Ma i figli dei suoi figli hanno il trono
La
pioggia aveva
impregnato l’aria d’autunno e il vento umido
insinuatosi attraverso la
finestra
ne aveva sparso l’odore per la stanza, convincendo Elerad che
nemmeno i
tizzoni
crepitanti nel braciere avrebbero potuto impedirgli di rabbrividire se
si fosse
avventurato fuori dal letto. Aprì gli occhi senza che la
luce spenta
del giorno
gli desse alcun indizio circa il tempo passato da quando li aveva
chiusi e
contemplò stancamente la propria stanza, domandosi per
quanti giorni
ancora
avrebbe dovuto rimanervi confinato. Gli era stato detto che la
convalescenza
sarebbe durata finché non avesse ritrovato i propri colori
naturali,
così si
portò le mani davanti al volto fissando con avversione le
piccole
venature
violette che segnavano le nocche e le linee della mano, le unghie
ancora nere
laddove gli avambracci si erano schiariti del tutto. Sospirò
pesantemente,
seppellendo il volto nel cuscino, sperando che lo sferruzzare ritmico
della
vecchia Mereth lo aiutasse ad addormentarsi, invano. Avrebbe sopportato
tutto
più facilmente se gli fosse stato, per lo meno, concesso di
ricevere
visite, ma
il morbo scuro era quasi sempre mortale se contratto per la prima volta
dopo i
dieci anni di età e né i suoi genitori
né i suoi fratelli erano mai
passati
attraverso l’ordalia di febbre e membra doloranti da cui lui
non era
ancora
libero del tutto. A vegliare accanto a lui non era rimasta che la
vecchia
Mereth, la più anziana fra le serve di suo padre, che aveva
esaurito,
seduta
accanto al suo letto, infiniti gomitoli di lana grigia senza sembrare
troppo
impressionata dalle sue pene; talmente vetusta da apparire immune non
solo al
morbo scuro ma alla morte stessa. Era gentile, seppur duramente, e
raccontava
storie meravigliose, ma Elerad aveva sette anni e mezzo e voleva sua
madre.
«Non è
giusto.»
La
vecchia Mereth
non sollevò lo sguardo dal lavoro a maglia; le sue mani
ossute
indisturbate nel
loro movimento regolare, la sua voce logora e stridente come il
raschiare di
unghie sul ferro.
«È
quello che
avete detto ieri, mio piccolo lord, e ieri l’altro e il
giorno prima
ancora e
quello che lo ha preceduto e così via, indietro fino a
quando eravate
troppo
preda della febbre per proferire parola.»
Non era
vecchia,
era antica, Elerad si era trovato a pensare quando aveva provato a
contare le
rughe sul suo volto, scoprendo di non riuscire distinguerle
l’una
dall’altra
nell’intricata rete di solchi e pieghe che era la sua pelle
pallida.
C’era
qualcosa nella severa pazienza con cui l’assecondava che
sottintendeva
un
rimprovero ed Elerad si scoprì ad adirarsi per la vergogna
che quella
disapprovazione gli provocava.
«Chiudi
la
finestra, fa freddo.»
Voleva
solo
ricordarle quale fosse il suo posto, ma aveva scelto l’ordine
sbagliato; se ne
accorse non appena la vide abbassare i ferri e scuotere il capo con
espressione
vagamente condiscendente.
«Freddo?
Mio
piccolo lord delle verdi pianure, dov’è il freddo
nella pioggia
d’autunno?
Freddo è quando il respiro ti dilania il petto e le parole
appena
pronunciate
ti si congelano dinnanzi, mostrandoti la forma delle tue maledizioni e
dei tuoi
giuramenti. Il freddo è per le montagne del Sirenmat e
dell’Erghenmat,
per i
loro cieli glacialmente azzurri e il loro eterno inverno.»
La
vecchia Mereth
veniva da lì, gli era stato raccontato molte volte, da un
piccolo borgo
montano
nel ducato di Indekel, circondato da picchi perennemente innevati, un
luogo
dove le lacrime diventano ghiaccio prima di toccare le guance e ogni
suono
gioioso è destinato a perdersi nel vento tagliente. Suo
fratello Afelai
sosteneva fossero tutte sciocchezze, che non potesse esistere al mondo
un posto
freddo come quello, tuttavia gli occhi della vecchia Mereth erano
troppo chiari
per sembrare altro che lacrime congelate.
«Vai
avanti.
Racconta.»
Il
sorriso che
ottenne in risposta sarebbe sembrato saccente se solo si fosse dipinto
su un
volto meno raggrinzito e saggio.
«Ah, un
racconto.
Una storia dell’inverno? Volete sentire raccontare della
lunga marcia
verso
casa del duca di Bongarten? Oppure dell’esercito smarrito
nella
tempesta? Della
tribù fantasma che sconta la propria vergogna al di
là delle montagne?
Delle
ventisette eterne sentinelle di ghiaccio?»
Sua
madre non
approvava nessuna di quelle storie, ritenendole troppo cupe per un
bambino della
sua età, ma gli abitanti del Sirenmat, che portavano i
propri figli in
battaglia dal loro undicesimo anno di vita, reputavano che proteggere i
bambini
dalla paura impedisse loro di diventare uomini e la vecchia Mereth gli
aveva
narrato tutti i racconti proibiti, fino a quando non ne era rimasto
più
nessuno
in grado di tenerlo sveglio la notte.
«Una
storia nuova,
la storia di un grande guerriero. Io sarò un grande
guerriero un
giorno: forte,
giusto e nobile, come Deron l’Audace.»
Nonostante
adorasse il brivido freddo che gli davano le storie invernali della
vecchia
Mereth, quelle di Deron di Laverlia restavano le sue predilette; forse
perché
era riuscito a scrivere il proprio nome nella leggenda sebbene fosse,
come lui,
il secondogenito di una casa minore. Sua madre gli accarezzava sempre i
capelli
quando cantava delle sue gesta.
La
vecchia Mereth
sbuffò appena con sufficienza.
«Uno
sciocco
ragazzino delle pianure, troppo stupido per fare altro che cavalcare
molto
valorosamente verso una morte eccessivamente osannata, la testa troppo
piena di
sciocchezze cortesi per capire che la guerra non somiglia in nulla ad
un torneo
e gli uomini non combattono per l’onore o per il favore di
una dama.»
«Per
cosa
combattono, allora?»
Era di
nuovo
adirato, tuttavia la stizza delle sue parole sembrò non
raggiungere la
vecchia
Mereth che lo fissava, seria come la morte, con i suoi grandi occhi
troppo
chiari.
«Per il
potere.»
Elerad
scosse
energicamente la testa, cercando di nascondere con l’enfasi
del diniego
l’insicurezza che si era insinuata in lui.
«Non è
vero! Solo
i cattivi lo fanno e vengono sempre sconfitti.»
La
risata della
vecchia Mereth echeggiò nella stanza, acuta e stridula come
il
gracchiare di
una cornacchia nella notte, priva di divertimento, ma carica di
scherno, come
la risata di una strega.
«Oh,
bambino mio.»
«Non
sono il tuo
bambino, sono il tuo lord.»
Parve ad
Elerad
che la durezza della propria replica non avesse fatto che accentuare il
sogghigno tagliente sul volto della vecchia Mereth; si
ritrovò a
fuggirne lo
sguardo contro la propria volontà, spinto da una sottile
inquietudine.
«Sì, lo
siete. La
storia di un grande guerriero dunque, la storia di Arbitrio.»
Elerad
annuì
severamente, non del tutto dimentico del proprio disagio, ma
già
proteso verso
il fascino della narrazione.
«Spero
che abbiate
dormito abbastanza quest’oggi, mio piccolo lord,
perché quella lungo la
quale
stiamo per avventurarci è una lunga strada e la notte
potrebbe
sorprenderci
prima di giungere a metà percorso. Dovremo allontanarci
dalle verdi
pianure
dell’Erenlan, dai lord minori che devono una
fedeltà flebile e
irrilevante
direttamente all’imperatore, e spingerci fino alle colline
del Sirenmat
e alla
piana di Usen dove, generazione dopo generazione, il conte riceve
omaggio
feudale dai figli dei vassalli del proprio padre. Dovremo abbandonare
la luce
ovattata di questa nebbiosa giornata autunnale e risalire fino a soli
tramontati in un tempo lontano, anche se non remoto al punto da far
scordare a
chi la racconti che questa è una storia vera.
Darennon
di Darme,
conte del Latenlan, era ormai imperatore da due decadi quando
portò
dinnanzi al
Consiglio dei dieci l’annosa questione
dell’unificazione del diritto di
successione, tentando di costringere i lord di Erghenmat e Sirenmat ad
abbandonare
l’antica legge, che impone a un uomo di scegliere in base al
merito il
figlio
destinato a succedergli, per uniformarsi al diritto di primogenitura
vigente
nel resto dell’ impero. Fu un fallimento. L’obbligo
di sposare la
primogenitura
venne mitigato in una calda raccomandazione imperiale ad avviare un
processo di
ammodernamento del diritto di successione, il consiglio fu sciolto e i
conti
elettori lasciarono la capitale. È a questo momento che
dobbiamo
risalire,
quando, percorrendo la via del ritorno, il conte Haldric di Usen, ormai
avanti
negli anni, si domandò per la prima volta chi avrebbe dovuto
nominare
quale
proprio erede. Si era erto sicuro e fiero in difesa della tradizione
dei propri
antenati, tuttavia, durante la lunga cavalcata verso casa,
invidiò
diverse
volte un criterio facile e nitido come la primogenitura: il signore di
Usen
aveva due figli.»
Elerad
sussultò
nel riconoscere quelle parole e interruppe la vecchia Mereth con
eccitazione.
«Conosco
questa
canzone: "Il conte di Usen aveva due figli / l’uno era saggio
gentile e
sincero /
uomo di pace e di miti consigli / l’altro era alto, un forte
guerriero /
implacabile indomito e fiero / pieno d’orgoglio ma vuoto di
buono / forse
da Dio
non avrà mai perdono / ma… non so cosa venga dopo
il ma.»
L’aveva
udita anni
prima, attraversando il Borgo Esterno, cantata da bambini sporchi e
felici per
tenere il tempo mentre giocavano alla merla; al loro passaggio si erano
interrotti indicandosi la carrozza l’un l’altro con
divertimento,
meraviglia e
un certo timore. Elerad ricordava di avere chiesto di cosa cantassero,
aveva
sempre amato ballate, filastrocche e componimenti in rima, ma sua madre
aveva
scosso il capo con condiscendenza, «è solo la
storia di due fratelli»,
aveva
detto; sua madre non era mai stata brava a mentire. Aveva posto la
stessa
domanda al proprio precettore, ma questi si era limitato a correggerlo
con
scocciato puntiglio, «Il conte del Sirenmat o il signore di
Usen, mai
il conte
di Usen: Usen è la capitale del Sirenmat e la stirpe degli
Usen tiene
la città
e la contea da più di ventitré
generazioni»; perché i due figli del
conte
meritassero una canzone non gli era stato detto.
«Non
penso alla
lady mia madre piacerebbe che tu mi stia raccontando questa
storia.»
La
vecchia Mereth
sorrise, superiore e complice insieme, ed Elerad pensò di
essere un
bambino
davvero cattivo quando non poté fare a meno di sorriderle a
propria
volta.
«Cosa
c’è di così
speciale nella storia di questi due fratelli?»
«Non è
la storia
di due fratelli, ve l’ho già detto, è
la storia di Arbitrio, ma se vi
fa
piacere inizieremo dai due fratelli.
Il
signore di Usen
aveva due figli; Seragen, il maggiore, dai capelli di grano e la voce
di miele
ed Hartaigen di cinque anni più giovane, ma di cinque lame
più alto,
gli occhi
azzurri come il cielo d’estate e il sorriso tagliente come il
vento
d’inverno,
entrambi amati dal popolo e degni di succedere al proprio padre sul
seggio del
Sirenmat. Fin dall’infanzia, infatti, tanto Seragen quanto
Hartaigen
avevano
dato prova di possedere doti tanto diverse quanto confacenti a un
regnante. Si
dice che l’Imperatore perfetto debba essere forte ma
misericordioso,
severo ma
giusto, combattivo ma paziente e, poiché Hartaigen aveva
l’animo duro
del
guerriero e Seragen quello misurato del saggio, non pochi erano giunti
a
credere che se fossero stati un solo uomo non vi sarebbe stato nessuno
maggiormente degno di regnare su tutte le nazioni.
Benedetto
da due
simili figli, il conte Haldric era tuttavia maledetto dalla presenza di
due
fazioni fra i nobili che gli dovevano omaggio feudale. Laddove,
infatti, i
duchi di Borngarten e di Indekel desideravano espandersi a Nord per
porre sotto
il giogo del Sirenmat le genti barbare che dimorano oltre le montagne,
il duca
di Ferlev ed i marchesi di Igher e di Erberoth aspiravano a quella
dorata
prosperità che arride a chi mantiene pacifiche relazioni con
i propri
vicini e,
poiché oltre a bramare sorti diverse per la stessa terra,
gli Indekel e
i
Bongarten erano ancora duri come la pietra e freddi come
l’inverno,
mentre i
Ferlev si erano fatti nel tempo più simili ai pacati signori
delle
pianure con
cui volevano stipulare accordi e contrarre matrimoni, gli uni
guardavano agli
altri con diffidenza e disprezzo; i duchi del Nord vedevano nei nobili
del Sud
una minaccia che incombeva sui costumi dei propri antenati e questi
giudicavano
i signori delle montagne troppo ancorati ad un tempo glorioso, ma
passato.
Aerdil
di Viriale
fece incidere sul proprio trono che la chiave della concordia
è
l’equilibrio e
invero Haldric di Usen mantenne l’equilibrio fra le parti,
concedendo
ai duchi
di Bongarten e di Indekel il proprio figlio Hartaigen,
perché guidasse
i loro
eserciti a insanguinare le montagne, e al duca di Ferlev il proprio
figlio
Seragen perché prendesse sua figlia in sposa e concedesse il
libero
commercio
con le contee confinanti come dono di nozze. Nessun equilibrio,
tuttavia, può
durare per sempre e, come il signore di Viriale ebbe a imparare quando
venne
assassinato, così questa amara verità si
presentò agli occhi del conte
del
Sirenmat quando, cavalcando da Naska a Usen, si rese conto che
nonostante fosse
riuscito a evitare di scegliere fra le due fazioni sarebbe presto stato
obbligato a farlo fra i propri figli. Questo oscuro pensiero
avvelenò
ogni
miglio del suo viaggio e né le immense pianure tratteggiate
con i caldi
colori
dell’autunno che percorreva di giorno, né i cieli
tersi puntellati di
stelle
che scrutava di notte riuscirono a distoglierlo dal suo dilemma. Quando
giunse
in vista delle colline del Sirenmat, tuttavia, venne raggiunto da un
messo che
recava con un sé una lettera che era anche la
soluzione.»
«Una
lettera? »
Elerad
percepì la
propria voce come un fruscio di vento aleggiante intorno al signore del
Sirenmat.
«Una
lettera, mio
piccolo lord, l’annuncio di una grande vittoria. Suo figlio
Hartaigen
aveva
dato battaglia al più grande esercito che le
tribù barbare avessero
radunato
dalla caduta di Aodosse e l’aveva disperso come polvere al
vento,
calpestato
come fango delle strade, la terra stessa aveva sussultato di fronte
alla sua
furia e un fiume di sangue aveva tinto la neve di morte.
“Anche le
montagne lo
temono e tremano” avevano gridato i soldati portandolo in
trionfo;
l’armatura
nera ammaccata e sudicia, l’elmo abbandonato fra i cadaveri,
i capelli
chiari e
sudati ancora appiccicati al collo, ammantato della bellezza sporca che
può
avere solo un vincitore, del senso di onnipotenza che dovrebbe avere
solo un
dio. Fu leggendo quelle parole che Haldric di Usen seppe che sarebbe
stato
Seragen a succedergli.»
Eleread
sussultò,
sgranando gli occhi con la stessa indignazione frustrata che gli
ribolliva
nelle vene ogni qual volta i suoi successi venivano ignorati in favore
di
quelli di Afelai.
«Ma lui
aveva
vinto!»
«Proprio
per
questo.»
Nel
breve silenzio
che ne seguì, Elerad fu sul punto di dare voce
all’accorata protesta
del
proprio cuore, tuttavia la vecchia Mereth riprese a parlare, facendo
danzare il
filo fra le sue dite ossute, prima che lui potesse proferire parola .
«Aveva
sempre
vinto. Aveva sconfitto la tribù del lupo nella Valle Chiusa,
sbaragliato la
tribù della lince presso il Passo del Monte Renf,
inseguendola a marce
forzate
nella Valle degli Echi per massacrarla fino all’ultimo uomo.
Era emerso
vincitore da ogni torneo tenuto nella piana di Usen, piegando il
fratello del
duca di Bongarten, il campione del duca di Ferlev e l’erede
degli
Igher. Aveva
umiliato persino il proprio fratello, costringendolo a guardare verso
la
propria novella sposa prima di permettergli di risollevarsi dalla
polvere dove
l’aveva oppresso, per abbracciarlo. Hartaigen non aveva mai
conosciuto
la
sconfitta, né il compromesso, né la prudenza;
aveva abbattuto ogni
ostacolo che
gli si fosse parato davanti scagliandovisi contro con determinazione e
diventare conte non lo avrebbe cambiato, non si sarebbe mai fermato,
avrebbe
innalzato i vessilli del Sirenmat e veleggiato su un mare di sangue
verso il
proprio obiettivo, fino alla vittoria, o alla morte. Haldric di Usen
comprese
che non avrebbe potuto permetterglielo, così
gettò nel fuoco l’annuncio
della
più grande vittoria che un generale del Sirenmat avesse mai
riportato
e,
osservando le parole farsi cenere, seppe che non appena la guerra fosse
finita
avrebbe ufficialmente nominato Seragen quale proprio erede.»
Elerad
annuì lentamente,
colpito dal suono avveduto di quelle ragioni, tuttavia restio ad
abbandonare
l’immagine abbacinante del giovane generale portato in
trionfo.
«Perché
Seragen
era più saggio, giusto?»
«Come
dice la
vostra canzonetta, era “saggio gentile e sincero, un uomo di
pace e di
miti
consigli”. Hartaigen non era nessuna di queste cose; era
forte, era
orgoglioso,
era fiero, feroce, a tratti persino crudele, e nel profondo del proprio
cuore,
anche se non l’avrebbe mai confessato neppure a se stesso, il
conte
Haldric
aveva paura di lui. Si diceva che Hartaigen avesse visitato una donna
sola.»
Elerad
trattenne
un respiro inquieto, il solo nome delle streghe delle montagne era in
grado di
insinuare in lui una sottile e indecifrabile angoscia. Nel tempo aveva
sconfitto il proprio terrore cieco per i mostri delle saghe nordiche,
le donne
sole, tuttavia, non erano come gli antichi demoni bramosi di morte e
sofferenza
o gli orchi dalle enormi fauci sempre avide di carne umana; le donne
sole erano
reali. Più vecchie delle montagne e più aspre
dell’inverno, conoscevano
tutto,
potevano tutto e concedevano tutto a quelli abbastanza coraggiosi, o
folli, da
inerpicarsi per sentieri solitari fino alle loro piccole dimore
isolate, salvo
poi prendere qualcosa in cambio, perché tutto ha un prezzo;
e il prezzo
delle
donne sole si diceva fosse tale da rendere ogni loro dono amaro.
«Cosa
chiese?»
«Furono
in molti a
domandarselo e molte risposte vennero formulate
nell’oscurità; alcuni
sussurrarono avesse lasciato l’accampamento nella notte, il
cuore
smanioso di
vittoria, e non vi avesse fatto ritorno prima che questa gli fosse
stata
garantita in eterno, altri si dicevano certi avesse sfoderato la
propria spada
dinnanzi alla donna sola perché il suo tocco la rendesse
capace di
spezzare
ogni altra lama e trafiggere ogni carne, per altri ancora aveva inteso
assicurarsi il perdurare della propria stirpe sino alla fine dei
giorni. Quale
di queste storie corrisponda a verità è
impossibile a sapersi: forse
tutte,
forse nessuna. Forse non vi furono mai null’altro che voci
nella notte.
Ad
Haldric di Usen, tuttavia, bastarono quelle voci per
rabbrividire.»
La
vecchia Mereth
interruppe il proprio racconto per raccogliere un nuovo gomitolo dalla
cesta ai
propri piedi ed Elerad si accorse di avere freddo, tuttavia quando
questa
riprese a parlare se ne dimenticò.
«Seragen
dunque;
la scelta era stata presa ed Haldric di Usen volle aspettare la
conclusione
della guerra contro i barbari per comunicarla; la morte, tuttavia,
decise di
non attendere con lui. Neppure tre mesi dopo il proprio ritorno dalla
capitale
il conte del Sirenmat si ammalò gravemente e fu costretto a
nominare il
proprio
erede sul letto di morte invece che nella sala del trono, in presenza
del solo
duca di Ferlev e dei notabili di palazzo invece che dinnanzi a tutti i
propri
vassalli; si dispiacque di non poter abbracciare un’ultima
volta il
figlio
minore, diede la propria benedizione a Seragen e alla sua sposa,
augurandosi
che il Sirenmat godesse di concordia e fortuna sotto la loro guida e,
infine,
spirò.
Tutta la
città di
Usen lo pianse ininterrottamente per tredici giorni, alimentando la sua
immensa
pira funebre in segno di lutto profondo e, quando tutte le
manifestazioni di
cordoglio furono cessate, Seragen sedette pubblicamente sul seggio del
proprio
padre, acclamato da una folla festante mentre proclamava la fine
imminente
della guerra contro i barbari e l’avvento di una lunga e
prospera epoca
di
pace. Il giorno in cui questo avvenne fu anche quello in cui la notizia
della morte
di suo padre e dell’ascesa al trono di suo fratello giunse
sino ad
Hartaigen.
Ogni soldato del suo esercito bruciò una fiaccola in onore
di Haldric
di Usen,
Conte del Sirenmat, Scudo del Nord e Protettore del Passo delle
Partenze e
Hartaigen lo pianse senza lacrime osservando la valle rischiarata nella
notte.
All’alba,
quando
ogni torcia si era ormai consumata, fece radunare l’intero
esercito e,
mentre i
vessilli della casa degli Usen garrivano gonfiati dal freddo vento del
Nord, si
rivolse agli astanti con voce di tuono.
«La pira
di mio
padre non è ancora fredda e già mio fratello
occupa il mio seggio. Il
figlio
che è stato sconfitto si è insediato al posto del
più valoroso e degno.
Io sono
il Conte del Sirenmat, non permetterò a nessuno di usurpare
il mio
destino.»
La luce
del
mattino si irradiava alle sue spalle ed egli non era per i suoi soldati
che una
sagoma scura nell’abbagliante sorgere del sole,
un’aureola di capelli
chiari
intorno ad un volto su cui potevano solo immaginare fosse scolpita la
stessa
solennità della sua voce.
«Questa
guerra è
finita. Marceremo su Usen.»
Spalancò
le
braccia.
«A
prendere quello
che mi spetta!»
L’eco
del boato
che ebbe in risposta non si spense per molto tempo.»
Elerad
si levò a
sedere di scatto assecondando il battito del proprio cuore, la mani
arpionate
alla coperta, le nocche viola dolorosamente in mostra.
«Non può
averlo
fatto davvero!»
La
vecchia Mereth
sospirò con qualcosa di simile alla rassegnazione
infastidita di un
precettore
che si trovi di fronte ad un allievo sciocco.
«Qual è
il motto
dei conti del Sirenmat?»
«“Il mio
valore e
il mio volere.”»
Un
sorriso
affilato tagliò il volto della vecchia Mereth, mentre la
luce sempre
più fioca
permetteva alle ombre della sera di emergere dalle sue profonde rughe.
«E che
cosa
significa?»
Porre la
domanda
non aveva impedito alla vecchia Mereth di continuare a sorridere,
mettendo in
mostra una fila di denti incredibilmente bianchi e sproporzionatamente
piccoli,
ed Elerad si sentì in qualche modo intimidito. Ebbe
l’impressione che
la
risposta alla domanda fosse estremamente importante e che la vecchia
Mereth non
si aspettasse che lui fosse in grado di darla.
«Che
bisogna
essere valorosi e volenterosi. Credo.»
La
risata stridula
e beffarda che ebbe in risposta inondò la stanza dando
inizio al
crepuscolo.
«Significa
che
l’unica cosa che dia diritto a realizzare il proprio volere
è il
proprio
valore. Nessuna giustizia oltre alla forza è mai davvero
valsa nel
Sirenmat,
per questo il conte deve essere forte e Hartaigen era forte, per questo
i suoi
soldati lo seguirono. Era forte e credeva che le sole cose a contare
fossero il
suo valore e il suo volere; alla sua spada, quella che si diceva avesse
sfoderato dinnanzi alla donna sola perché lo guidasse alla
perpetua
vittoria,
aveva dato il nome di “Arbitrio” e così
avevano preso a chiamarlo i
suoi stessi
uomini, secondo l’antica tradizione della gente del Sirenmat
di
identificare il
guerriero con la sua spada.»
Elerad
chiuse gli
occhi e per un attimo ebbe paura di sapere come sarebbe proseguita la
storia di
un uomo che portava il nome di una spada e guidava un esercito contro
il
proprio fratello, tuttavia scivolò nuovamente sotto la
coperta
aspettando che
la vecchia Mereth riprendesse il proprio racconto.
«È una
lunga
marcia dalle montagne a Usen, così Hartaigen prese la via
del Sud con
metodica
calma. Promise di sposare la figlia del duca Herrat di Indekel e di
congiungere
in matrimonio il proprio erede con la stirpe dei Bongarten e i due
duchi
scesero in guerra con lui, l’esercito di Indekel
accompagnandolo nel
suo
piegare verso Est, quello dei Bongarten discendendo da Ovest.
Attraversò
lentamente le terre delle colline, chiedendo ad ogni lord di giurargli
fedeltà
o di dare battaglia e accettare la fine del proprio lignaggio. Infine,
quando
poté dirsi sicuro di non lasciare alle proprie spalle altro
che
vassalli a sé
fedeli, mosse verso la capitale, certo di andare incontro
all’esercito
che
Seragen aveva nel frattempo radunato contro di lui. Questo avvenne
presso il
guado del Tirinnir. Il Tirinnir, mio piccolo lord, è un
grande fiume
che scorre
ancor più rapido e violento dopo aver accolto
l’Erdn nel proprio corso,
poco
più a valle del punto dove, scorrendo i due fiumi
affiancati, è
possibile
guadarli entrambi lungo la stessa strada. Ogni generale vi direbbe che
dare
battaglia in un tale luogo è estremamente sfavorevole per
chi, guadato
il primo
fiume, cerchi di superare anche il secondo per raggiungere un esercito
nemico
superiore di numero. Eppure così sembrò fare
Arbitrio in quella lontana
mattina
di fine estate, quando alla testa del proprio esercito
oltrepassò il
Tirinnir e
schierò le proprie truppe lungo il guado
dell’Erdn, erigendosi egli
stesso,
solido come la statua di un re, davanti ai propri uomini per ascoltare
le
parole che suo fratello, a capo dei guerrieri in attesa
dall’altra
parte del
fiume, insisteva a volergli rivolgere.
«Ti
prego,
fratello, ferma questa follia. La tua rabbia mi ferisce, non desidero
recarti
alcun male, solo far rispettare la volontà di nostro
padre»
Sembrarono
a chi
stava a guardarli quel giorno più simili di quanto non
fossero mai
stati:
entrambi alti e splendidi nelle loro armature, entrambi in qualche
modo,
secondo qualche principio, il Conte del Sirenmat; tuttavia non era
destinato a
durare perché, se Seragen cercava la conciliazione,
Hartaigen non
voleva altro
che il trionfo.
«Ti
prego,
Hartaigen, sai quanto me che la parola del Conte sulla successione
è
legge.»
Hartaigen
sorrise,
sollevando lentamente le braccia sotto lo sguardo silenzioso e attento
di due
armate, portando le mani all’altezza delle ampie spalle prima
di
scandire la
risposta con la sua voce forte e profonda.
«Non
vedo
l’esercito di questa Legge!»
Il suo
esercito si
lanciò alla carica.
Non
siete mai
stato nel tumulto della battaglia, mio piccolo lord: dovete immaginare
confusione, sangue, sudore, fatica, eccitazione e paura, tutte
mischiate
insieme, e l’acqua, poiché stavano combattendo sul
guado dell’Erdn ed
ogni uomo
che venisse abbattuto dai colpi dei nemici era destinato a venire
trascinato
verso la morte dalla propria stessa armatura. D’improvviso,
perché
sempre
d’improvviso avvengono le cose nelle battaglie,
l’esercito di Hartaigen
entrò
in rotta e parve a Seragen di vedere il proprio valoroso fratello in
persona
darsi alla fuga in maniera scomposta. Ordinò di guadare
l’Erdn per
annientare
l’esercito di Hartaigen, sapendo che il più
difficile guado del
Tirinnir gli
avrebbe tagliato la strada. Solo quando ormai fu troppo tardi
udì un
corno da
guerra risuonare alle proprie spalle mentre le truppe guidate da
Hannekin di
Bongarten, che tempo prima si erano separate dal resto
dell’esercito di
Hartaigen volgendo a Ovest, si abbattevano sulle sue forze.
Capì che
suo
fratello aveva soltanto inscenato la propria rotta e comprese di essere
stato
sconfitto. Entro un’ora Seragen, il duca di Ferlev e i lord
loro
alleati
seguivano quali prigionieri l’avanzata di Hartaigen verso
Usen,
Non
entrò nella
capitale in trionfo, bensì al fianco del fratello, sebbene
questi fosse
visibilmente in catene. Fece acquartierare le truppe e
invocò un
Giudizio di
Dio, convocando a Usen tutti i nobili della contea perché
potessero
assistere.
Non ne avrebbe avuto bisogno in realtà, poiché
sconfiggendo il fratello
in battaglia
aveva già dimostrato di essere il figlio più
valoroso e quindi il solo
adatto
alla successione; tuttavia fece portare lo scranno del proprio padre
nella
piazza dinnanzi al palazzo e attese che tutti i grandi e piccoli
vassalli del
Sirenmat si presentassero nella capitale. Quando tutti ebbero preso
posto nella
piazza e l’intera città fu avvolta da un cupo
silenzio, i due fratelli
si
affrontarono in duello davanti a Dio, agli uomini e al seggio del
Sirenmat.
Com’era avvenuto anni prima, durante la contesa tenutasi in
onore del
matrimonio di Seragen, Hartaigen schiacciò il fratello nella
polvere e
gli
tenne la guancia premuta sul ciottolato stringendogli la testa con la
sua mano
forte quanto immensa.
«Di' che
sono il
conte.»
Seragen
boccheggiò
e calde lacrime bagnarono le sue guance, guardò verso la
propria
moglie, la
dolce fanciulla di Ferlev che lo amava nonostante non fosse il
guerriero
migliore, e desiderò poter sedere accanto a lei ancora una
volta.
«Hai
vinto,
fratello.»
«Di' che
sono il
conte!»
Il capo
costretto
nella morsa delle sue dita, non poteva voltarsi per osservare il
proprio
fratello, così come non aveva potuto farlo in passato quando
si erano
trovati
nella stessa posizione. Ricordava che, dopo averlo infine lasciato
andare,
Hartaigen l’avesse abbracciato con affetto.
«Tu sei
il conte.»
Arbitrio
gli
tagliò la testa.»
Non
avrebbe saputo
dire perché, ma figurandosi la scena tutto quello che vide
fu il capo
di Afelai
ruzzolare al suolo sgorgando sangue, gli occhi di Afelai inondati di
pianto e
di paura; ad impugnare la spada uno sconosciuto dagli occhi privi di
calore e
il sorriso privo di emozione. Sentì le proprie lacrime,
sporche e
corrotte dal
morbo scuro, bruciare lungo le guance.
«Ma era
suo
fratello.»
«Sì, e
lo amava,
ma amava di più se stesso.»
Come se
quelle
parole l’avessero chiamata, Elerad si accorse che era giunta
la notte.
«Mentre
il sangue
di Seragen si mischiava alla polvere, Hartaigen sedette sullo scranno
che era
stato di suo padre e attese che uno a uno tutti i nobili piegassero il
ginocchio al suo cospetto facendo pubblica professione di
fedeltà e
sottomissione. Fu il suo trionfo, eppure nessuno lo vide sorridere.
Fece
innalzare per
suo fratello Seragen la più alta pira che fosse stata eretta
a memoria
d’uomo e
rimase ad osservarla bruciare, sedendo immobile e solenne sul freddo
seggio di
pietra che aveva conquistato con il sangue, senza mostrare alcun
sentimento. La
moglie di Seragen stette per tre giorni e tre notti in piedi accanto ad
Hartaigen, composta in un pianto silenzioso; all’alba del
terzo giorno,
quando
ormai ebbe esaurito tutte le lacrime che fosse possibile piangere,
lasciò la
sinistra del trono e si gettò nelle fiamme. Hartaigen
l’aveva sempre
amata,
tuttavia sapeva che portava in grembo il figlio di suo fratello,
così
rimase a
guardare, alzando la mano destra perché le guardie non la
soccorressero; non
una lacrima di dolore uscì dai suoi occhi, così
come mai una parola
d’amore era
uscita dalle sue labbra.»
«La
lasciò morire?
Ma hai detto che l’amava!»
«L’amava
infatti,
ma, come ho detto, amava di più se stesso.»
La
vecchia Mereth
sfilò delicatamente i ferri dal quadrato di maglia grigia
che aveva
preso forma
fra le sue mani e li ripose nella cesta, estraendo un quadrato in tutto
e per
tutto identico a quello che teneva sulle ginocchia e una matassina il
cui filo,
Elerad si avvide, era già saldamente annodato alla cruna di
un ago. Si
domandò
come potesse cucire i due pezzi insieme quando la luce del braciere non
aveva
altro effetto che rendere acutamente consapevoli delle tenebre della
stanza, ma
la vecchia Mereth era anziana e i vecchi, gli era stato detto,
sembravano
vedere più con le mani e con la memoria che con gli occhi.
«La
notizia della
sua ascesa al trono si diffuse rapidamente per tutto
l’impero.
Hartaigen di
Usen, Conte del Sirenmat, Scudo del Nord, Protettore del Passo delle
Partenze,
Signore secondo l’Antica Legge non giurò mai
fedeltà all’imperatore e
l’imperatore non ufficializzò mai la sua nomina,
sebbene non potesse
impedirgli
di esprimere il voto del Sirenmat nel consiglio sedendo sul seggio di
pietra
nera che apparteneva da sempre ai signori di Usen.
Sposò
Etieth di
Indekel e, poiché dopo cinque anni di matrimonio questa non
era ancora
riuscita
a generare il suo erede, Hartaigen prese con sé il primo
nato fra i
propri
bastardi e l’allevò nella propria casa, portandolo
a combattere nelle
proprie
battaglie e permettendogli di chiamarlo padre. Dreilt si chiamava e fu
la luce
degli occhi di Abritrio, fino a quando non dovette ucciderlo.»
Elerad
si accorse
di non avere più energia per sconvolgersi e si
accomodò meglio sotto la
coperta
senza domandare come avesse potuto farlo; attese soltanto che la
vecchia Mereth
andasse avanti a raccontare, cucendo insieme tutti i riquadri di lana
che aveva
lavorato a maglia durante la sua malattia.
«Crebbe
alto,
coraggioso e forte, figlio del proprio padre nella prodezza e
nell’ambizione e,
appena ebbe raggiunto l’età adatta, divenne il
braccio destro di
Arbitrio,
conoscendo la sua crudeltà, la sua durezza e la sua
determinazione
senza,
tuttavia, imparare a temerle. Eppure avrebbe dovuto. Era stato al suo
fianco
quando avevano marciato attraverso il regno di Endelei in una guerra
che
l’imperatore aveva dichiarato dopo un mese di discussioni
infiammate e
Hartaigen
aveva vinto dopo quindici giorni di marce forzate, fango e sterminio.
Era stato
al suo fianco quando erano calati sulla capitale di quel regno
sfortunato,
troppo in fretta perché l’esercito di Theche
potesse anche solo
improntare un
qualche tipo di difesa. Era stato al suo fianco quando avevano
annientato
l’ultima disperata resistenza che la guardia cittadina aveva
tentato di
opporre
nelle strade. Era stato al suo fianco quando il sangue era arrivato
alle
caviglie, ascoltando la sua composta risata di piacere. Era stato alla
sua
destra, quando si era affacciato al balcone del palazzo dei re di
Theche,
accanto all’ordinata fila di picche su cui erano esposte le
teste dei
membri
della famiglia reale. Lo aveva guardato mentre si rivolgeva ai
prigionieri radunati
nella piazza sottostante, simile ad un onnipotente demone delle antiche
leggende.
«Dovrei
uccidervi
tutti, stuprare le vostre donne, vendere come schiavi i vostri bambini,
ma non
lo farò; perché sono un debole.»
Aveva
udito la sua
voce, forte e spaventosa come il rombo della valanga sulle montagne,
indirizzarsi al proprio esercito.
«Concedo
cinque
giorni di saccheggio.»
Era
stato lì
quando all’alba del sesto giorno l’imperatore aveva
raggiunto il conte
del
Sirenmat non trovando della dorata Theche che pietra su pietra.
Era
stato lì,
avrebbe dovuto capire, eppure non lo fece; così quando
finalmente
Etieth di
Indekel generò un erede per il Sirenmat, vent’anni
dopo il proprio
matrimonio,
Dreilt abbandonò Usen nella notte cavalcando verso sud e,
proprio
mentre
sperimentava la gioia di stringere un figlio di sangue puro fra le
braccia, ad
Hartaigen giunse la notizia che il suo bastardo aveva sposato Libeth di
Igher e
si era sollevato contro di lui. Chiese della propria armatura ancora
prima di
rendere il proprio erede alle amorevoli braccia di sua madre e fece
radunare
l’esercito.
Riversò
le proprie
forze su Igher con tutta la potenza della propria fredda collera e tale
timore
suscitarono negli animi i massacri che perpetuò nella sua
marcia che
molti, fra
coloro che avevano promesso in segreto il proprio appoggio a Dreilt, lo
abbandonarono al suo destino costringendolo ad asserragliarsi nella
rocca di
Gerk. Si diceva la leggendaria fortezza degli Igher fosse imprendibile,
tuttavia si diceva anche che Hartaigen fosse invincibile, la domanda
è
sempre
la stessa: cosa succede quando la forza inarrestabile incontra
l’oggetto
inamovibile? In questo caso un assedio.
Per
centotrenta
giorni l’esercito di Hartaigen di Usen rimase sotto le alte
mura di
Gerk e ogni
mattina Arbitrio vestiva la sua armatura nera e, all’ombra
delle
bianche torri
della rocca, dettava le condizioni della resa, ogni mattina chiedendo
più di
quella precedente. Il primo giorno pretese che gli fosse consegnato
Dreilt il
Senza Casa e Senza Nome perché andasse incontro al suo
giudizio, il
secondo
reclamò Dreilt e il marchese di Igher, il terzo Dreilt, il
marchese di
Igher ed
il suo erede, il quarto aggiunse uno dei suoi vassalli, il quinto ne
aggiunse
un secondo e così via. Quando si rese conto che suo padre
non si
sarebbe mai
fermato e avrebbe atteso tutto il tempo che fosse stato necessario,
Dreilt si
arrese prima che le richieste di Hartaigen rendessero Igher una terra
popolata
da fantasmi. I grandi portoni che nessun uomo era mai riuscito a
forzare
lasciarono passare il Conte del Sirenmat e gli orgogliosi guerrieri che
li
avevano difesi fino a quel momento si prostrarono dinnanzi a lui
posando la
fronte nella polvere in segno di sottomissione. Hartaigen percorse le
strade
ignorando gli uomini che chinavano il capo fino a terra, come le donne
che
stringevano spaventate i propri figli e raggiunse la piazza
d’armi in
sella al
proprio gigantesco stallone scuro. Là, immobili in ordinata
schiera
mentre la
luce del mattino li accarezzava per un’ultima volta, stavano
tutti gli
uomini
di cui aveva reclamato la vita. Quando scese da cavallo lo fissarono
con la
solenne dignità del guerriero che va alla morte, ma lui
parve non
vederli, lo
sguardo carico di gelido sdegno puntato su Dreilt che, immobile in
mezzo a
loro, vestiva dell’armatura che Hartaigen aveva fatto
realizzare per
lui quando
aveva raggiunto la maggiore età. Sfoderò Arbitrio
e li chiamò uno a
uno,
partendo dall’ultimo per il quale aveva chiesto la morte, e
questi uno
dopo
l’altro si inginocchiarono dinnanzi a lui per essere
decapitati: alcuni
lo
maledissero, chiamandolo demone, altri lo accusarono di avere venduto
la
propria anima alla donna sola per usurpare il trono di suo fratello ed
il
marchese di Igher ammise a gran voce di meritare la morte, non tanto
per
essersi ribellato contro di lui quanto per esserglisi sottomesso
vent’anni
prima. Hartaigen non ascoltò nessuno di loro.
Quando
infine
chiamò suo figlio al proprio cospetto la piccola piazza era
impregnata
dell’odore del sangue e del fetore della morte e Dreilt ebbe
paura.
Alcune
canzoni dicono che rimase in silenzio, ma la verità
è che si gettò ai
piedi del
proprio crudele padre e gli abbracciò le ginocchia
piangendo, chiedendo
pietà,
ricordandogli di quante volte in passato fosse stato compiaciuto del
suo
servizio.»
Elerad
percepì una
smorfia di disappunto formarsi sul proprio volto, convinto che un vero
guerriero non dovrebbe supplicare di essere risparmiato, ma
sbeffeggiare il
nemico con le proprie ultime parole o mantenere un contegno di
distaccata
superiorità.
La
vecchia Mereth
si piegò per afferrare l’ennesimo quadrato di lana.
«Molti
piangono,
mio piccolo lord. Dreilt aveva vent’anni e credeva di essere
l’eroe di
una
canzone, quel giorno si accorse che non lo era, si accorse di stare per
morire
per mano del proprio padre e lesse nei suoi occhi che non sarebbe stata
una
morte piacevole, né rapida, né degna. Pianse,
pregò, scongiurò.
Hartaigen era
suo padre; l’aveva tenuto sulle ginocchia quand’era
bambino, gli aveva
insegnato a tenere in mano una spada, aveva ascoltato soddisfatto i
resoconti
dei suoi precettori, aveva scacciato i suoi incubi notturni con la
propria
risata possente, aveva osservato compiaciuto le sue vittorie nei
tornei. Chiuse
gli occhi e ordinò che gli venisse tolta
l’armatura.
«Padre,
ti prego,
abbi pietà!»
Lo
scostò da sé
con violenza, gettandolo al suolo con collera amara.
«L’ho
fatto anni
fa, quando ho scelto di non gettarti nel Tirinnir. È un
errore che non
commetterò una seconda volta.»
Dreilt
gridò come
un maiale quando suo padre lo squartò in tredici pezzi,
tanti quanti i
gradi
vassalli che dovevano al Signore di Usen l’omaggio feudale; a
ciascuno
di loro
fu recapitata una parte del figlio ribelle del loro signore, come
annuncio e
come monito. Hartaigen fece ritorno alla propria dimora e da quel
giorno fece
annegare tutti i propri bastardi della cui esistenza ebbe nozione
finché non
gli rimase che un unico figlio: non riuscì mai ad
amarlo.»
Elerad
dovette
reprimere un conato di vomito, la vista del sangue non lo spaventava
più di
tanto, ma l’immagine di un giovane uomo fatto brutalmente a
pezzi era
talmente
vivida dinnanzi ai suoi occhi da rivoltargli le viscere. Nonostante
ciò
si rese
conto con terribile orrore che Hartaigen di Usen non avrebbe potuto
fare
diversamente, non senza perdere il rispetto e la fedeltà del
propri
vassalli.
Fu attraversato da una terribile consapevolezza.
«Hartaigen
lo
amava.»
La
vecchia Mereth
annuì seriamente ed Elerad si sentì osservato sin
nel profondo
dell’anima
mentre cercava disperatamente di non piangere. Certo che lo amava, come
avrebbe
potuto non amarlo? Solo non avrebbe potuto fare altrimenti,
solo…
«Solo
amava di più
se stesso.»
Per un
attimo
Elerad non avrebbe saputo dire se a far brillare gli occhi della
vecchia Mereth
fosse la soddisfazione per le sue parole o un riflesso delle braci.
«Cosa ne
fu di
Arbitrio?»
La
vecchia Mereth
scostò la coperta grigia che stava assemblando sulle proprie
gambe per
aggiungervi un altro pezzo.
«Quello
che ne è
di tutti gli uomini: morì. Come cantano gli Indekel il
giorno della
prima neve
sulle montagne “Periti sono i nostri padri e i padri dei loro
padri /
periranno
i nostri figli e i figli dei loro figli / e anche per noi
verrà l’alta
pira
contro la quale abbiamo combattuto / persino ad Erea la Bella
è
destinata una
fine”. Nessun uomo è immune alla morte, neppure
Hartaigen il Grande che
piegò i
barbari, gli Endelei e tutti quelli che gli si opposero. Una notte
concepì nel
proprio cuore il desiderio di diventare signore di tutto il vasto
impero,
pianificò fino all’alba prima di andare a
coricarsi per poche ore di
riposo e
convocare i propri generali; non si svegliò mai
più. Suo figlio
Asteroth gli
innalzò una gigantesca pira; tutti gli uomini del Sirenmat
narrarono le
sue gesta
e nessuno lo pianse.»
Elerad
rimase
esterrefatto e, per la seconda volta da quando era iniziata la
narrazione, si
levò a sedere di scatto.
«Quindi
perse! Non
diventò imperatore! Perse suo fratello, la sua amata, suo
figlio e
nessuno lo
pianse.»
Non si
soffermò a
chiedersi perché fosse tanto scandalizzato
all’idea.
«Perse
suo
fratello, la sua amata e suo figlio, ma non fu mai sconfitto: quello
che perse
non fu altro che un prezzo da pagare per la propria vittoria.»
Elerad
strinse i
pugni e sentì il palmo della propria mano tagliarsi sotto la
pressione
delle
proprie unghie nere e affilate.
«Ma non
diventò
imperatore.»
La
vecchia Mereth
parve sul punto di ridere, invece si sporse in avanti chinandosi per
bisbigliare al suo orecchio con la propria voce stridente e acuta.
«Chi
siede oggi
sul trono dorato? Sussurratemi il nome dell’Eren del
Consiglio dei
Dieci.
Ditemi il nome dell’imperatore.»
Elerad
spalancò
gli occhi in un lampo di comprensione.
«Adikan
di Usen.»
La
vecchia Mereth
sorrise di nuovo ed Elerad fu grato di vederla allontanarsi.
«”Forse
da Dio non
avrà mai perdono” dice la vostra sciocca
filastrocca, in una cosa però
ha
ragione. “Forse da Dio non avrà mai perdono, ma i
figli dei suoi figli
hanno il
trono.”»
Hartaigen
di Usen,
Elerad si trovò a pensare, aveva vinto davvero, aveva pagato
un alto
prezzo per
la vittoria, tuttavia aveva vinto; era entrato da vivo fra le leggende,
le
montagne avevano tremato dinnanzi alla sua furia e nessun regno sulla
terra
aveva mai fermato la sua avanzata. Non si era rassegnato a vivere
dell’elemosina del proprio fratello maggiore come era destino
di tutti
i
secondogeniti.
«E voi,
mio
piccolo lord, desiderate che i vostri figli abbiano il trono?»
La
domanda
echeggiò nell’aria gelida della notte ed Elerad la
lasciò vagare negli
angoli
più oscuri della stanza prima di permetterle di insinuarsi
in quelli
della sua
anima.
«Il
seggio di mio
padre spetta a mio fratello di diritto.»
Le
parole non
erano sue e le ripeté senza convinzione, a voce tanto bassa
che le
tenebre
della notte parvero divorarle e non lasciare al loro posto che un
desiderio
proibito.
«Amo mio
fratello.»
La
vecchia Mereth
rise ancora, il suono talmente affilato che Elerad ebbe
l’impressione
gli fosse
entrato sottopelle per tagliare dal suo spirito quei pezzi della sua
anima che
venivano irrisi con tanta energia.
«Certo
che lo
amate. La domanda è: amate di più voi
stesso?»
Elerad
chiuse gli
occhi e pensò ad Afelai: vide il coraggio di suo fratello e
la sua
forza, vide
la sua affabilità e la sua allegria, udì il suono
della sua risata e
l’affetto
con cui lo motteggiava, la decisione con cui parlava in sua difesa, ma
vide
anche la sua arroganza e la sua insensibilità, vide il suo
orgoglio per
la
propria primogenitura, udì il suo umorismo sprezzante e
ricordò come a
volte lo
deridesse perché un giorno avrebbe dovuto vivere della sua
generosità o
vagare
in cerca di qualcuno da servire, perché non avrebbe mai
avuto i mezzi
per
prendere moglie e generare dei figli che non fossero dei bastardi.
«Sì.»
Lo
sussurrò
appena, poi lo ripeté più forte. Si
alzò dal letto e si diresse verso
la porta,
la vecchia Mereth si scostò con un mezzo inchino al suo
passaggio.
Sapeva cosa
doveva fare, uscì dalla stanza e si diresse ad abbracciare
suo fratello
per
l’ultima volta.
"Riconoscimenti" ottenuti da questa storia:
Prima classificata al contest "I cattivi lo fanno meglio"
Quarta classificata nel contest a squadre "One shot Panic!" dove concorreva nella squadra fantasy. In questo stesso concorso la storia ha ottenuto due premi speciali:
Premio Fuoriclasse: per aver ottenuto singolarmene il punteggio più alto
Premio Miglior Protagonista Maschile: Hartaigen
Seconda classificata al concorso "Le Lampade dei Valar" di Silvar Tale e vincitrice di quattro premi speciali
Premio Medieval: per la miglior ambientazione Medieval Fantasy
Premio Giuria:
Premio Miglior Personaggio Machile: Hartaigen
Premio Stile: