tesoro che stai facendo?» domandò allora, facendolo sobbalzare.
«Niente.» si affrettò a rispondere lui, cercando di nascondere l’agenda dietro di sé.
Melanie gli si avvicinò e gli occhioni verdi di Gus si inondarono di paura e nervosismo. «Che ci fai con l’agenda della mamma?» chiese con un tono contrariato e incrociando le braccia al petto. «Quante volte ti abbiamo detto di non prenderla?» proseguì nella sua filippica, ma il bambino non sembrava disposto ad ascoltarla. «Gus, guardami e dimmi che stavi facendo.»
«Cercavo il numero di Justin.» borbottò lui sommessamente, resosi conto che la pazienza di “Mamma Mel” stava venendo meno.
«Di Justin? E perché?»
«Perché voglio andare a da lui. Se voi non volete portarmi da papà, allora io vado da lui.» rispose deciso, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime rabbiose.
«Gus ma che stai dicendo?»
Il bambino tirò su con il naso e strinse con più forza il cordless al petto, quasi temesse che glielo portasse via. «Io non ci voglio stare qui.»
«Amore, non puoi chiamare Justin per queste cose. Lui non può portarti con sé e poi te l’abbiamo già detto tante volte che faresti arrabbiare papà.»
«Ma perché?» piagnucolò lui, con il labbro inferiore che tremava e le guance rigate dalle lacrime. «Papà mi lasciava sempre stare con lui.»
«Perché non vuole che nessuno lo disturbi mentre lavora. Justin deve dipingere, non deve essere distratto.»
«Anch’io faccio i disegni e Jenny viene sempre a darmi noia!»
Melanie si lasciò sfuggire una piccola risata. «Non è la stessa cosa, tesoro. E poi pensaci, se a te da noia che qualcuno venga a disturbarti mentre disegni, non pensi sia lo stesso anche per Justin?»
Gus abbassò lo sguardo dispiaciuto e gonfiò le guance. «Ma io e lui possiamo disegnare insieme.»
«Quando siete a casa di tuo padre.»
«Infatti, io voglio tornare a Pittsburgh da papà e Justin!»
«Tesoro...» sussurrò lei, accarezzandolo sulla testa con dolcezza. «...ma Justin non è a Pittsburgh.»
«E perché?» domandò immediatamente lui, sorpreso da quella notizia. «Papà è più felice quando c’è Justin.»
Melanie sorrise a quelle parole, trovandole così vere. Perfino un bambino che non sapeva niente dell’amore era riuscito a vedere quanto Brian fosse diverso dal momento in cui Justin era al suo fianco. «Lo sappiamo.» convenne allora, mentre il suo sorriso diveniva più triste. «Ma come tutti ha anche lui degli impegni. Lui è tornato a New York.»
Il bambino restò in silenzio per qualche secondo, visibilmente scombussolato da quella notizia, mentre nella sua testa avanzava un’ipotesi che poi tramutò candidamente in parole: «E allora papà sarà triste senza Justin, quindi io devo stare con lui.»
«Gus, ascoltami...»
«No, io devo andare da papà!» esclamò, stavolta con preoccupazione; ed il cuore di Melanie venne stretto da una morsa nel notare come – anche se in modo diverso – perfino in questo Gus somigliasse a Brian. Anche suo padre aveva il “vizio” di occuparsi dei problemi di tutti, seppur lo facesse nell’anonimato, non l’avrebbe mai ammesso e soprattutto la considerasse quasi un’offesa se qualcuno glielo faceva notare.
«Tesoro, torneremo presto a Pittsburgh. Neanche una settimana e saremo lì.» provò a rabbonirlo, ma quel piccolo broncio sembrava non voler abbandonare il volto del figlio. «E poi non ti dispiacerebbe lasciare i tuoi amichetti a scuola?»
«No! Voglio papà e Justin!» replicò lui, sempre più deciso. «Gli amici ce li avevo anche a Pittsburgh!»
Un altro sospiro di rassegnazione uscì dalle labbra di Melanie finché, scuotendo la testa, si ritrovò a fare l’impensabile per un’inguaribile ed agguerrita orgogliosa come lei. «Passami il cordless.»
«Perché?» domandò il bambino.
«Devo fare una telefonata importante.»
Gus la guardò storta per qualche istante, fino a che non si decise a darglielo, seppur con uno sbuffo contrariato.
Melanie lo baciò frettolosamente sulla fronte e, componendo un numero quasi con disgusto, si allontanò di un poco verso il corridoio. Pochi secondi ed una voce profonda e familiare, quanto irritante, la raggiunse dall’altra parte del telefono. «Pronto?»
«Non hai idea di quanto mi sia costato fare questo numero, perciò vedi di non fare lo stronzo.»
Per qualche secondo ci fu solo silenzio, poi Brian si decise a pronunciare il suo nome con una buona dose di contrariata sorpresa: «Melanie?»
«Già.» replicò secca lei. Ancora non poteva credere di aver realmente chiamato lui per chiedergli aiuto. «Non m’importa quale importantissimo contratto milionario tu stia seguendo o con chissà quale cliente altrettanto milionario tu sia, perché tuo figlio ha una crisi isterica peggiore del solito e...»
«Passamelo.» la interruppe, con tono sicuro.
«Eh?» replicò lei sorpresa, e dall’altra parte riuscì a percepire distintamente uno sbuffo scocciato.
«Sei diventata improvvisamente sorda? Ho detto passamelo
«Pensavo ci volesse di più per convincerti.» rispose, dando voce ai suoi pensieri. Era partita col piede di guerra, pensando che avrebbe dovuto superare una delle loro solite discussioni per convincerlo a lasciar perdere la Kinnetik per occuparsi di suo figlio, ma evidentemente aveva sbagliato i propri calcoli.
«È mio figlio, Melanie.» ribatté lui, con una semplicità così disarmante che non ebbe bisogno di altre spiegazioni. Magari Brian all’inizio non era stato proprio come il padre dell’anno, ma per quanto le costasse ammetterlo, col tempo, anche grazie a Justin e a tutte le difficoltà che insieme erano riusciti a superare, Brian si era trasformato in un padre decisamente migliore, che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di veder sorridere quella sua fotocopia in miniatura che era il figlio.
Da quando aveva imparato ad amare e a lasciarsi amare; da quando la parola “famiglia” non gli suonava poi così tanto disgustosa, Brian Kinney era diventato davvero un buon padre per Gus; o almeno lo era per quello che la lontananza gli permetteva di essere.
«Lo so.» rispose allora lei, lanciando un’occhiata al bambino che aveva ripreso a disegnare e sentendosi realmente in colpa per la prima volta, come se con il suo comportamento non solo avesse ferito Gus, ma anche Brian impedendogli di essere padre, così come avrebbe voluto. Si morse ancora le labbra e, rivolgendosi a suo figlio, disse con un sorriso: «Gus, vieni qui. C’è papà a telefono.»
Gli occhioni verde scuro del bambino si spalancarono di sorpresa, prima che un sorriso splendido gli illuminasse il viso e le corresse incontro felice, saltellando per prendere il cordless. «Passamelo, passamelo!»
Con un nodo alla gola, la donna gli porse il ricevitore. «Tieni.»
«Papà!» esclamò Gus entusiasta, per poi tornare nella sua stanza e lanciarsi sul letto.
Melanie si avvicinò alla soglia di qualche passo, per poi appoggiarsi allo stipite della porta e respirare a fondo, così da lasciar dissipare quella strana sensazione annodata dentro di sé.
Vedere come quel broncio fosse scomparso immediatamente nel momento in cui il suo bambino aveva sentito la voce di suo padre, la portò a pensare alle proprie scelte, così come alla discussione avuta giorni prima con Brian. Le sue parole tornarono pungenti a rimbalzarle in testa, ed il tarlo del dubbio le si insinuò sempre più a fondo, facendole capire che forse, quella vita a Toronto, era la soluzione più sicura, ma non quella che li avrebbe resi tutti davvero felici.



*'*'*



Guardandosi al grande specchio di quella che era la sua nuova bellissima casa da circa due anni ormai, James Hunter Bruckner Novotny sorrise soddisfatto al suo riflesso.
Finalmente era riuscito a superare anche quell’ostico esame che aveva interrotto la sua sequenza di risultati positivi, e si sentiva trasformato. Era fiero di quello che era diventato, e lo era anche del fatto che finalmente stava davvero riuscendo a ripagare tutti gli sforzi compiuti dai suoi genitori adottivi per allontanarlo dalla strada.
Se qualche anno fa avessero detto a James Hunter Montgomery che la sua vita sarebbe cambiata a tal punto, probabilmente si sarebbe fatto una grossa – e amara – risata, prima di tornare sul bordo del marciapiede nel tentativo di trovare qualcuno disposto ad accettare le sue prestazioni in cambio di qualche centone.
Invece, a dispetto di tutte le sue previsioni, la vita che per prima gli aveva negato l’amore genitoriale, era stata capace di restituirglielo perfino con gli interessi, dandogli la possibilità di incontrare due persone come Ben e Michael che, per quanto a volte fossero apprensivi o terribilmente noiosi, erano pur sempre la sua famiglia e lo amavano davvero.
Insomma, in fin dei conti aveva una vera famiglia che, seppur decisamente fuori dalle righe, lo amava; degli amici che tenevano sinceramente a lui e finalmente perfino una vera istruzione che in fin dei conti gli piaceva e anche tanto.
Sarebbe potuta essere una vita perfetta, se solo non fosse stato per quella singola macchiolina nera, eredità del suo passato, che continuava a portarsi dentro e che non l’avrebbe abbandonato mai.
Nonostante i controlli a cui si sottoponeva con Ben risultassero sempre positivi, e che la sua carica virale fosse realmente bassa, quelle tre lettere messe in fila lo spaventavano ancora a morte.
L’HIV continuava ad essere un incubo presente nella sua vita; tanto reale e così spaventoso che spesso si ritrovava a svegliarsi di soprassalto la notte.
Gli capitava di sognare quel virus maledetto – quella pena che avrebbe dovuto scontare per tutta la vita – soprattutto nei periodi in cui aspettava i risultati degli esami medici. Sognava l’arrivo di quella “bestia” – così come la chiamava lui – a portargli via prima Ben, per poi tornare in seguito anche per lui. Sognava perfino la sofferenza di Michael rimasto solo e sentiva addosso l’impotenza di non poter fare niente per lui; per dargli un po’ di conforto.
Erano quelli i momenti in cui le cose sembravano prendere una brutta piega, poiché inevitabilmente i suoi pensieri andavano anche ai figli che non avrebbe mai potuto avere, e forse anche all’amore che non avrebbe mai trovato, perché temeva che nessuno si sarebbe potuto innamorare di un infettato.
Quando quella parola balenò nella sua mente, Hunter strinse le mani al lavabo e scosse la testa come per volerla scacciare, prima di aprire il rubinetto con un gesto secco e sciacquarsi la faccia.
«Ehi dormiglione, non sei ancora pronto?» la voce di Ben lo sorprese facendolo scattare. Afferrò l’asciugamano con gli occhi mezzi chiusi e si tamponò il viso, prima di lanciargli un’occhiata furba, cancellando definitivamente ogni pensiero negativo o preoccupazione, così da non mettere in allerta i propri genitori.
«Potrei partire da casa anche mezz’ora dopo di te. Arriverei comunque prima, caro il mio vecchietto.»
Ben sorrise ed incrociò le braccia. «Accidenti, siamo già in vena di battutine a quest’ora e a stomaco vuoto?»
«Proprio perché sono a stomaco vuoto, sono in vena di battutine acide.» ribatté Hunter, lanciandogli in faccia l’asciugamano appena usato, per poi dirigersi verso la propria stanza.
«Ehi...che ti costava metterlo al suo posto?» tentò di rimproverarlo il padre, ma era ancora troppo felice del risultato del suo ultimo esame per arrabbiarsi con lui.
Consapevole di questo, Hunter gli rivolse una falsa smorfia annoiata. «Smetterai mai di lamentarti per tutto? Stai diventando peggio di tuo marito, lo sai?»
«Cosa avrei fatto io?» intervenne l’altro padre chiamato in causa, salendo le scale con in mano la cesta dei panni.
«Ecco l’altro vecchio. Attento a non farti male alla schiena con quella.» ironizzò, indicando con un cenno della testa la pila di panni che stava trasportando. «Sai, alla tua età...»
Michael assottigliò lo sguardo con fare minaccioso. «Moccioso, perché invece di borbottare non lo fai tu?»
«Perché io sono troppo giovane per sprecare il mio tempo con certe cose.» ribatté con un sorrisetto, infilandosi i Jeans e la felpa. «E devo correre a nutrirmi per affrontare una nuova e proficua giornata universitaria per il mio gran bel cervello superiore.»
Gli occhi scuri di Michael rotearono fingendo un’espressione scocciata. In realtà riusciva a malapena a nascondere quanto era fiero di suo figlio e, non appena lui non era nei paraggi, ne approfittava per gongolare come un matto. «Smetterai mai di vantarti per aver superato quell’esame?»
«Considerando il voto che ho preso...» mormorò, arricciando poi le labbra come se ci stesse riflettendo su. «...e nel caso vi fosse sfuggito, vorrei ricordarvi che è stato il massimo.» sorrise, vedendo entrambi i genitori sollevare lo sguardo verso il soffitto, e aggiunse: «E soprattutto visto il fatto che in tutto il nostro corso solo io e Danny ci siamo riusciti...» si soffermò ancora per qualche secondo e concluse ancora con un sorriso spavaldo: «Be’ no, penso proprio che non smetterò mai di ricordavi quale onore è avere un figlio geniale come il sottoscritto.»
«Andiamo Einstein.» sospirò Ben, passandogli un braccio attorno alle spalle. «Vai a fare la tua colazione ipercalorica.»
«È inutile che ci provi.» replicò Hunter, scendendo per primo le scale seguito da entrambi i genitori. «Non riuscirai mai a farmi sentire in colpa per le schifezze che mangio, e soprattutto non riuscirai mai a farmi ingurgitare quella merda salutista che continui a cercare di propinarmi.» raggiunse il tavolo ed afferrò la sua scatola di cereali al cioccolato, versandone una quantità esagerata nella sua ciotola con un sorrisetto quasi sadico. «Grassi saturi, a me!»
Ben sospirò con rassegnazione ed aprì i giornale per controllare le ultime notizie, sorseggiando il suo frullato di un poco invitante verdolino pallido, mentre per Michael iniziò la sua giornaliera guerra per la conquista della scatola di cereali, prima che Hunter riuscisse a terminarla senza lasciargli neanche una briciola.
Ed era proprio questo che Hunter amava di più della sua vita: la quotidianità spensierata delle loro giornate. Le risate con cui iniziavano la mattina, fatta di scherzi idioti e battutine acide; i sorrisi soddisfatti della propria famiglia quando li rendeva fieri di lui e la cena fatta di altrettante risate, scherzi e battute, prima della classica riunione al Liberty Diner, o da Woody’s; e anche se non lo avrebbe mai ammesso, perfino cene e pranzi a casa di nonna Debbie lo rendevano felice.
A quel pensiero, Hunter non riuscì ad impedire alle proprie labbra di distendersi in un sorrisetto divertito e, per quanto tentò di nasconderlo prendendo una nuova cucchiaiata di cereali, ai suoi attenti ed impiccioni genitori non sfuggì affatto. «Che hai da ridacchiare adesso?» chiese infatti Michael che, inutile dirlo, dei suoi due padri era il più petulante curioso.
«Che ti frega?» ribatté lui, mostrando la lingua con una smorfia.
Michael prese uno dei cereali e glielo lanciò contro. «Mi frega dal momento che in quella testolina potresti anche organizzare qualche strana pazzia.»
«Chi? Io?» si finse sconvolto, prima di voltarsi verso l’altro genitore. «Ben, diglielo tu a tuo marito che sono un angioletto.»
«Sì, angioletto.» commentò Ben in risposta con sarcasmo, ripiegando con cura maniacale il giornale. «Vedi di muoverti a finire il tuo pastone o farai tardi.»
Hunter gli rivolse l’ennesima smorfia scocciata e prese l’ultimo boccone di cereali, prima di alzarsi ed andare a lavarsi i denti per poi recuperare il piumino e le chiavi del lucchetto per la bici, ed avviarsi verso la porta con noncuranza.
«Ehi, principino!» lo richiamò Michael con un lieve tono di rimprovero. «Sbaglio o quella è la tua ciotola?»
«Sì...e allora?»
«Pensi che ci vada da sola nel lavabo?»
«No.» rispose con una scrollata di spalle. «Contavo che ce la portassi tu. Esci per ultimo e hai il compito di casalinga in questa casa!»
«Cosa?» domandò sorpreso, cercando con lo sguardo un aiuto da parte del marito, che contrariamente alle sue aspettative, si stava semplicemente sforzando per non ridere. «E da quando sarebbe così?»
«Da quando fai la mamma chioccia!» Hunter gli rivolse un sorriso furbo ed aprì la porta di casa. «Cioè da sempre!»
«Aspetta di tornare a casa stasera, signorino. Te lo faccio vedere io chi è mamma chioccia.»
«Sì, sì...certo. A stasera!» lo liquidò semplicemente, uscendo di casa seguito da Ben e recuperando insieme a lui le biciclette, prima di raggiungere la strada ed inforcarle.
«A che ora pensi di tornare stasera?» gli chiese il padre, affiancandolo.
«Al solito. Finite le lezioni resto con Danny in biblioteca e per cena sono a casa.»
«Uhmmm.» mugugnò l’uomo con un espressione fintamente sorpresa. «Hai deciso di fare proprio sul serio, eh?»
«Perché? Avevi qualche dubbio?»
Ben non gli rispose immediatamente, ma gli rivolse un sorriso benevolo. «No.» gli disse poi. «Certo che no. Nessun dubbio.»
Hunter ricambiò quel sorriso e continuarono a pedalare affiancati, in silenzio ma sereni, finché non giunsero al solito incrocio in cui, come ogni mattina, presero direzioni diverse salutandosi con un altro sorriso.


Giunto ormai in prossimità della propria università, Hunter tornò a sedersi sul sellino e rallentò la corsa per evitare di travolgere qualcuno. Varcò i cancelli e si diresse verso il parcheggio per biciclette dove, come sempre, Danny lo stava aspettando avvolto dalla scia di fumo della sua immancabile sigaretta.
Inchiodò sgommando di lato e scese dalla bicicletta, per poi legarne la ruota con la catena.
«Sei in ritardo.» lo informò immediatamente il ragazzo, prendendo l’ultima boccata di fumo per poi schiacciare il mozzicone a terra.
«Le mie mammine stamattina erano più loquaci del solito.» si scusò Hunter, con un sorriso divertito. Danny in fondo sapeva tutto – davvero tutto – di lui.
Si erano conosciuti per caso nei primi giorni di corso, e ancora per puro caso aveva scoperto che anche lui faceva parte di una “famiglia arcobaleno” – così come la definiva Danny – con la sola differenza che lui aveva due mamme.
Da lì avevano iniziato per gioco a chiamare “mammine” Ben e Hunter, e “papini” le madri di Danny, dopo essersi raccontati aneddoti famigliari in cui avevano constatato quanto paradossalmente i genitori di Hunter – soprattutto Michael – somigliassero più a due chiocce iperprotettive, rispetto all’altra coppia.
Ed era stato proprio il fatto che Danny vivesse una realtà simile alla sua, che aveva spinto Hunter a fidarsi e ad aprirsi piano, piano con lui, fino a trovare anche il coraggio di confessargli del male che albergava nel suo corpo.
Non era stato certo facile, ma era stata come una liberazione e, seppur all’inizio il ragazzo avesse manifestato un’ovvia sorpresa – più per il fatto di esser venuto a conoscenza di ciò che la madre l’aveva costretto a fare, che per l’HIV – aveva finito con lo scrollare le spalle tranquillamente e con un sorriso gli aveva confessato che anche alcuni amici delle loro madri vivevano la medesima situazione, e che comunque non significava che fosse ancora realmente malato, poiché non era affetto da AIDS.
Dopo quella confessione non erano più ritornati sull’argomento, ma senza dirglielo apertamente, Danny si era più volte offerto di accompagnarlo in ospedale durante i controlli, e soprattutto aveva sempre mantenuto il segreto, perfino con la propria famiglia.
Insieme avevano conosciuto tante altre persone e formato un bel gruppetto, di cui faceva parte anche la storica fidanzata dello stesso Danny, ma con nessuno di loro, Hunter, era riuscito ad aprirsi tanto quanto con lui e, anche se contava di riuscirci prima o poi, la realtà che stava vivendo al momento gli andava più che bene.
«I miei papini invece, stamani avevano un diavolo per capello.» ribatté Danny, facendo una smorfia. «Periodo di spese. Quando arrivano le bollette si trasformano in due iene...ed ovviamente la colpa ricade sullo stronzo di turno e sul mio computer che, secondo loro, sta acceso ventiquattr’ore su ventiquattro.»
«Il tuo computer sta acceso ventiquattr’ore su ventiquattro.» puntualizzò Hunter, con ironia, mentre si avviavano verso l’entrata.
«Sì, ma loro non sanno neanche accenderlo, quindi come fanno a saperlo e accusarmi di questo?»
«Fidati di me, quando vogliono incolparti di qualcosa, hanno più risorse di quel che credi!» ribatté sbuffando e ben ricordando a quali assurdi sotterfugi era in grado di ricorrere Michael quando voleva rigirare la frittata a suo favore.
«Sono due serpi.» borbottò Danny in risposta, e fece per aggiungere altro, quando si rese conto che Hunter – come ogni mattina del resto – si era incantato a fissare la struttura della piscina coperta. «Perché non vai e t’iscrivi ai corsi? Eri bravo, no?» gli disse allora, e lo vide scuotersi dai suoi pensieri per voltarsi verso di lui.
«No, non m’importa e poi non vorrei rischiare.» replicò con franchezza e senza il bisogno di spiegazioni, visto che Danny era già a conoscenza dell’episodio del liceo.
«Che io sappia il nuoto non è uno sport di contatto, e quello che ti è successo è stato solo un caso isolato.» si sistemò la tracolla sulla spalla ed ammiccò. «Fossi in te riproverei.»
«Se mi dovessi anche solo tagliare...»
«Dovresti avere la sfiga tremenda di trovare proprio un persona altrettanto sfigata che si è tagliata in quel momento o che ha una ferita aperta...senza contare poi che la piscina non è una pozzanghera. Non infetteresti nessuno, soprattutto perché la tua carica virale è bassa
«Non si può mai sapere se...» ritentò di nuovo, ma Danny lo interruppe ancora una volta.
«Sì che si può. Si chiama statistica
«Le statistiche hanno un margine d’errore.»
Danny roteò gli occhi scocciato. «In una piscina olimpionica dove non è detto che dovrai per forza spargere il tuo sangue come una bistecca ambulante?»
«Non sei divertente.»
«No, infatti. Sono solo realista.» replicò, posandogli una mano sulla spalla per fermarlo. «Ascolta...ogni volta che passiamo di qui è la stessa storia. T’incanti a fissare quella cazzo di piscina. Ti manca nuotare? Vai e torna a gareggiare.»
Hunter sbuffò e riprese a camminare. «Non sono più neanche in forma.»
«Stronzate. Non hai mica ottant’anni! In forma ci puoi sempre tornare e poi vai quasi ogni giorno in palestra e neanche fumi come una ciminiera come me, quindi che problemi hai?»
«Una cosa chiamata HIV.»
«Che non mi pare faccia affondare la gente o impedisca loro di nuotare, giusto?»
Hunter tentò di replicare, ma dopo l’occhiataccia rivoltagli da Danny decise di lasciar perdere. Quel ragazzo era anche più cocciuto di lui. «Ci penserò.» borbottò allora e vide le sopracciglia dell’altro inarcarsi.
«Dici sul serio o mi prendi per il culo per farmi stare zitto?»
«Questo non te lo dico.» sorrise in risposta, ed accelerò il passo salendo i pochi gradini, così da concludere la discussione. Lanciò un’ultima fugace occhiata a quella gigantesca struttura bianca e per un attimo tornò ad immaginare la fresca sensazione dell’acqua che gli scivolava addosso in una bracciata, o l’adrenalina precedente al tuffo dalla piattaforma.
Era inutile negarlo, il nuoto e le gare gli mancavano davvero. Erano state la prima cosa in cui era riuscito a strapparsi una vera soddisfazione e che l’avevano fatto sentire rinato, eppure la brutta storia capitatagli ai tempi del liceo era ancora una ferita fin troppo viva per essere dimenticata o almeno accantonata.
Ogni volta che ripensava a quei bei pomeriggi passati ad allenarsi, tornavano anche le occhiate di disgusto e paura che gli erano state rivolte, neanche fosse stato un appestato.
Non voleva rischiare di rivivere ancora quel momento, e forse, perché questo non si verificasse ancora, doveva davvero dire definitivamente addio al nuoto.



*'*'*


“Sleeping with ghosts” – Placebo



Il Natale era ormai alle porte.
Meno di una settimana lo separava da quella festività e, da quando aveva fatto ritorno nella Grande Mela – soprattutto dopo la breve telefonata ricevuta, che Jace senza alcuna spiegazione, aveva capito essere da parte di Brian – Justin si era rinchiuso nel suo loft tramutandosi in una specie di cyborg eremita che trascorreva le sue giornate a dipingere, fatta eccezione per le occasioni in cui Gary era piombato personalmente a trascinarlo fuori da lì per farlo presenziare a qualche evento.
Per giorni e notti intere, Justin aveva inzuppato tele di colori, sfogando tristezza, rabbia e speranza per riempire quel bianco candido e rigido, dando vita a quello che era stato definito – e accolto con approvazione – dai critici come un nuovo periodo, che manteneva i caratteri cupi del precedente, ma che sembrava poter sfociare in una via duscita, grazie a degli schizzi di colori vivaci che riuscivano a rompere il buio.
Nessuno però era riuscito a spiegarsi il reale motivo di questo cambiamento; nessuno ovviamente tranne Jace, che ben sapeva a cosa era dovuto.
Lui sapeva che quella “via d’uscita” profumata di speranza aveva un nome e un cognome: “Brian Kinney”; sapeva che dal momento in cui, finalmente, le cose tra i due sembravano essersi almeno chiarite – che l’amore, da parte di entrambi, non era mai finito – Justin non pensava ad altro che non fosse l’idea di tornare a farsi stringere da quelle braccia.
Eppure, nonostante quel lieve barlume e quella consapevolezza, Jace proprio non riusciva a togliersi di dosso quella brutta sensazione che gli era nata dentro da quando avevano fatto ritorno nella “Grande Mela”.
Non riusciva ad essere ottimista come Gary, né entusiasta come i galleristi e i critici d’arte...perché lui non vedeva Justin come un’artista; lui vedeva Justin come il suo più caro amico, ed assisteva in silenzio al suo progressivo spegnersi.
Lo vedeva annullarsi, assopirsi. Vedeva con chiarezza quella luce naturale di cui sapeva risplendere, traballare e affievolirsi sempre di più, come mai era successo prima di allora.
Era come se, per imprimere la sua arte sulla tela, Justin attingesse alla propria energia vitale e se ne privasse fino a svanire.
Gli occhi blu splendenti erano ridotti a due pietre opache e vitree, stanche e segnate da ombre scure; la pelle aveva assunto un pallore malsano e le guance si erano scavate e sciupate lentamente, insieme a quelle labbra solitamente rosee e piene, ormai screpolate e perennemente statiche in una linea dritta e severa, su cui solo sporadicamente si accennava il disegno di un sorriso.
Justin aveva smesso di mangiare; di questo Jace ne era certo.
Ed era certo anche del fatto che dormisse appena, solo quando crollava sul pavimento per la stanchezza, senza neanche avere la forza per raggiungere il letto.
Non staccava mai gli occhi dai suoi quadri e non impegnava le sue mani per altro che non fosse il dipingere, concedendosi una pausa solo per farsi una doccia e mangiucchiare qualcosa quando lui lo sgridava e lo costringeva; o quando era la sua stessa mano ad imporgli con forza di smettere, tremando come un’ossessa o straziandolo con i crampi.
Ma quello che più lo angosciava e gli metteva tristezza, era il motivo per cui il suo più caro amico si era ridotto così. Non perché avesse perso la voglia di vivere, o perché fosse depresso...bensì perché era affondato in uno strano tunnel che gli imponeva di lavorare a ritmi impossibili, per poter far ritorno al più presto nella sua città natale, tra le braccia del suo uomo...soprattutto dopo la telefonata da lui ricevuta.
«Jus, ti vuoi fermare un attimo?» gli chiese con un sospiro, avvicinandosi a lui. Da ore ormai lo osservava dipingere e non l’aveva degnato neanche di una parola.
«Non posso.» replicò telegrafico l’altro, con gli occhi blu incollati alla tela.
«Hai mangiato?»
«Eh?» mormorò distratto. «Ah sì, sì.»
Jace aggrottò la fronte contrariato. «Cosa hai mangiato? È tutto intatto in cucina.»
«Ho mangiato. Jace, per favore, ho da fare adesso.»
«Prenditi una pausa. Stai crollando, non te ne accorgi?»
«Sto benissimo.» rispose Justin, più nervoso. «Devo finire questi. Prima lo faccio, prima torno a Pittsburgh. Non voglio mancare per Natale e se dipingo abbastanza quadri, forse riesco anche a prolungare la mia permanenza là.»
«Se non ti riposi non arriverai neanche a domani, te ne rendi conto?!» replicò con un tono più severo, nel vano tentativo di riuscire a farsi ascoltare, ma per quanto Justin restasse sordo alle sue parole, la sua mano non era del suo stesso avviso.
Come capitava sempre più frequentemente da qualche giorno infatti, le dita allentarono improvvisamente la presa sul pennello ed iniziarono a tremare. Era come se il grande sforzo a cui Justin le aveva costrette dal suo rientro a New York, queste glielo stessero facendo ripagare con crampi sempre più frequenti e più dolorosi.
«Fanculo!» imprecò il biondo artista, stringendosi la mano quando il pennello cadde sul pavimento, macchiandolo di schizzi blu.
«Lo vedi? Stai esagerando.» lo rimproverò ancora Jace.
«Vaffanculo anche tu.»
«Hai intenzione di mandare a fanculo anche il resto del mondo, o credi di poterti almeno prendere una pausa?»
«Non posso, io devo...»
«Sì che puoi.» lo interruppe rabbioso. «Non solo puoi, ma devi. La tua mano non ce la fa più. Non lo vedi?»
Justin per la prima volta si degnò di guardarlo, e Jace non poté far altro che constatare quanto i suoi occhi blu fossero anche più infossati e stanchi di quel che temeva.
«Non hai del lavoro da sbrigare?!»
«No.» replicò secco. «Ricordi? Sono in
vacanza
«Perché non trovi qualcosa da fare?» ribatté Justin, piegandosi per raccogliere il pennello; peccato che la sua mano fosse ancora in vena di capricci e che si ribellò ancora al suo controllo, facendolo infuriare ancora di più.
«Perché ce l
ho già.» commentò in risposta Jace, con un sorriso caustico. «Badare ad un ragazzino nevrotico che non è capace di farlo da solo.»
«Io
so badare a me stesso.»
«Ah, lo vedo.» borbottò lui, indicando la mano su cui ancora non aveva ripreso il controllo. Fece per aggiungere altro, ma il telefono di casa prese a squillare e, sul display della piattaforma apparve il nome di “Gary”.
«Rispondo io.» mormorò Justin, afferrando il ricevitore. «Pronto?»
Jace sbuffò contrariato.
Quando era Gary a chiamare non erano
mai buone notizie. O meglio, lo erano per la carriera di Justin, ma questo significava anche mille altri impegni che, ne era certo, avrebbero sfiancato il giovane artista o lavrebbero portato sull’orlo di una crisi di nervi.
«Sì, certo.» lo sentì mormorare, scostandosi una ciocca di capelli biondi dal viso.
«No, ok. Penso di farcela...sì, ciao.»
«Che succede ancora?» gli domandò immediatamente, quando lo vide riattaccare.
Justin scosse la testa, ma dal modo in cui fissava il vuoto era chiaro che per lui non fosse affatto una buona notizia. «Gary mi ha chiesto di andare ad un evento stasera. Non ho capito di cosa si tratta. So solo che passerà a prendermi verso l
e otto.»
«Sta scherzando...spero.» sibilò Jace, incrociando le braccia. «Non gli sembra di averti schiavizzato abbastanza? È proprio
necessario che tu partecipi ad unaltra delle sue stronzate?»
Justin si passò una mano tra i capelli e finalmente riuscì a raccogliere il pennello da terra. «Senti Jace, non lo so. L
unica cosa che so è che voglio finire questo.» indicò il quadro non ancora terminato e si morse le labbra. «Ma soprattutto voglio tornare a casa...e se questo significa stringere i denti e sgobbare per ancora un paio di giorni, lo farò.»
«Questo non è
sgobbare. Questo è portarti allo sfinimento!» esclamò Jace, prenda di un attacco di rabbia. «E vuoi sapere perché? Perché quello stronzo di Gary di cui ti fidi tanto, lo fa apposta per non farti tornare indietro.»
«Non dire cazzate, Jace. Lo fa solo per la mia carriera.»
«Sì, certo.» commentò il designer, in tono acido. Era la prima volta che si sentiva così arrabbiato nei confronti di Justin; anzi, a dirla tutta, non si era mai davvero arrabbiato con lui da quando lo conosceva, e questo gli faceva anche più male. «Sai che ti dico?! Fai un po
quel che cazzo ti pare! Continua a dargli retta, dipingi fino a svenire...almeno Natale lo passerai in ospedale invece che a Pittsburgh!» gli diede un ultimo sguardo, sentendo il proprio cuore creparsi nel momento in cui si rese conto del dispiacere che riempiva gli occhi azzurri di Justin e, stringendo i pugni con forza fino a sbiancare le proprie nocche, raggiunse la porta ed uscì di casa, incapace di restare ancora a guardarlo distruggersi senza poter far niente.


Dopo più di un paio d’ore trascorse a passeggiare a caso per le vie di New York, Jace decise di sedersi in una delle panchine di Central Park, affondando il mento nella sciarpa e le mani nelle tasche.
Sospirò, giocherellando con i piedi con un sasso, mentre i suoi pensieri ancora vagavano al primo e unico vero litigio avuto con Justin.
Era così abbattuto per l
accaduto che neanche la sua solita cura infallibile – lo shopping sfrenato – sembrava poter funzionare. 
Era passato perfino davanti ai negozi della 5
th avenue, ma nessun brivido aveva solcato la sua schiena, ed aveva osservato le vetrine senza il minimo interesse.
Male,
molto male.
Emise l
ennesimo sospiro ed afferrò il cellulare ultramoderno con lintenzione di chiamare Justin, così da potersi scusare con lui prima di tornare a casa, quando questo prese a trillare, mostrando sul display un numero sconosciuto alla propria rubrica. Jace aggrottò la fronte, cercando di ricordare se avesse mai visto prima quella sequenza di numeri ma, non riconoscendola, si decise a rispondere: «Sì?»
«Eri stato tu a dirmi che potevo chiamarti, ricordi?»
In un primo momento restò interdetto per il suono di quella voce. Raramente gli capitava di sentirne una femminile all
altro capo del telefono. «Daphne?» chiese poi, visibilmente sorpreso, e quella stessa voce gli confermò le sue supposizioni con una breve risata cristallina.
«Indovinato.» rispose poi, prima di tramutare il suo tono in uno scocciato, velato di esasperazione. «Hai per caso la più pallida idea di dove si sia cacciato quello che un tempo era il mio migliore amico?»
«Justin? Dovrebbe essere in casa.»
«No, non c
è. Ho provato a chiamarlo quattro volte.»
«Hai provato al cellulare?»
«Sì, ma non starei chiamando te se mi avesse risposto.»
«Vero anche questo.» replicò lui, ridacchiando per la stupidità della sua domanda. «Senti, Daph...l
ultima volta che lho visto era in casa...» sentì un suono provenire dal proprio cellulare e, soffermandosi per controllarlo, si accorse di unaltra chiamata in attesa. «...ma credo che non ci sia, visto che mi sta chiamando anche la donna delle pulizie. Come minimo non le ha lasciato le chiavi. Di nuovo.» le disse in seguito, scuotendo la testa. «Rispondo a lei e ti richiamo più tardi, ok?»
«Ok! A dopo!» convenne la ragazza, con la sua inconfondibile voce trillante. «E se trovi quell
idiota, picchialo selvaggiamente da parte mia.»
«Sarà fatto, ciao!» la salutò e premette il tasto per accettare l
altra chiamata. «Sì?»
«Signor Wilson!» strillò la donna, con il suo inconfondibile accento sudamericano.
«Maria, ma quante volte devo dirti di chiamarmi solo
Jace?» borbottò lui, senza prestare troppa attenzione alle parole sconnesse della donna. «E poi che hai da urlare tanto?»
«Il signor Taylor! Il signor Taylor!»
«Il signor Taylor, cosa?!» ribatté lui, mentre il sangue iniziava a gelarglisi nelle vene. Maria era una persona stupenda, un po
troppo apprensiva forse, e che spesso faceva di una sciocchezza un vero dramma, ma da quando si conoscevano non laveva mai sentita così agitata.
«Sta male. Lui sta male. È a terra e
non muove.» balbettò lei, faticando a gestire il proprio inglese con il respiro rotto. «Non si muove.»
A quelle parole Jace scattò immediatamente in piedi come una molla e percepì il proprio stomaco attorcigliarsi in una stretta dolorosa. «Chiama un
ambulanza e calmati.» scandì, con un groppo alla gola, rendendosi conto di quanto quelle parole le avesse pronunciate soprattutto per se stesso e per quel suo cuore che improvvisamente sembrava essersi bloccato. «Sto venendo lì.»



*'*'*


“Running up that hill” – Placebo



Brian varcò la soglia del loft massaggiandosi la fronte.
Da qualche ora il mal di testa non gli dava più tregua ed era uscito dalla Kinnetik prima del solito, per raggiungere immediatamente casa e provare a rilassarsi con una dormita.
Dal momento in cui Justin aveva fatto ritorno a New York, il sonno non era più arrivato tranquillo, e riusciva a mettere in fila a malapena tre o quattro ore senza stupidi incubi a torturarlo.
Con uno sbuffò lanciò la ventiquattrore sul divano, per poi abbandonarvici anche la costosa giacca. Si tolse le scarpe, abbandonandole in mezzo al loft e si gettò sul letto, per poi sistemarsi supino e prendere a stropicciarsi le palpebre con lindice ed il pollice, sperando di riuscire ad assopirsi. Respirò a fondo e fece per alzarsi e prendere una delle sigarette, quando qualcosa lo sorprese infrangendosi a terra con un rumore secco.
Brian aggrottò la fronte infastidito, finché quel fastidio si tramutò in una strana ed inspiegabile angoscia, nel momento in cui riconobbe loggetto a terra.
Poggiato dalla parte del vetro – ormai frantumato – verso il pavimento, stava uno dei quadri di Justin; anzi...il quadro di Justin.
Non aveva bisogno di voltarlo per sapere che quello era il primo quadro che gli aveva dedicato: quello che lo ritraeva nudo nel letto del loft, quando ancora la sua tecnica non era quella perfetta; quando ancora poteva disegnare per ore ed ore senza dover fare i conti con il dolore alla mano; quando ancora era poco più di un ragazzino innocente, eppure anche così naturalmente bravo nel sesso, tanto da inebriarlo fin dalla loro prima volta.
Si sedette sul bordo del letto ed allungo una mano per afferrarlo, lasciando cadere altri frammenti di vetro. Lo voltò verso di sé e sfiorò quella figura delineata a lapis con il pollice. «Justin.» sussurrò con filo di voce, mentre una sensazione fredda gli si insinuava dentro.
Gli aveva parlato pochi giorni prima ed era certo che stesse bene.
Doveva essere per forza così.
E allora perché quell
improvviso brutto presentimento? 

*** 

Note finali

Come vedete sono ancora viva! 
Sì, lo so che vi ho fatto aspettare un milione di anni per un capitolo che poi è anche quello che in assoluto mi piace di meno, per ogni tanto sono necessari, anche se rallentano un po'! Spero non vi sarete addormentate a metà. XD 
Premetto che manco stavolta sono riuscita a rileggere il capitolo per bene.
Lo farò in seguito, con più calma, ma se voi trovate qualche errore, non esistate a dirmelo che mi fate un favore! XD Sono pigra, lo so!
Non c'è molto da dire, se non che ho tolto molto "britin" per dare spazio ad altre vicende che comunque non posso lasciare in sospeso...penso sia chiaro però che dal prossimo capitolo qualcosa cambierà
Ah, per quello che è successo a Brian nell'ultima parte del capitolo, be'...io non sono una che crede in cose come il destino o simili, ma una volta mi è successa una cosa simile. In breve mio cugino - a cui sono molto legata - ha fatto un incidente in moto, e più o meno in quel momento una foto di noi due che avevo appesa al muro è caduta da sola. 
Probabilmente sarà stata solo una coincidenza, ma è stato piuttosto inquietante! A voi è mai capitato? 
Coooooooomunque, tralasciando certe cose, mi pare ovvio di dover passare alla cosa più importante: Ringraziamenti! 
Un grazie a tutti coloro che sono arrivati alla fine di questo capitolo senza addormentarsi, a chi ha inserito la storia tra le seguite, le preferite o le ricordate, ma soprattutto grazie a: silver girl, mindyxx, electra23, Katie88, SusyJM, Thiliol, klaudia62, FREDDY335, EmmaAlicia79, agrumi e OfeliaCuorDiGhiaccio per aver recensito l'ultimo capitolo
Grazie davvero
Mi scuso ancora per l'attesa e prometto di metterci un po' meno con il prossimo. 

Un bacio e a presto. 
Veronica.

   
 
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