«È davvero un
piacere conoscere di persona un talento come lei, signor Taylor!»
Quelle parole
arrivarono a Justin come un eco lontano, ma in qualche modo
riuscirono a riportarlo alla realtà. Abbandonò i propri pensieri –
che da molti giorni ormai avevano sempre lo stesso nome e lo stesso
bellissimo volto – e si costrinse a prestare attenzione allo
sconosciuto che gli sostava davanti e gli sorrideva entusiasta.
Impose alle
proprie labbra di piegarsi in un sorriso pressoché credibile e
strinse la mano che gli era stata porta. «La ringrazio.» si limitò
a rispondere poi, biascicando le parole, ormai troppo stanco anche
per pensarne altre.
Non riusciva a
fingere così bene; non quando ogni suoi pensiero era totalmente
catalizzato a miglia e miglia di distanza, mentre la sua speranza era
riposta in un cellulare che non squillava. O meglio, squillava anche
troppo, ma non mostrava mai sul display l’unico nome che avrebbe
voluto vedere.
Da quando se n’era
andato, il silenzio era tornato a dividere lui e Brian come un muro
invalicabile. Né lui era riuscito a chiamarlo, né l’altro l’aveva
mai fatto.
Un soffocante
silenzio che era andato ad unirsi al senso di vuoto in cui si sentiva
sprofondare lentamente ogni giorno di più, come se la mancanza
dell’uomo che amava lo stesse snaturando; come se gli stesse
togliendo tutto.
Si sentiva sempre
più stanco, a malapena si riconosceva; eppure la speranza di poter
tornare al più presto alla sua città natale non si era mai
affievolita.
Era solo quella
che lo spingeva ad andare avanti; a riprendere in mano i propri
pennelli ogni giorno, a colorare le tele e presenziare a tutti quegli
stupidi eventi a cui Gary lo costringeva a partecipare.
Non era quello che
desiderava per sé, ma il suo sogno e la voglia di non deludere
nessuna delle persone che avevano sempre creduto in lui – Brian in
primis – lo spingevano ad andare avanti e a desistere dal mandare
tutto all’aria.
Era sempre stato
un tipo caparbio, anche nelle situazioni che sembravano esser
impossibili da superare. Non si era mai arreso; non si era mai dato
per vinto, e alla fine il premio più grande non era stato tanto
l’aver ottenuto il risultato, quanto vedere il sorriso e una luce
orgogliosa negli occhi di coloro che per lui contavano di più.
Era soprattutto
per loro che stringeva i denti e sopportava, proprio come in quel
momento: un pomeriggio che avrebbe preferito passare ovunque, meno
che lì, in mezzo a centinaia di sconosciuti con cui era costretto ad
intrattenersi, tra Jace che gli lanciava occhiate insofferenti e Gary
che lo controllava a vista.
Si passò una mano
tra i capelli e fece un cenno di saluto allo stesso – sconosciuto –
signore distinto con cui aveva appena intrattenuto non sapeva neanche
che tipo di conversazione. Si stropicciò gli occhi che sentiva
bruciare, sotto le palpebre che si facevano sempre più pesanti e
sospirò stancamente, finché non si rese conto delle occhiate
contrariate che Jace gli stava lanciando.
«Credi di poter
tenere gli occhi aperti...» gli domandò proprio lui, assottigliando
lo sguardo. «...o devo procurarmi un pennarello per disegnarteli
sulle palpebre?»
Justin
sorrise fievolmente e si stiracchiò un poco. «Sono solo un po’
stanco.»
«Uhhhm.
Grazie per l’informazione,
Taylor. Non se ne sarebbe accorto nessuno. Un vero maestro nel
nascondere le cose.»
commentò l’altro
con sarcasmo.
«Non ho dormito
molto stanotte.»
«Lo
so bene. E grazie a te non sto dormendo neanche io!» ribatté Jace,
con un tono sempre più acido, atto a nascondere la reale
preoccupazione che da giorni lo assillava. «Tu e i tuoi
stramaledetti barattoli di vernice che sbatacchi ovunque. Al piano di
sotto c’è
gente che vuole dormire, nel caso tu non lo sapessi.»
incrociò le braccia al petto e continuò la sua filippica,
nonostante fosse nato nella sua testa il sospetto che il bell’artista
non lo stesse più ascoltando.
«E giuro che ti chiederò i danni se mi verranno le occhiaie
e...Justin, mi stai ascoltando?»
Ormai perso tra
stanchezza e nostalgia di casa, Justin fu colto di sorpresa dal tono
improvvisamente alto dell’altro, e si scosse spalancando gli occhi.
«Eh? Sì, certo.»
«Non ti prendo a
sberle solo perché ho intenzione di chiamare Debbie.» sospirò
Jace, scuotendo la testa con rassegnazione. «Ci penserà lei per
me.»
«Non oseresti...»
tentò di minacciarlo il ragazzo, ma la voce gli uscì più fievole
del previsto. Era davvero a pezzi.
«E allora dormi
la notte, invece di fare il pazzo!» riprese a rimproverarlo, per poi
passargli un braccio sulle spalle. «E adesso andiamo a far
imbambolare qualche riccone con le tue opere.»
Justin gli sorrise
con gratitudine, consapevole di quanto dietro a quei rimproveri o
alle critiche si nascondesse in realtà pura preoccupazione, dettata
da quella sorta di affetto fraterno che caratterizzava la loro solida
amicizia. Circondò la vita di Jace con un braccio e, facendosi
forza, si apprestò a ravvivare il sorriso sulle sue labbra e a
perdersi in altre chiacchiere con chi sa ancora quanti sconosciuti e
probabili compratori, sforzandosi di distogliere i propri pensieri da
quel cellulare che si ostinava a giacere immobile nella sua tasca.
*'*'*
A trecentosettanta
miglia di distanza anche qualcun altro si prodigava nel
rigirare tra le proprie mani il cordless del lussuoso ufficio in cui
era rinchiuso da ore.
Brian osservò i
tasti attentamente, arricciando le proprie labbra in una continua
battaglia con se stesso; indeciso tra premerli ed avviare quella
dannata telefonata o meno.
Fece per scostare
il pollice sul primo numero quando, dopo aver dato una fugace
occhiata all’orologio, si decise a riporre il cordless sulla
propria piattaforma con uno sbuffo scocciato e a lasciarsi
sprofondare contro lo schienale della poltrona in pelle scura.
Incrociò le mani
in grembo, dandosi mentalmente dell’idiota – perché mai, Brian
Kinney, si era ridotto così, alla stregua di una patetica checca,
prima di quel famoso incontro con il suo raggio di sole – e piantò
gli occhi verso il soffitto, fino a quando non riuscì a scorgere con
la coda dell’occhio due presenze familiari che sostavano in modo
ridicolo sulla soglia, stringendo dei fascicoli tra le mani.
«Sareste così
gentili da spiegarmi che cazzo ci fate impalati lì come due idioti?»
borbottò acido, fulminando sia Cynthia che Ted con lo sguardo.
«Controllavamo il
campo di battaglia.» rispose il suo contabile, passando gli occhi in
ogni angolo dell’ufficio, prima di dare una gomitata a Cynthia. «Ad
esempio, quel tagliacarte è piuttosto inquietante.»
Brian aggrottò
immediatamente la fronte, contrariato. «Dico, vi ha dato di volta il
cervello?»
«Anche la lampada
è considerata un oggetto contundente, no?» mugugnò però Cynthia,
ignorando completamente il proprio capo e continuando il suo strano
scambio di opinioni con Ted.
«Se è per questo
potrebbe lanciarci dietro anche lo schermo del pc.» ribatté
l’altro, già impaurito dalle sue fantasie, quando Cynthia sospirò
con fare teatrale e gli diede una pacca sulla spalla.
«Coraggio Ted, è
per una buona causa.»
«Sappi che ti ho
voluto bene.» ribatté lui, continuando a non prestare attenzione a
Brian, la cui espressione si stava facendo sempre più livida di
rabbia.
«Anch’io.»
annuì la donna, con un’espressione
affranta. «Anche se ti ostini ad indossare quei boxer orrendi.»
«Ehi, ma...»
provò a protestare Ted, aggrottando la fronte, ma la voce
innervosita del Boss echeggiò in tutto lo spazioso ufficio.
«Si può sapere
che cazzo vi prende?!»
Cynthia sobbalzò
ed artigliò le mani con forza al braccio del collega. «Ecco si è
arrabbiato.»
«Non solo, vi
licenzierò anche seduta stante se non mi dite immediatamente cosa
cazzo sta passando nelle vostre teste marce.»
«Secondo te
morde?» provò a sussurrare il contabile, ma non lo fece abbastanza
piano perché Brian non lo sentisse.
«Theodore...»
sibilò infatti, assottigliando lo sguardo e lasciando presagire che
se non avesse ricevuto immediatamente una risposta soddisfacente,
avrebbero di certo passato un bruttissimo quarto d’ora.
«È solo che...»
tentò allora l’altro uomo, sbrodolando le proprie parole con
estrema cautela. «...avevamo solo paura ad entrare qui, ecco.»
«Sì,
insomma...» intervenne Cynthia, con la sua proverbiale mancanza di
tatto. «...Justin se n’è
andato e tu sei diventato intrattabile!»
Con quella scomoda
verità, gli occhi di Brian divennero immediatamente due pozzi scuri
di rabbia; tanto penetranti e pungenti che entrambi i suoi
dipendenti indietreggiarono di un passo, spaventati dalla possibilità
di essere inceneriti sul posto. «Vi do cinque secondi per portare il
vostro culo lontano da qui.» sibilò Brian, scandendo bene ognuna di
quelle parole.
«Te
l’avevo
detto che si sarebbe incazzato!»
esclamò la donna, spingendo Ted verso il corridoio per sfuggire a
quell’ira.
«Cynthia!» tuonò
subito dopo Brian, facendola sussultare ancora.
«Eccomi!»
«Le cartelle che
avevate in mano.»
La donna titubò
per un attimo sul da farsi, finché non si decise a poggiare quelle
stesse cartelle su un tavolo dell’ufficio, restando a debita
distanza dalla scrivania. «Eccole.»
«Ma che cazzo ti
dice il cervello?! Portale qui!» sbottò nuovamente lui, digrignando
i denti.
«Non ho marito,
né figli...» mugugnò lei, stringendosi i fascicoli colorati al
petto.
«E mi auguro per
loro che non li avrai mai.»
«...ma sono
comunque troppo giovane per morire.»
Brian sollevò una
delle sopracciglia. «Su questo potremmo discutere.»
«Ma proprio tu
parl...» si azzardò a ribattere lei, punta sul vivo e nuovamente
combattiva così come era sempre stata, almeno fino a quando non si
accorse dell’espressione visibilmente stizzita sul volto del
proprio capo. «...ok...lascio le cartelle e me ne vado, ho capito.»
«Ottimo.»
sentenziò lui, per poi richiamarla: «Ah,
Cynthia...chiamami Theodore.»
Lei annuì
immediatamente, per poi affrettarsi ad uscire dall’ufficio.
Brian tornò a
rilassarsi sulla propria poltrona, massaggiandosi la radice del naso
con l’indice ed il pollice, prima che quella ritrovata quiete fosse
interrotta dalla voce di Ted. «Eccomi, volevi dirmi qualcosa?»
«Entra e chiudi
la porta.» sbuffò, accarezzandosi distrattamente la fronte con un
dito.
«Mi devo
preoccupare?»
«Fa’
come ti dico e chiudi quella cazzo di porta!»
sbottò allora Brian, sollevando gli occhi al cielo con
esasperazione.
«Ok,
ok.» si affrettò a rispondere il contabile, per poi eseguire
l’ordine
ed avvicinarsi alla scrivania al cenno del pubblicitario. «Allora?
Che...che c’è?»
«È
tutto ok?» chiese semplicemente l’altro,
sospirando appena le parole.
«Oh, sì. Hanno
telefonato quelli della Brow Athletics e con il pagamento è tutto in
regola come previsto, mentre quelli della...»
«Non stavo
parlando di lavoro. Stavo parlando di te.» lo interruppe,
lasciandolo interdetto, prima di puntualizzare. «Di te e Blake.»
Ted
si soffermò a fissare il proprio capo con uno sguardo a metà tra il
sorpreso e lo scettico. «Mi stai davvero chiedendo come vanno i miei
problemi sentimentali?» domandò poi, ma nel momento in cui vide
quegli occhi verde petrolio roteare nuovamente, sollevò le mani in
segno di resa. «Ok, ok. Be’,
a dire il vero non so neanche io cosa risponderti. La verità è che
non lo so. Cerco di non pensarci e non abbiamo ancora parlato...»
«Hai bisogno di
qualche giorno di riposo?» si affrettò a chiedere, così da portare
al termine quella confessione che sembrava prolungarsi più del
dovuto; o meglio, più di quello che Brian fosse capace di
sopportare.
Sapeva bene che
Ted era quel tipo di persona che non si stanca mai di lamentarsi di
tutti i suoi problemi, ed aveva perfino iniziato a pensare che tutte
quelle “condivisioni” a cui aveva partecipato durante la sua
disintossicazione, l’avessero anche peggiorato...eppure, nonostante
la sua petulanza ed il suo essere sempre così melodrammatico –
quasi ai livelli della regina del dramma, Michael Novotny –
rappresentava senza ombra di dubbio un membro fondamentale e
completamente affidabile della Kinnetik, nonché – per quanto gli
costasse ammetterlo – un vero amico.
Era per questo
motivo che gli aveva porto quella domanda.
Era il suo modo
per chiedergli se avesse bisogno o meno di aiuto, o se avesse solo
bisogno di tempo per sé e per pensare.
«No, figurati.»
gli rispose però Ted, con un mezzo sorriso di gratitudine.
«Ted...ricordi?
Se fai qualche casino, io ti uccido.» puntualizzò immediatamente,
così da poter nascondere le reali motivazioni di
quell’interessamento dietro la propria preziosa agenzia.
«Lo so, e so di
quel che parlo. Non ti metterei mai in qualche guaio.» lo rassicurò
l’altro, fingendo di credere a quella scusa. «Il lavoro mi aiuta a
stare meglio e non pensarci.»
«Dovrai
affrontarlo prima o poi.»
«Anche tu.»
Brian restò
interdetto per qualche secondo da quella risposta, finché non vide
nel sorriso amichevole di Ted la risposta al suo interrogativo. Come
era ovvio che fosse, si stava riferendo a Justin.
Consapevole
di questo, trattenne a stento uno sbuffo e mise su la sua classica
faccia di bronzo, dietro cui nascondeva ogni sentimento,
preoccupazione o pensiero, e finse di non aver capito: «Anche io,
cosa?»
«Non
l’hai
ancora chiamato, vero?»
chiese allora Ted, in tono retorico. «E non fare quella faccia. Sai
benissimo di chi stiamo parlando.»
Gli
occhi verde scuro rotearono ancora in un’espressione
scocciata, così da darsi il tempo per trovare una via di fuga: «I
file dell’Iconic
sono pronti?» tentò
allora, sviando il discorso, ma dopo tutti quegli anni insieme era
ovvio che non gli avrebbe creduto.
«Senti, se non
vuoi parlarne con me, va bene...ma dammi retta per una volta:
chiamalo. Sono certo che ne ha bisogno.»
«Theodore...»
sibilò Brian minaccioso, ed il contabile sollevò entrambe le mani.
«Sì, sì. Te li
faccio avere sulla scrivania tra due ore.»
«Un’ora.
Al massimo.» rettificò il
pubblicitario con un sorriso sadico sulle labbra.
«È sempre un
piacere lavorare per te.» ribatté Ted con un tono acido,
proseguendo poi col borbottare qualcosa di incomprensibile mentre
raggiungeva la porta e la richiudeva alle proprie spalle, lasciando
Brian nuovamente immerso nel silenzio del proprio ufficio, affiancato
dal rumore odioso ed assordante di tutti i suoi pensieri insistenti.
Dopo qualche
minuto trascorso da solo, Brian non era ancora riuscito a
cancellare le parole di Ted dalla propria mente. Per quanto tentasse di
concentrarsi su altro, qualsiasi cosa sembrava ricordargliele ed
amplificarle fino a farle diventare così insistenti da risultare
fastidiose.
Con uno sbuffo prese a
giocherellare con la preziosa stilografica nera ticchettandola sulle
proprie morbide labbra, mentre i suoi occhi si fissarono nel vuoto, finché la
mano libera, probabilmente mossa da quella martellante sensazione divenuta insostenibile, raggiunse il cordless e premette
in modo frenetico tutti i numeri di quella sequenza così familiare,
ed un suono cadenzato raggiunse le sue orecchie, seguito da un rumore secco.
Aveva risposto.
«Brian.»
Nel sentire il suo
nome pronunciato da quella voce il suo cuore ebbe un sussulto, prima
di cominciare a pompare come un pazzo, come se avesse appena corso
una maratona. Sentì il fiato venirgli meno, mentre la mano prese
inspiegabilmente a tremare, eppure in qualche angolo profondo di sé,
trovò la forza di parlare: «Ehi...» biascicò appena, per poi
schiarirsi la voce. «...come...come procede nella Grande Mela?»
Il silenzio che
seguì quella domanda non durò che qualche secondo, ma a Brian
parvero ore, a causa della paura che lo attanagliava ogni volta,
quando Justin era lontano da lui. La paura che prima o poi potesse
dimenticarlo e cancellare tutto quello che avevano vissuto.
Respirò a fondo,
stringendo con più forza le dita sul cordless, finché tutti i suoi
timori vennero immediatamente dissipati dalla voce del suo piccolo e
bellissimo artista che, con un filo di voce tremante, confessò
candidamente: «Mi manchi.»
A quelle parole un
lieve sorriso spuntò sul viso di Brian, dopo di che tornò a
rilassarsi sulla poltrona e a chiudere gli occhi immaginando che
Justin fosse ancora lì al suo fianco.
In
fondo l’aveva
sempre saputo che quel ragazzino impertinente era sempre stato molto
più bravo di lui ad esprimere i propri sentimenti e, a dirla tutta,
se era arrivato ad esserne capace lui stesso, lo doveva solo e
soltanto a Justin e alla pazienza con cui glielo aveva insegnato.
Ogni
volta, con una semplicità disarmante, Justin trovava il modo di
dirgli le parole che aveva bisogno di sentirsi dire, come se
inconsapevolmente potesse capire anche a distanza ogni sua
preoccupazione; e si sentiva perfino patetico per questo, ma gli
capitava di pensare che certe cose accadessero semplicemente perché
quel moccioso luminoso come il sole...fosse stato creato apposta per
lui. «Va tutto bene, raggio
di sole.» sussurrò
lentamente, con il cuore più leggero, nonostante la nostalgia di
lui.
«Torno presto.»
rispose Justin, azzeccando ancora le parole esatte.
«Lo so.»
sussurrò Brian con dolcezza, prima di schiarirsi nuovamente la voce
ed assumere un tono più autoritario. «Ora però torna a lavoro.»
«Ok...ma tu non
guadagnare troppo, eh.» gli rispose semplicemente e, nel momento in cui
lo sentì ridere, seppur in modo appena accennato, Brian si sentì
riempire di calore, quasi fino ad esplodere.
«Nah! Giusto
qualche milione.»
Justin rise
ancora, e il bel pubblicitario provò il desiderio di non separarsi
più da quel telefono, così da poter sentire ancora quella risata
cristallina che riusciva a fargli tremare il cuore.
Gli impegni di
entrambi però non avrebbero permesso una cosa del genere; e Brian se
ne rese conto nel momento in cui la spia rossa sulla piattaforma del
cordless prese a lampeggiare, informandolo di un’altra chiamata
posta in attesa. «Devo andare anch’io.» si sforzò di dire
allora, e sentì Justin annuire.
«Ti amo.» gli
confessò poi, sempre con la sua proverbiale semplicità, per cui
Brian non poté far altro che sorridere e sentirsi davvero leggero.
«Ciao.»
Qualche altro
secondo di silenzio ed il suono acuto della chiamata che veniva
interrotta lo raggiunse, lasciandogli una piccola fitta di malinconia
a bruciare nel petto.
Brian si morse
delicatamente le labbra e riaprì gli occhi, tornando a quella realtà
in cui Justin era troppo lontano perché lui potesse ricambiare
quelle sue parole con un bacio, uno sguardo o un abbraccio.
Prese un respiro
profondo e, aprendo il primo cassetto della scrivania, gettò un
lungo sguardo a quella foto che custodiva gelosamente all’insaputa
di tutti.
Erano
semplicemente loro due, in una delle tante cene a casa di Debbie; una
sera come un’altra, ma allo stesso tempo speciale perché erano
felici.
Per un attimo,
Brian provò una sciocca invidia per “quel se stesso” che ancora
aveva la possibilità di stringersi a quel corpo filiforme,
abbracciandolo da dietro e respirando il profumo di quei capelli
biondissimi.
Sorrise del modo
in cui in quell’immagine stringeva a sé Justin, neanche avesse il
bisogno di rimarcare che si appartenevano, nonostante il fatto che
tra loro non fossero mai esistiti catene o “lucchetti alle porte”.
Si passò la
lingua sulle labbra ed attardò ancora lo sguardo sul sorriso del suo
raggio di sole, accecante così come era sempre stato; o forse anche
di più, perché come tutti gli ricordavano sempre, Justin sorrideva maggiormente quando si trattava di loro due.
Il tempo di un
ultimo sospiro, e finalmente si decise a separarsi da quella foto,
non senza prima aver sussurrato quelle maledette parole che gli
esplodevano dentro, ma che ogni volta gli si incagliavano nella gola:
«Ti amo anch’io.»
*'*'*
«Sono a casa!»
esclamò Melanie mentre rincasava dal lavoro, facendo echeggiare la
propria voce per tutto l’ingresso. Si tolse il cappotto,
rabbrividendo per colpa dello sbalzo termico tra la sua accogliente
casa ed il gelo di Toronto, e raggiunse la cucina con la fronte
aggrottata per non aver ricevuto risposta.
Si passò una mano
tra i capelli che portava ancora corti, sempre più interdetta,
finché notò il post-it giallo lasciatole da Linz attaccato allo
sportello del frigorifero.
“Sono fuori
con JR. Torno presto. Gus ha fatto i capricci come al solito ed è
rimasto in camera sua, vedi di parlarci tu. Ti amo. L.”
Con gli occhi
ancora incantati sul foglietto, Melanie si ritrovò a sospirare.
Da quando erano
rientrate a Toronto, Gus non le aveva ancora perdonate per averlo
nuovamente allontanato da Pittsburgh, ma soprattutto da suo padre.
Era sempre stato
difficile gestire la mancanza che il bambino manifestava nei
confronti di Brian, ma in un modo o nell’altro erano sempre
riuscite a fargli tornare il sorriso sulle labbra e, anche se di
tanto in tanto riprendeva a piangere o a fare i capricci, almeno
erano solo brevi episodi separati l’uno dall’altro, e non uno
continuo che sembrava non voler arrivare ad una fine.
Andava a scuola
malvolentieri, non rivolgeva la parola a nessuna delle sue mamme se
non per lo stretto necessario mantenendo sempre il suo broncio e,
cosa peggiore, terminava ogni telefonata con Brian con un pianto
disperato in cui lo pregava di andarlo a prendere insieme a Justin e
di tenerlo a Pittsburgh con sé.
Sia lei che Linz erano
arrivate al punto in cui non sapevano più dove mettere le mani, e
neanche le parole che Brian rivolgeva al bimbo – e che di solito
riuscivano a calmarlo – sembravano essere poi più così
convincenti.
Con uno sbuffò
scocciato, Melanie accartocciò il post-it per poi gettarlo, prima di
salire le scale e raggiungere la stanza del bambino. Aprì la porta
e lo trovò come sempre immerso tra i disegni, solo che quella volta
non aveva i pastelli in mano, bensì il cordless e l’agenda di
Linz. «Tesoro che stai facendo?» domandò allora, facendolo
sobbalzare.
«Niente.» si
affrettò a rispondere lui, cercando di nascondere l’agenda dietro
di sé.
Melanie gli si avvicinò e gli occhioni verdi di Gus si inondarono di paura e
nervosismo. «Che ci fai con l’agenda della mamma?» chiese con
un tono contrariato e incrociando le braccia al petto.
«Quante volte ti abbiamo detto di non prenderla?» proseguì nella
sua filippica, ma il bambino non sembrava disposto ad ascoltarla.
«Gus, guardami e dimmi che stavi facendo.»
«Cercavo il
numero di Justin.» borbottò lui sommessamente, resosi conto che la
pazienza di “Mamma Mel” stava venendo meno.
«Di Justin? E
perché?»
«Perché voglio
andare a da lui. Se voi non volete portarmi da papà, allora io vado
da lui.» rispose deciso, mentre gli occhi gli si riempivano di
lacrime rabbiose.
«Gus ma che stai
dicendo?»
Il bambino tirò
su con il naso e strinse con più forza il cordless al petto, quasi
temesse che glielo portasse via. «Io non ci voglio stare qui.»
«Amore, non puoi
chiamare Justin per queste cose. Lui non può portarti con sé e poi
te l’abbiamo già detto tante volte che faresti arrabbiare papà.»
«Ma perché?»
piagnucolò lui, con il labbro inferiore che tremava e le guance
rigate dalle lacrime. «Papà mi lasciava sempre stare con lui.»
«Perché non
vuole che nessuno lo disturbi mentre lavora. Justin deve dipingere,
non deve essere distratto.»
«Anch’io faccio
i disegni e Jenny viene sempre a darmi noia!»
Melanie si lasciò
sfuggire una piccola risata. «Non è la stessa cosa, tesoro. E poi
pensaci, se a te da noia che qualcuno venga a disturbarti mentre
disegni, non pensi sia lo stesso anche per Justin?»
Gus abbassò lo
sguardo dispiaciuto e gonfiò le guance. «Ma io e lui possiamo
disegnare insieme.»
«Quando siete a
casa di tuo padre.»
«Infatti, io
voglio tornare a Pittsburgh da papà e Justin!»
«Tesoro...»
sussurrò lei, accarezzandolo sulla testa con dolcezza. «...ma
Justin non è a Pittsburgh.»
«E perché?»
domandò immediatamente lui, sorpreso da quella notizia. «Papà è
più felice quando c’è Justin.»
Melanie sorrise a
quelle parole, trovandole così vere. Perfino un bambino che non
sapeva niente dell’amore era riuscito a vedere quanto Brian fosse
diverso dal momento in cui Justin era al suo fianco. «Lo sappiamo.»
convenne allora, mentre il suo sorriso diveniva più triste. «Ma
come tutti ha anche lui degli impegni. Lui è tornato a New York.»
Il bambino restò
in silenzio per qualche secondo, visibilmente scombussolato da quella
notizia, mentre nella sua testa avanzava un’ipotesi che poi tramutò
candidamente in parole: «E allora papà sarà triste senza Justin,
quindi io devo stare con lui.»
«Gus,
ascoltami...»
«No, io devo
andare da papà!» esclamò, stavolta con preoccupazione; ed il cuore
di Melanie venne stretto da una morsa nel notare come – anche se
in modo diverso – perfino in questo Gus somigliasse a Brian. Anche
suo padre aveva il “vizio” di occuparsi dei problemi di tutti,
seppur lo facesse nell’anonimato, non l’avrebbe mai ammesso e
soprattutto la considerasse quasi un’offesa se qualcuno glielo
faceva notare.
«Tesoro,
torneremo presto a Pittsburgh. Neanche una settimana e saremo lì.»
provò a rabbonirlo, ma quel piccolo broncio sembrava non voler
abbandonare il volto del figlio. «E poi non ti dispiacerebbe
lasciare i tuoi amichetti a scuola?»
«No! Voglio papà
e Justin!» replicò lui, sempre più deciso. «Gli amici ce li avevo
anche a Pittsburgh!»
Un altro sospiro
di rassegnazione uscì dalle labbra di Melanie finché, scuotendo la
testa, si ritrovò a fare l’impensabile per un’inguaribile ed
agguerrita orgogliosa come lei. «Passami il cordless.»
«Perché?»
domandò il bambino.
«Devo fare una
telefonata importante.»
Gus la guardò
storta per qualche istante, fino a che non si decise a darglielo,
seppur con uno sbuffo contrariato.
Melanie lo baciò
frettolosamente sulla fronte e, componendo un numero quasi con
disgusto, si allontanò di un poco verso il corridoio. Pochi secondi
ed una voce profonda e familiare, quanto irritante, la raggiunse
dall’altra parte del telefono. «Pronto?»
«Non hai idea di
quanto mi sia costato fare questo numero, perciò vedi di non fare lo
stronzo.»
Per qualche
secondo ci fu solo silenzio, poi Brian si decise a pronunciare il suo
nome con una buona dose di contrariata sorpresa: «Melanie?»
«Già.» replicò
secca lei. Ancora non poteva credere di aver realmente chiamato lui
per chiedergli aiuto. «Non m’importa quale importantissimo
contratto milionario tu stia seguendo o con chissà quale cliente
altrettanto milionario tu sia, perché tuo figlio ha una crisi
isterica peggiore del solito e...»
«Passamelo.» la
interruppe, con tono sicuro.
«Eh?» replicò
lei sorpresa, e dall’altra parte riuscì a percepire distintamente
uno sbuffo scocciato.
«Sei diventata
improvvisamente sorda? Ho detto passamelo.»
«Pensavo ci
volesse di più per convincerti.» rispose, dando voce ai suoi
pensieri. Era partita col piede di guerra, pensando che avrebbe
dovuto superare una delle loro solite discussioni per convincerlo a
lasciar perdere la Kinnetik per occuparsi di suo figlio, ma
evidentemente aveva sbagliato i propri calcoli.
«È mio figlio,
Melanie.» ribatté lui, con una semplicità così disarmante che non
ebbe bisogno di altre spiegazioni. Magari Brian all’inizio non era
stato proprio come il padre dell’anno, ma per quanto le costasse
ammetterlo, col tempo, anche grazie a Justin e a tutte le difficoltà
che insieme erano riusciti a superare, Brian si era trasformato in un
padre decisamente migliore, che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di
veder sorridere quella sua fotocopia in miniatura che era il figlio.
Da quando aveva
imparato ad amare e a lasciarsi amare; da quando la parola “famiglia”
non gli suonava poi così tanto disgustosa, Brian Kinney era
diventato davvero un buon padre per Gus; o almeno lo era per quello
che la lontananza gli permetteva di essere.
«Lo so.» rispose
allora lei, lanciando un’occhiata al bambino che aveva ripreso a
disegnare e sentendosi realmente in colpa per la prima volta, come se
con il suo comportamento non solo avesse ferito Gus, ma anche Brian
impedendogli di essere padre, così come avrebbe voluto. Si morse
ancora le labbra e, rivolgendosi a suo figlio, disse con un sorriso:
«Gus, vieni qui. C’è papà a telefono.»
Gli occhioni verde
scuro del bambino si spalancarono di sorpresa, prima che un sorriso
splendido gli illuminasse il viso e le corresse incontro felice,
saltellando
per prendere il cordless. «Passamelo, passamelo!»
Con un nodo alla
gola, la donna gli porse il ricevitore. «Tieni.»
«Papà!» esclamò
Gus entusiasta, per poi tornare nella sua stanza e lanciarsi sul
letto.
Melanie si
avvicinò alla soglia di qualche passo, per poi appoggiarsi allo
stipite della porta e respirare a fondo, così da lasciar dissipare
quella strana sensazione annodata dentro di sé.
Vedere come quel
broncio fosse scomparso immediatamente nel momento in cui il suo
bambino aveva sentito la voce di suo padre, la portò a pensare alle
proprie scelte, così come alla discussione avuta giorni prima con
Brian. Le sue parole tornarono pungenti a rimbalzarle in testa, ed
il tarlo del dubbio le si insinuò sempre più a fondo, facendole
capire che forse, quella vita a Toronto, era la soluzione più
sicura, ma non quella che li avrebbe resi tutti davvero felici.
*'*'*
Guardandosi al
grande specchio di quella che era la sua nuova bellissima casa da
circa due anni ormai, James Hunter Bruckner Novotny sorrise
soddisfatto al suo riflesso.
Finalmente era
riuscito a superare anche quell’ostico esame che aveva interrotto
la sua sequenza di risultati positivi, e si sentiva trasformato. Era
fiero di quello che era diventato, e lo era anche del fatto che
finalmente stava davvero riuscendo a ripagare tutti gli sforzi
compiuti dai suoi genitori adottivi per allontanarlo dalla strada.
Se qualche anno fa
avessero detto a James Hunter Montgomery che la sua vita sarebbe
cambiata a tal punto, probabilmente si sarebbe fatto una grossa – e
amara – risata, prima di tornare sul bordo del marciapiede nel
tentativo di trovare qualcuno disposto ad accettare le sue
prestazioni in cambio di qualche centone.
Invece, a dispetto
di tutte le sue previsioni, la vita che per prima gli aveva negato
l’amore genitoriale, era stata capace di restituirglielo perfino
con gli interessi, dandogli la possibilità di incontrare due persone
come Ben e Michael che, per quanto a volte fossero apprensivi o
terribilmente noiosi, erano pur sempre la sua famiglia e lo amavano
davvero.
Insomma, in fin
dei conti aveva una vera famiglia che, seppur decisamente fuori dalle
righe, lo amava; degli amici che tenevano sinceramente a lui e
finalmente perfino una vera istruzione che in fin dei conti gli
piaceva e anche tanto.
Sarebbe potuta
essere una vita perfetta, se solo non fosse stato per quella singola
macchiolina nera, eredità del suo passato, che continuava a portarsi
dentro e che non l’avrebbe abbandonato mai.
Nonostante i
controlli a cui si sottoponeva con Ben risultassero sempre positivi,
e che la sua carica virale fosse realmente bassa, quelle tre lettere
messe in fila lo spaventavano ancora a morte.
L’HIV continuava
ad essere un incubo presente nella sua vita; tanto reale e così
spaventoso che spesso si ritrovava a svegliarsi di soprassalto la
notte.
Gli capitava di
sognare quel virus maledetto – quella pena che avrebbe dovuto
scontare per tutta la vita – soprattutto nei periodi in cui
aspettava i risultati degli esami medici. Sognava l’arrivo di
quella “bestia” – così come la chiamava lui – a portargli
via prima Ben, per poi tornare in seguito anche per lui. Sognava
perfino la sofferenza di Michael rimasto solo e sentiva addosso
l’impotenza di non poter fare niente per lui; per dargli un po’
di conforto.
Erano quelli i
momenti in cui le cose sembravano prendere una brutta piega, poiché
inevitabilmente i suoi pensieri andavano anche ai figli che non
avrebbe mai potuto avere, e forse anche all’amore che non avrebbe
mai trovato, perché temeva che nessuno si sarebbe potuto innamorare
di un infettato.
Quando quella
parola balenò nella sua mente, Hunter strinse le mani al lavabo e
scosse la testa come per volerla scacciare, prima di aprire il
rubinetto con un gesto secco e sciacquarsi la faccia.
«Ehi dormiglione,
non sei ancora pronto?» la voce di Ben lo sorprese facendolo
scattare. Afferrò l’asciugamano con gli occhi mezzi chiusi e si
tamponò il viso, prima di lanciargli un’occhiata furba,
cancellando definitivamente ogni pensiero negativo o preoccupazione, così da non mettere in allerta i propri genitori.
«Potrei partire
da casa anche mezz’ora dopo di te. Arriverei comunque prima, caro il mio vecchietto.»
Ben sorrise ed
incrociò le braccia. «Accidenti, siamo già in vena di battutine a
quest’ora e a stomaco vuoto?»
«Proprio perché
sono a stomaco vuoto, sono in vena di battutine acide.» ribatté
Hunter, lanciandogli in faccia l’asciugamano appena usato, per poi
dirigersi verso la propria stanza.
«Ehi...che ti
costava metterlo al suo posto?» tentò di rimproverarlo il padre, ma
era ancora troppo felice del risultato del suo ultimo esame per
arrabbiarsi con lui.
Consapevole di
questo, Hunter gli rivolse una falsa smorfia annoiata. «Smetterai mai di
lamentarti per tutto? Stai diventando peggio di tuo marito, lo sai?»
«Cosa avrei fatto
io?» intervenne l’altro padre chiamato in causa, salendo le scale
con in mano la cesta dei panni.
«Ecco l’altro
vecchio. Attento a non farti male alla schiena con quella.»
ironizzò, indicando con un cenno della testa la pila di panni che
stava trasportando. «Sai, alla tua età...»
Michael
assottigliò lo sguardo con fare minaccioso. «Moccioso, perché
invece di borbottare non lo fai tu?»
«Perché io sono
troppo giovane per sprecare il mio tempo con certe cose.» ribatté
con un sorrisetto, infilandosi i Jeans e la felpa. «E devo correre a
nutrirmi per affrontare una nuova e proficua giornata universitaria
per il mio gran bel cervello superiore.»
Gli occhi scuri di
Michael rotearono fingendo un’espressione scocciata. In realtà
riusciva a malapena a nascondere quanto era fiero di suo figlio e,
non appena lui non era nei paraggi, ne approfittava per gongolare
come un matto. «Smetterai mai di vantarti per aver superato
quell’esame?»
«Considerando il
voto che ho preso...» mormorò, arricciando poi le labbra come se ci
stesse riflettendo su. «...e nel caso vi fosse sfuggito, vorrei
ricordarvi che è stato il massimo.» sorrise, vedendo entrambi i
genitori sollevare lo sguardo verso il soffitto, e aggiunse: «E
soprattutto visto il fatto che in tutto il nostro corso solo io e
Danny ci siamo riusciti...» si soffermò ancora per qualche secondo
e concluse ancora con un sorriso spavaldo: «Be’ no, penso proprio
che non smetterò mai di ricordavi quale onore è avere un figlio
geniale come il sottoscritto.»
«Andiamo
Einstein.» sospirò Ben, passandogli un braccio attorno alle
spalle. «Vai a fare la tua colazione ipercalorica.»
«È inutile che
ci provi.» replicò Hunter, scendendo per primo le scale seguito da
entrambi i genitori. «Non riuscirai mai a farmi sentire in colpa per
le schifezze che mangio, e soprattutto non riuscirai mai a farmi
ingurgitare quella merda salutista che continui a cercare di
propinarmi.» raggiunse il tavolo ed afferrò la sua scatola di
cereali al cioccolato, versandone una quantità esagerata nella sua
ciotola con un sorrisetto quasi sadico. «Grassi saturi, a me!»
Ben sospirò con
rassegnazione ed aprì i giornale per controllare le ultime notizie,
sorseggiando il suo frullato di un poco invitante verdolino pallido,
mentre per Michael iniziò la sua giornaliera guerra per la conquista
della scatola di cereali, prima che Hunter riuscisse a terminarla
senza lasciargli neanche una briciola.
Ed era proprio
questo che Hunter amava di più della sua vita: la quotidianità
spensierata delle loro giornate. Le risate con cui iniziavano la
mattina, fatta di scherzi idioti e battutine acide; i sorrisi
soddisfatti della propria famiglia quando li rendeva fieri di lui e
la cena fatta di altrettante risate, scherzi e battute, prima della
classica riunione al Liberty Diner, o da Woody’s; e anche se non lo
avrebbe mai ammesso, perfino cene e pranzi a casa di nonna Debbie lo
rendevano felice.
A quel pensiero,
Hunter non riuscì ad impedire alle proprie labbra di distendersi in
un sorrisetto divertito e, per quanto tentò di nasconderlo prendendo
una nuova cucchiaiata di cereali, ai suoi attenti ed impiccioni
genitori non sfuggì affatto. «Che hai da ridacchiare adesso?»
chiese infatti Michael che, inutile dirlo, dei suoi due padri era il
più petulante curioso.
«Che ti frega?»
ribatté lui, mostrando la lingua con una smorfia.
Michael prese uno
dei cereali e glielo lanciò contro. «Mi frega dal momento che in
quella testolina potresti anche organizzare qualche strana pazzia.»
«Chi? Io?» si
finse sconvolto, prima di voltarsi verso l’altro genitore. «Ben,
diglielo tu a tuo marito che sono un angioletto.»
«Sì,
angioletto.» commentò Ben in risposta con sarcasmo, ripiegando con
cura maniacale il giornale. «Vedi di muoverti a finire il tuo
pastone o farai tardi.»
Hunter gli rivolse
l’ennesima smorfia scocciata e prese l’ultimo boccone di cereali,
prima di alzarsi ed andare a lavarsi i denti per poi recuperare il
piumino e le chiavi del lucchetto per la bici, ed avviarsi verso la
porta con noncuranza.
«Ehi,
principino!» lo richiamò Michael con un lieve tono di rimprovero.
«Sbaglio o quella è la tua ciotola?»
«Sì...e allora?»
«Pensi che ci
vada da sola nel lavabo?»
«No.» rispose
con una scrollata di spalle. «Contavo che ce la portassi tu. Esci
per ultimo e hai il compito di casalinga in questa casa!»
«Cosa?» domandò
sorpreso, cercando con lo sguardo un aiuto da parte del marito, che
contrariamente alle sue aspettative, si stava semplicemente sforzando
per non ridere. «E da quando sarebbe così?»
«Da quando fai la
mamma chioccia!» Hunter gli rivolse un sorriso furbo ed aprì la
porta di casa. «Cioè da sempre!»
«Aspetta di
tornare a casa stasera, signorino. Te lo faccio vedere io chi è
mamma chioccia.»
«Sì, sì...certo. A
stasera!» lo liquidò semplicemente, uscendo di casa seguito da Ben
e recuperando insieme a lui le biciclette, prima di raggiungere la strada
ed inforcarle.
«A che ora pensi
di tornare stasera?» gli chiese il padre, affiancandolo.
«Al solito.
Finite le lezioni resto con Danny in biblioteca e per cena sono a
casa.»
«Uhmmm.» mugugnò
l’uomo con un espressione fintamente sorpresa. «Hai deciso di fare
proprio sul serio, eh?»
«Perché? Avevi
qualche dubbio?»
Ben non gli
rispose immediatamente, ma gli rivolse un sorriso benevolo. «No.»
gli disse poi. «Certo che no. Nessun dubbio.»
Hunter ricambiò
quel sorriso e continuarono a pedalare affiancati, in silenzio ma
sereni, finché non giunsero al solito incrocio in cui, come ogni mattina,
presero direzioni diverse salutandosi con un altro sorriso.
Giunto ormai in
prossimità della propria università, Hunter tornò a sedersi sul
sellino e rallentò la corsa per evitare di travolgere qualcuno.
Varcò i cancelli e si diresse verso il parcheggio per biciclette
dove, come sempre, Danny lo stava aspettando avvolto dalla scia
di fumo della sua immancabile sigaretta.
Inchiodò
sgommando di lato e scese dalla bicicletta, per poi legarne la ruota
con la catena.
«Sei in ritardo.»
lo informò immediatamente il ragazzo, prendendo l’ultima boccata
di fumo per poi schiacciare il mozzicone a terra.
«Le mie mammine
stamattina erano più loquaci del solito.» si scusò Hunter, con un
sorriso divertito. Danny in fondo sapeva tutto – davvero tutto
– di lui.
Si erano
conosciuti per caso nei primi giorni di corso, e ancora per puro caso
aveva scoperto che anche lui faceva parte di una “famiglia
arcobaleno” – così come la definiva Danny – con la sola
differenza che lui aveva due mamme.
Da lì avevano
iniziato per gioco a chiamare “mammine” Ben e Hunter, e “papini”
le madri di Danny, dopo essersi raccontati aneddoti famigliari in cui
avevano constatato quanto paradossalmente i genitori di Hunter –
soprattutto Michael – somigliassero più a due chiocce
iperprotettive, rispetto all’altra coppia.
Ed era stato
proprio il fatto che Danny vivesse una realtà simile alla sua, che
aveva spinto Hunter a fidarsi e ad aprirsi piano, piano con lui, fino
a trovare anche il coraggio di confessargli del male che albergava nel
suo corpo.
Non era stato
certo facile, ma era stata come una liberazione e, seppur all’inizio
il ragazzo avesse manifestato un’ovvia sorpresa – più per il
fatto di esser venuto a conoscenza di ciò che la madre l’aveva
costretto a fare, che per l’HIV – aveva finito con lo scrollare
le spalle tranquillamente e con un sorriso gli aveva confessato che
anche alcuni amici delle loro madri vivevano la medesima situazione,
e che comunque non significava che fosse ancora realmente malato,
poiché non era affetto da AIDS.
Dopo quella
confessione non erano più ritornati sull’argomento, ma senza
dirglielo apertamente, Danny si era più volte offerto di
accompagnarlo in ospedale durante i controlli, e soprattutto aveva
sempre mantenuto il segreto, perfino con la propria famiglia.
Insieme avevano
conosciuto tante altre persone e formato un bel gruppetto, di cui
faceva parte anche la storica fidanzata dello stesso Danny, ma con
nessuno di loro, Hunter, era riuscito ad aprirsi tanto quanto con lui
e, anche se contava di riuscirci prima o poi, la realtà che stava
vivendo al momento gli andava più che bene.
«I miei papini
invece, stamani avevano un diavolo per capello.» ribatté Danny,
facendo una smorfia. «Periodo di spese. Quando arrivano le bollette
si trasformano in due iene...ed ovviamente la colpa ricade sullo
stronzo di turno e sul mio computer che, secondo loro, sta acceso
ventiquattr’ore su ventiquattro.»
«Il tuo computer
sta acceso ventiquattr’ore su ventiquattro.» puntualizzò
Hunter, con ironia, mentre si avviavano verso l’entrata.
«Sì, ma loro non
sanno neanche accenderlo, quindi come fanno a saperlo e accusarmi
di questo?»
«Fidati di me,
quando vogliono incolparti di qualcosa, hanno più risorse di quel
che credi!» ribatté sbuffando e ben ricordando a quali assurdi
sotterfugi era in grado di ricorrere Michael quando voleva rigirare
la frittata a suo favore.
«Sono due serpi.»
borbottò Danny in risposta, e fece per aggiungere altro, quando si rese conto che
Hunter – come ogni mattina del resto – si era incantato a fissare
la struttura della piscina coperta. «Perché non vai e t’iscrivi
ai corsi? Eri bravo, no?» gli disse allora, e lo vide scuotersi dai
suoi pensieri per voltarsi verso di lui.
«No, non
m’importa e poi non vorrei rischiare.» replicò con franchezza e
senza il bisogno di spiegazioni, visto che Danny era già a
conoscenza dell’episodio del liceo.
«Che io sappia il
nuoto non è uno sport di contatto, e quello che ti è successo è
stato solo un caso isolato.» si sistemò la tracolla sulla spalla ed
ammiccò. «Fossi in te riproverei.»
«Se mi dovessi
anche solo tagliare...»
«Dovresti avere
la sfiga tremenda di trovare proprio un persona altrettanto sfigata
che si è tagliata in quel momento o che ha una ferita aperta...senza
contare poi che la piscina non è una pozzanghera. Non infetteresti
nessuno, soprattutto perché la tua carica virale è bassa.»
«Non si può mai
sapere se...» ritentò di nuovo, ma Danny lo interruppe ancora una
volta.
«Sì che si può.
Si chiama statistica.»
«Le statistiche
hanno un margine d’errore.»
Danny roteò gli
occhi scocciato. «In una piscina olimpionica dove non è detto
che dovrai per forza spargere il tuo sangue come una bistecca
ambulante?»
«Non sei
divertente.»
«No, infatti.
Sono solo realista.» replicò, posandogli una mano sulla
spalla per fermarlo. «Ascolta...ogni volta che passiamo di qui è la
stessa storia. T’incanti a fissare quella cazzo di piscina. Ti
manca nuotare? Vai e torna a gareggiare.»
Hunter sbuffò e
riprese a camminare. «Non sono più neanche in forma.»
«Stronzate. Non
hai mica ottant’anni! In forma ci puoi sempre tornare e poi vai quasi
ogni giorno in palestra e neanche fumi come una ciminiera come me,
quindi che problemi hai?»
«Una cosa
chiamata HIV.»
«Che non mi pare
faccia affondare la gente o impedisca loro di nuotare, giusto?»
Hunter tentò di
replicare, ma dopo l’occhiataccia rivoltagli da Danny decise di
lasciar perdere. Quel ragazzo era anche più cocciuto di lui. «Ci
penserò.» borbottò allora e vide le sopracciglia dell’altro
inarcarsi.
«Dici sul serio o
mi prendi per il culo per farmi stare zitto?»
«Questo non te lo
dico.» sorrise in risposta, ed accelerò il passo salendo i pochi
gradini, così da concludere la discussione. Lanciò un’ultima
fugace occhiata a quella gigantesca struttura bianca e per un attimo
tornò ad immaginare la fresca sensazione dell’acqua che gli
scivolava addosso in una bracciata, o l’adrenalina precedente al
tuffo dalla piattaforma.
Era inutile
negarlo, il nuoto e le gare gli mancavano davvero. Erano state la
prima cosa in cui era riuscito a strapparsi una vera soddisfazione e
che l’avevano fatto sentire rinato, eppure la brutta storia
capitatagli ai tempi del liceo era ancora una ferita fin troppo viva
per essere dimenticata o almeno accantonata.
Ogni volta che
ripensava a quei bei pomeriggi passati ad allenarsi, tornavano anche le
occhiate di disgusto e paura che gli erano state rivolte, neanche
fosse stato un appestato.
Non voleva
rischiare di rivivere ancora quel momento, e forse, perché questo
non si verificasse ancora, doveva davvero dire definitivamente addio
al nuoto.
*'*'*
“Sleeping
with ghosts” – Placebo
Il Natale era
ormai alle porte.
Meno di una
settimana lo separava da quella festività e, da quando aveva fatto
ritorno nella Grande Mela – soprattutto dopo la breve telefonata ricevuta,
che Jace senza alcuna spiegazione, aveva capito essere da parte di
Brian – Justin si era rinchiuso nel suo loft tramutandosi in una
specie di cyborg eremita che trascorreva le sue giornate a dipingere,
fatta eccezione per le occasioni in cui Gary era piombato
personalmente a trascinarlo fuori da lì per farlo presenziare a
qualche evento.
Per giorni e notti
intere, Justin aveva inzuppato tele di colori, sfogando tristezza,
rabbia e speranza per riempire quel bianco candido e rigido, dando
vita a quello che era stato definito – e accolto con approvazione –
dai critici come un nuovo “periodo”,
che manteneva i caratteri cupi del precedente, ma che sembrava poter
sfociare in una via d’uscita,
grazie a degli schizzi di colori vivaci che riuscivano a rompere il
buio.
Nessuno però era
riuscito a spiegarsi il reale motivo di questo cambiamento; nessuno
ovviamente tranne Jace, che ben sapeva a cosa era dovuto.
Lui sapeva che
quella “via d’uscita” profumata di speranza aveva un nome e un
cognome: “Brian Kinney”; sapeva che dal momento in cui,
finalmente, le cose tra i due sembravano essersi almeno chiarite –
che l’amore, da parte di entrambi, non era mai finito – Justin
non pensava ad altro che non fosse l’idea di tornare a farsi
stringere da quelle braccia.
Eppure, nonostante
quel lieve barlume e quella consapevolezza, Jace proprio non riusciva
a togliersi di dosso quella brutta sensazione che gli era nata dentro
da quando avevano fatto ritorno nella “Grande Mela”.
Non riusciva ad
essere ottimista come Gary, né entusiasta come i galleristi e i
critici d’arte...perché lui non vedeva Justin come un’artista;
lui vedeva Justin come il suo più caro amico, ed assisteva in
silenzio al suo progressivo spegnersi.
Lo vedeva
annullarsi, assopirsi. Vedeva con chiarezza quella luce naturale di
cui sapeva risplendere, traballare e affievolirsi sempre di più,
come mai era successo prima di allora.
Era come se, per
imprimere la sua arte sulla tela, Justin attingesse alla propria
energia vitale e se ne privasse fino a svanire.
Gli occhi blu
splendenti erano ridotti a due pietre opache e vitree, stanche e
segnate da ombre scure; la pelle aveva assunto un pallore malsano e
le guance si erano scavate e sciupate lentamente, insieme a quelle
labbra solitamente rosee e piene, ormai screpolate e perennemente
statiche in una linea dritta e severa, su cui solo sporadicamente si
accennava il disegno di un sorriso.
Justin aveva
smesso di mangiare; di questo Jace ne era certo.
Ed era certo anche del fatto
che dormisse appena, solo quando crollava sul pavimento per la
stanchezza, senza neanche avere la forza per raggiungere il letto.
Non staccava mai
gli occhi dai suoi quadri e non impegnava le sue mani per altro che
non fosse il dipingere, concedendosi una pausa solo per farsi una
doccia e mangiucchiare qualcosa quando lui lo sgridava e lo
costringeva; o quando era la sua stessa mano ad imporgli con forza di
smettere, tremando come un’ossessa o straziandolo con i crampi.
Ma quello che più
lo angosciava e gli metteva tristezza, era il motivo per cui il suo
più caro amico si era ridotto così. Non perché avesse perso la
voglia di vivere, o perché fosse depresso...bensì perché era
affondato in uno strano tunnel che gli imponeva di lavorare a ritmi
impossibili, per poter far ritorno al più presto nella sua città
natale, tra le braccia del suo uomo...soprattutto dopo la telefonata
da lui ricevuta.
«Jus, ti vuoi
fermare un attimo?» gli chiese con un sospiro, avvicinandosi a lui.
Da ore ormai lo osservava dipingere e non l’aveva degnato neanche
di una parola.
«Non posso.»
replicò telegrafico l’altro, con gli occhi blu incollati alla
tela.
«Hai mangiato?»
«Eh?»
mormorò distratto. «Ah sì, sì.»
Jace aggrottò la
fronte contrariato. «Cosa hai mangiato? È
tutto intatto in cucina.»
«Ho mangiato.
Jace, per favore, ho da fare adesso.»
«Prenditi una
pausa. Stai crollando, non te ne accorgi?»
«Sto benissimo.»
rispose Justin, più nervoso. «Devo finire questi. Prima lo faccio,
prima torno a Pittsburgh. Non voglio mancare per Natale e se dipingo
abbastanza quadri, forse riesco anche a prolungare la mia permanenza
là.»
«Se non ti riposi
non arriverai neanche a domani, te ne rendi conto?!» replicò con un
tono più severo, nel vano tentativo di riuscire a farsi ascoltare,
ma per quanto Justin restasse sordo alle sue parole, la sua mano non
era del suo stesso avviso.
Come capitava
sempre più frequentemente da qualche giorno infatti, le dita allentarono
improvvisamente la presa sul pennello ed iniziarono a tremare. Era
come se il grande sforzo a cui Justin le aveva costrette dal suo
rientro a New York, queste glielo stessero facendo ripagare con
crampi sempre più frequenti e più dolorosi.
«‘Fanculo!»
imprecò il biondo artista,
stringendosi la mano quando il pennello cadde sul pavimento,
macchiandolo di schizzi blu.
«Lo vedi? Stai
esagerando.» lo rimproverò ancora Jace.
«Vaffanculo anche
tu.»
«Hai
intenzione di mandare a ‘fanculo
anche il resto del mondo, o credi di poterti almeno prendere una
pausa?»
«Non posso, io
devo...»
«Sì
che puoi.» lo interruppe rabbioso. «Non solo puoi, ma devi.
La tua mano non ce la fa più. Non lo vedi?»
Justin
per la prima volta si degnò di guardarlo, e Jace non poté far altro che constatare
quanto i suoi occhi blu fossero anche più infossati e stanchi di
quel che temeva. «Non
hai del lavoro da sbrigare?!»
«No.»
replicò secco. «Ricordi? Sono in vacanza.»
«Perché
non trovi qualcosa da fare?» ribatté Justin, piegandosi per
raccogliere il pennello; peccato che la sua mano fosse ancora in vena
di capricci e che si ribellò ancora al suo controllo, facendolo
infuriare ancora di più.
«Perché
ce l’ho
già.» commentò in risposta Jace, con un sorriso caustico. «Badare
ad un ragazzino nevrotico che non è capace di farlo da solo.»
«Io
so badare
a me stesso.»
«Ah,
lo vedo.» borbottò lui, indicando la mano su cui ancora non aveva
ripreso il controllo. Fece per aggiungere altro, ma il telefono di
casa prese a squillare e, sul display della piattaforma apparve il
nome di “Gary”.
«Rispondo
io.» mormorò Justin, afferrando il ricevitore. «Pronto?»
Jace
sbuffò contrariato.
Quando
era Gary a chiamare non erano mai
buone notizie. O meglio, lo erano per la carriera di Justin, ma
questo significava anche mille altri impegni che, ne era certo,
avrebbero sfiancato il giovane artista o l’avrebbero
portato sull’orlo di
una crisi di nervi.
«Sì,
certo.» lo sentì mormorare, scostandosi una ciocca di capelli
biondi dal viso. «No,
ok. Penso di farcela...sì, ciao.»
«Che
succede ancora?» gli domandò immediatamente, quando lo vide
riattaccare.
Justin
scosse la testa, ma dal modo in cui fissava il vuoto era chiaro che
per lui non fosse affatto una buona notizia. «Gary mi ha chiesto di
andare ad un evento stasera. Non ho capito di cosa si tratta. So solo
che passerà a prendermi verso le
otto.»
«Sta
scherzando...spero.» sibilò Jace, incrociando le braccia. «Non gli
sembra di averti schiavizzato abbastanza? È proprio necessario
che tu partecipi ad un’altra
delle sue stronzate?»
Justin
si passò una mano tra i capelli e finalmente riuscì a raccogliere
il pennello da terra. «Senti Jace, non lo so. L’unica
cosa che so è che voglio finire questo.» indicò il quadro non
ancora terminato e si morse le labbra. «Ma soprattutto voglio
tornare a casa...e se questo significa stringere i denti e sgobbare
per ancora un paio di giorni, lo farò.»
«Questo
non è sgobbare.
Questo è portarti allo sfinimento!» esclamò Jace, prenda di un
attacco di rabbia. «E vuoi sapere perché? Perché quello stronzo di
Gary di cui ti fidi tanto, lo fa apposta per non farti tornare
indietro.»
«Non
dire cazzate, Jace. Lo fa solo per la mia carriera.»
«Sì,
certo.» commentò il designer, in tono acido. Era la prima volta che
si sentiva così arrabbiato nei confronti di Justin; anzi, a dirla
tutta, non si era mai davvero arrabbiato con lui da quando lo
conosceva, e questo gli faceva anche più male. «Sai che ti dico?!
Fai un po’
quel che cazzo ti pare! Continua a dargli retta, dipingi fino a
svenire...almeno Natale lo passerai in ospedale invece che a
Pittsburgh!» gli diede un ultimo sguardo, sentendo il proprio cuore
creparsi nel momento in cui si rese conto del dispiacere che riempiva
gli occhi azzurri di Justin e, stringendo i pugni con forza fino a
sbiancare le proprie nocche, raggiunse la porta ed uscì di casa,
incapace di restare ancora a guardarlo distruggersi senza poter far
niente.
Dopo
più di un paio d’ore
trascorse a passeggiare a caso per le vie di New York, Jace decise di
sedersi in una delle panchine di Central Park, affondando il mento
nella sciarpa e le mani nelle tasche.
Sospirò,
giocherellando con i piedi con un sasso, mentre i suoi pensieri
ancora vagavano al primo e unico vero litigio avuto con Justin.
Era
così abbattuto per l’accaduto
che neanche la sua solita cura infallibile – lo shopping sfrenato –
sembrava poter funzionare.
Era passato perfino davanti ai negozi
della 5th
avenue, ma nessun brivido aveva solcato la sua schiena, ed aveva
osservato le vetrine senza il minimo interesse.
Male,
molto
male.
Emise
l’ennesimo
sospiro ed afferrò il cellulare ultramoderno con l’intenzione
di chiamare Justin, così da potersi scusare con lui prima di tornare
a casa, quando questo prese a trillare, mostrando sul display un
numero sconosciuto alla propria rubrica. Jace aggrottò la fronte,
cercando di ricordare se avesse mai visto prima quella sequenza di
numeri ma, non riconoscendola, si decise a rispondere: «Sì?»
«Eri
stato tu a dirmi che potevo chiamarti, ricordi?»
In
un primo momento restò interdetto per il suono di quella voce.
Raramente gli capitava di sentirne una femminile all’altro
capo del telefono. «Daphne?» chiese poi, visibilmente sorpreso, e
quella stessa voce gli confermò le sue supposizioni con una breve
risata cristallina.
«Indovinato.»
rispose poi, prima di tramutare il suo tono in uno scocciato, velato
di esasperazione. «Hai per caso la più pallida idea di dove si sia
cacciato quello che un tempo era il mio migliore amico?»
«Justin?
Dovrebbe essere in casa.»
«No,
non c’è.
Ho provato a chiamarlo quattro volte.»
«Hai
provato al cellulare?»
«Sì,
ma non starei chiamando te se mi avesse risposto.»
«Vero
anche questo.» replicò lui, ridacchiando per la stupidità della
sua domanda. «Senti, Daph...l’ultima
volta che l’ho
visto era in casa...» sentì un suono provenire dal proprio
cellulare e, soffermandosi per controllarlo, si accorse di un’altra
chiamata in attesa. «...ma credo che non ci sia, visto che mi sta
chiamando anche la donna delle pulizie. Come minimo non le ha
lasciato le chiavi. Di nuovo.» le disse in seguito, scuotendo la testa.
«Rispondo a lei e ti richiamo più tardi, ok?»
«Ok!
A dopo!» convenne la ragazza, con la sua inconfondibile voce
trillante. «E se trovi quell’idiota,
picchialo selvaggiamente da parte mia.»
«Sarà
fatto, ciao!» la salutò e premette il tasto per accettare l’altra
chiamata. «Sì?»
«Signor
Wilson!» strillò la donna, con il suo inconfondibile accento
sudamericano.
«Maria,
ma quante volte devo dirti di chiamarmi solo ‘Jace’?»
borbottò lui, senza prestare troppa attenzione alle parole sconnesse
della donna. «E poi che hai da urlare tanto?»
«Il
signor Taylor! Il signor Taylor!»
«Il
signor Taylor, cosa?!» ribatté lui, mentre il sangue iniziava a
gelarglisi nelle vene. Maria era una persona stupenda, un po’
troppo apprensiva forse, e che spesso faceva di una sciocchezza un
vero dramma, ma da quando si conoscevano non l’aveva
mai sentita così
agitata.
«Sta
male. Lui sta male. È a terra e non
muove.» balbettò
lei, faticando a gestire il proprio inglese con il respiro rotto.
«Non si muove.»
A
quelle parole Jace scattò immediatamente in piedi come una molla
e percepì il proprio stomaco attorcigliarsi in una stretta
dolorosa.
«Chiama un’ambulanza
e calmati.» scandì, con un groppo alla gola, rendendosi conto di
quanto quelle parole le avesse pronunciate soprattutto per se stesso
e per quel suo cuore che improvvisamente sembrava essersi bloccato.
«Sto venendo lì.»
*'*'*
“Running
up that hill” – Placebo
Brian varcò la
soglia del loft massaggiandosi la fronte.
Da qualche ora il
mal di testa non gli dava più tregua ed era uscito dalla Kinnetik
prima del solito, per raggiungere immediatamente casa e provare a
rilassarsi con una dormita.
Dal momento in cui
Justin aveva fatto ritorno a New York, il sonno non era più arrivato
tranquillo, e riusciva a mettere in fila a malapena tre o quattro
ore senza stupidi incubi a torturarlo.
Con uno sbuffò
lanciò la ventiquattr’ore
sul divano, per poi abbandonarvici anche la costosa giacca. Si tolse
le scarpe, abbandonandole in mezzo al loft e si gettò sul letto, per
poi sistemarsi supino e prendere a stropicciarsi le palpebre con
l’indice ed il
pollice, sperando di riuscire ad assopirsi. Respirò a fondo e fece
per alzarsi e prendere una delle sigarette, quando qualcosa lo
sorprese infrangendosi a terra con un rumore secco.
Brian aggrottò la
fronte infastidito, finché quel fastidio si tramutò in una strana
ed inspiegabile angoscia, nel momento in cui riconobbe l’oggetto
a terra.
Poggiato dalla
parte del vetro – ormai frantumato – verso il pavimento, stava
uno dei quadri di Justin; anzi...il quadro di Justin.
Non aveva bisogno
di voltarlo per sapere che quello era il primo quadro che gli aveva
dedicato: quello che lo ritraeva nudo nel letto del loft, quando
ancora la sua tecnica non era quella perfetta; quando ancora poteva
disegnare per ore ed ore senza dover fare i conti con il dolore alla
mano; quando ancora era poco più di un ragazzino innocente, eppure
anche così naturalmente bravo nel sesso, tanto da inebriarlo fin
dalla loro prima volta.
Si
sedette sul bordo del letto ed allungo una mano per afferrarlo,
lasciando cadere altri frammenti di vetro. Lo voltò verso di sé e
sfiorò quella figura delineata a lapis con il pollice. «Justin.»
sussurrò con filo di voce, mentre una sensazione fredda gli si
insinuava dentro.
Gli
aveva parlato pochi giorni prima ed era certo che stesse bene.
Doveva
essere per forza così.
E
allora perché quell’improvviso
brutto presentimento?
***
Note finali:
Come vedete sono ancora viva!
Sì, lo so che vi ho fatto aspettare un milione di anni per un capitolo che poi è anche quello che in assoluto mi piace di meno, per ogni tanto sono necessari, anche se rallentano un po'! Spero non vi sarete addormentate a metà. XD
Premetto che manco stavolta sono riuscita a rileggere il capitolo per bene.
Lo farò in seguito, con più calma, ma se voi trovate qualche errore, non esistate a dirmelo che mi fate un favore! XD Sono pigra, lo so!
Non c'è molto da dire, se non che ho tolto molto "britin" per
dare spazio ad altre vicende che comunque non posso lasciare in
sospeso...penso sia chiaro però che dal prossimo capitolo qualcosa cambierà.
Ah, per quello che è successo a Brian nell'ultima parte del
capitolo, be'...io non sono una che crede in cose come il destino o
simili, ma una volta mi è successa una cosa simile. In breve mio
cugino - a cui sono molto legata - ha fatto un incidente in moto, e
più o meno in quel momento una foto di noi due che avevo appesa
al muro è caduta da sola.
Probabilmente sarà stata solo una coincidenza, ma è stato
piuttosto inquietante! A voi è mai capitato?
Coooooooomunque, tralasciando certe cose, mi pare ovvio di dover passare alla cosa più importante: Ringraziamenti!
Un grazie a tutti coloro che sono arrivati alla fine di questo capitolo senza addormentarsi, a chi ha inserito la storia tra le seguite, le preferite o le ricordate, ma soprattutto grazie a: silver girl, mindyxx, electra23, Katie88, SusyJM, Thiliol, klaudia62, FREDDY335, EmmaAlicia79, agrumi e OfeliaCuorDiGhiaccio per aver recensito l'ultimo capitolo.
Grazie davvero!
Mi scuso ancora per l'attesa e prometto di metterci un po' meno con il prossimo.
Un bacio e a presto.
Veronica.