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Autore: Shichan    26/11/2011    1 recensioni
[Retrace 67; spoiler sul personaggio di Oswald]
La verità è che non è mai andato fiero di nulla, che nemmeno una volta in passato aveva sinceramente creduto che fosse normale e che andasse bene; qualche volta, intimamente, ha desiderato di poter smettere di sopravvivere per una maledizione dall’aspetto e dal nome di fanciulla.
Genere: Angst, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri, Glen Baskerville, Jack Vessalius
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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«Ci siamo mai incontrati in società?» lo chiede con lo sguardo ancor prima che con la voce, con l’espressione di chi ha capito ma vuole fingere di no – è più comodo, più facile, fa meno paura.
Lo guarda, e lo vede per la prima volta, la prima volta davvero; su questo non ha dubbi, Jack Bezarius, mentre il pugno sul tavolo si stringe appena, sostituendo una qualsiasi espressione che potrebbe tradirlo più di quanto non stia già facendo quella che ha ora.
Ma quello che davvero lo tradisce, che lo porta quasi inconsciamente a prendere il bicchiere vicino alla propria mano e a rovesciarne il contenuto contro quel giovane di fronte a sé – Oswald, così Glen Baskerville lo ha presentato – sono le poche parole che il moro ha pronunciato, quelle con cui lo ha descritto. Così generiche, eppure così precise, quasi fatte appositamente per lui.
“Come l’acqua”, lo ha definito—no. No, lo ha definito come l’ingannevole superficie di uno specchio, quella che guardi non per vanità, ma per la spasmodica ricerca di qualcuno che ti faccia sentire meno solo.
L’ingannevole speranza di trovare qualcuno – non importa davvero chi – che ti illuda di essere lì per te.
La deludente presa di coscienza che quello specchio ti offre: può esserci chiunque tu desideri, basta figurarselo lì al tuo fianco, basta immaginarlo, ad un certo punto ti sembrerà quasi di toccarlo, ti sembrerà quasi reale; ma alla fine, di reale ci sarai solo tu.
Sono parole troppo perfette, troppo poco casuali, perché lui non pensi – non percepisca – che Oswald lo sappia.
È il primo pensiero che fa, mentre quasi non si accorge di avere in mano quel bicchiere; lo sa, si dice quasi terrorizzato alla sola idea, lui lo sa.
Oswald è a conoscenza di come lui si sia fatto scudo delle parole di Lacie, quelle così dolci, e rassicuranti, e profondamente sbagliate. Quelle che ti facevano sembrare vero che rubare era giusto se lo facevi per non morire di fame, che dare il tuo corpo era meno disdicevole di quanto potesse sembrare, se era per sopravvivere.
Oswald deve saperlo per forza, perché non può essere casuale usare parole che sembrano descrivere tanto bene cosa fa l’amante di una notte – diventa tutto ciò che vuoi, chiunque tu desideri in quel momento, ma alla fine chi ci fosse nel tuo letto non lo saprai mai – e avere lo stesso nome di qualcuno mai conosciuto e mai dimenticato.
Qualcuno che è rimasto nei suoi ricordi fino a quel giorno come solo Lacie era riuscita a rimanere, sebbene con sentimenti molto diversi a tenerli lì, immobili.
Per questo ora Oswald è fradicio, offeso dalla bevanda che a Jack era stata offerta in quanto ospite; Jack ha capito che non può essere altri che lui, non può essere altri che quell’Oswald.
La sola idea lo terrorizza.

Jack ha sedici, diciassette anni forse, e ne sono passati due dall’ultima volta che ha visto Lacie, sotto quella neve che in quel vicolo in cui lei l’ha trovato sembrava tanto gelida e che era bastato accogliesse la figura di lei per sembrare quasi calda e bellissima.
La prima cosa di cui si è convinto, riprendendo i sensi lì dove l’aveva vista quasi affievolirsi mentre la coscienza lo abbandonava, era stata di dover sopravvivere a tutti i costi per poter sperare di incontrarla ancora, un giorno. Quando lo aveva capito, le parole di Lacie si erano ripetute innocenti e giuste nella sua mente; rubare era sembrata la cosa più ovvia da fare, l’unico reale modo di respirare e vivere ancora un po’.
E lui, ripetendoselo, ha iniziato convincendosi che le mani estranee che percorrevano il suo corpo, sfioravano la pelle, potevano essere meno disgustose se imparava a pensare ad altro. Bastava pensare, concentrarsi solo sui respiri, o sulle sensazioni, o sul piacere. O, ancora, un pensiero astratto: pensare a “nulla”.
Ci sono tanti, tantissimi modi, diventi bravo col tempo; diventa quasi facile, in un certo modo contorto.
Ma a Lacie in quei momenti Jack non ci pensa mai, mai una volta ha solo osato immaginare o illudersi che le mani sul corpo fossero quelle di lei, o che lo fossero le labbra sulla pelle, sul collo, che sua fosse la voce che sussurra al suo orecchio mentre il letto di un bordello scricchiola, di certo non solo perché vecchio.
Non potrebbe mai farle un’offesa simile, perché nella sua mente Lacie è eterea, quasi, è una donna che sfiora solo con la devozione, l’affetto e il forte ed insopportabile desiderio di rivederla.
Mai con le mani, nemmeno in una fantasia.
Lacie somiglia alla dolcezza di una madre, alla testardaggine e alla familiarità di una sorella con cui condividi persino l’aria che respiri; somiglia ad un’amante solo nella complicità, ma è tutte queste cose insieme e mai una sola, anche se nella realtà poi non ne è nessuna.
Eppure Jack, che si vede e sa di essere sporco – sporco dentro, insudiciato dai desideri, da adulteri che si consumano con lui, da sudore e ansimi pesanti, e respiri caldi e soffocanti – vorrebbe rivederla considerandosi un ragazzo degno di guardarla e sorriderle. Senza paura di contaminarla, lui che di lei ricorda il viso, la figura, la voce e che potrebbe riassumere tutto con un colore: bianco.
Bianco l’abito che indossava, bianca la pelle, bianca la neve sotto cui danzava infantilmente.
Quindi ha cercato un modo per salvarsi, salvare almeno una parte di sé con cui Lacie potesse riconoscerlo; una sola, anche invisibile a chiunque altro purché evidente per lei.
Ogni tanto pensa che sia una cosa stupida, Jack, e imbarazzato la tiene per sé. Lui svende il suo corpo, e questo di certo – non è così ingenuo da concedersi il contrario con una bugia così sciocca – è un po’ come svendere il proprio cuore, o almeno l’amore che dovrebbe avere per se stesso. Ma il sentimento infantile che ti fa credere che di persona giusta ce ne sia una, una sola in tutta la vita, quello vuole proteggerlo almeno finché non la rivedrà.
Allora Jack si fa toccare, tocca, e si fa desiderare. Con uomini e con donne, e gioca ad essere un amante diverso e perfetto per ognuno di loro.
Ma un bacio, quello per una persona – una sola in tutta la vita – è e rimane suo, non lo concede mai, mai.

Jack ha imparato a non stupirsi di quanto contorte e perverse siano le fantasie di chi si reca in quel bordello.
Semplicemente capita come in quel momento, quella sera: si prende una delle stanze più grandi, che somiglia quasi ad un salotto, e si gioca ad una festa in maschera come i nobili ne fanno tante; loro indossano le maschere – ma tutti si riconoscono, tutti sanno del vizio degli altri anche prima di entrare e vedersi lì l’un l’altro, ma c’è una sorta di tacito accordo nel fingere di no – e quelli come Jack invece vengono bendati.
Si gioca a corpi che si strusciano senza riconoscersi, passano di mano in mano come giocattoli, come bambole. La stanza si riempie di odori insopportabili: sesso, tabacco, sudore. Eppure nessuno mai la abbandona nemmeno per prendere una boccata d’aria e loro, quelli come Jack, non sono tenuti a chiedersi nulla, il loro compito è solo vagare come ciechi ubriachi di piacere.
Quella è una sera come tante uguali, ad una Jack ha assistito – portava bevande e osservava “per imparare” e poter poi mettere in pratica – perciò anche con gli occhi coperti da una benda sa perfettamente cosa sta succedendo, anche se non sa con chi.
La camicia che ha indossato inizia a somigliare ad una seconda pelle, il sudore la fa aderire al corpo – lì dentro l’aria è già irrespirabile, e fa caldissimo a causa di quante persone ci sono anche solo ad osservare, non solo a prendere parte al tutto.
Mani lo hanno già toccato, si sono insinuate sotto quella stessa camicia leggera; labbra lo hanno baciato sul collo, denti hanno morso la pelle con malizia e tacito divertimento. Hanno guidato le sue mani su corpi altrui, hanno stretto il suo ai propri per potersi eccitare col fruscio dei vestiti e lo sfregarsi di quegli stessi corpi l’uno contro l’altro.
Essendo bendato arriva un momento in cui si perde, e non sa più dove si trova cosa – figurarsi chi – e quella sensazione di leggero panico mista ad una confusione quasi divertente si fa strada in lui indipendentemente dalla sua volontà.
In quel momento diventa difficile anche solo mettere un passo avanti all’altro senza inciampare, e torni ad essere un bambino che si muove a tentoni nel buio.
Non si stupisce, Jack, quando perde appena l’equilibrio e si sporge in avanti; né, tantomeno, si stupisce che qualcuno gli eviti la caduta: è solo un contatto come un altro, come tanti, a Jack sembra quasi scontato.
L’attimo dopo però si accorge, con la stessa intensità che se gli avessero lanciato dell’acqua gelida addosso, di così tanti particolari insieme da restare quasi senza respiro. Le mani che lo tengono avrebbero potuto afferrargli lascivamente i fianchi e con quella scusa spingersi più giù. Invece lo sostengono dalle braccia e si trovano lì per nient’altro che un sostegno dato senza essere stato pianificato.
Chiunque sia non si sta chinando su di lui per baciarlo o guidarlo a sfiorarlo oltre.
Alza il viso per istinto, suppone sia un cliente che osserva e basta; lo fa per pronunciare delle scuse e allontanarsi, e trema quando le sue labbra sfiorano qualcosa, forse il mento – spera – forse il collo.
Ridacchia, qualcuno poco distante: «Oswald, uno sfortunato incidente o un piacevole imprevisto?» pronuncia qualcuno lì nei pressi, probabilmente chi ha riso all’indirizzo di chi ha fermato il suo improvviso mancato equilibrio.
Oswald, lo ha chiamato, e quell’ironica domanda fa sospettare a Jack di non aver sfiorato quella parte di viso o il collo dell’uomo che non ha idea di chi possa essere.
Per un istante pensa che, dopotutto, potrebbe lasciar stare quella storia di non concedere un bacio a nessuno, perché va di pari passo alla speranza di rivedere Lacie prima o poi. Ma la speranza si affievolisce giorno dopo giorno, diventa una realtà disillusa come disilluso diventa Jack, e lui sa che alle favole per bambini dovrà smettere di crederci; avrebbe già dovuto smettere, perché lui bambino non lo è più da quando ha deciso di legittimare tutto, giustificando ogni cosa con le sole parole di Lacie.
Si sporge in avanti dunque, è deciso a lasciar perdere: non sa nemmeno se la rivedrà mai, prima di finire di nuovo in un vicolo e morire lì; si sposta di pochissimo, ne è certo pur non vedendo a causa della benda sugli occhi, ma viene fermato quasi nello stesso istante in cui decide di muoversi.
A raggiungerlo è solo un sussurro di quelli che, nella confusione che li circonda, c’è da aver paura di non sentire mai.
«Non fa nulla.» gli dice soltanto e lo sente allontanare le mani con cui lo ha sorretto, e muovere passi che lo portano chissà dove, se nella stanza o fuori da essa.
Jack non sa cosa intendesse, quell’Oswald che non sa chi sia: forse di non preoccuparsi di essergli finito addosso, o di avergli sfiorato involontariamente le labbra con le sue. Probabilmente intendeva che non faceva nulla se non gli rivolgeva attenzioni di quel tipo, perché non è lì per quello, questo Oswald che Jack non sa nemmeno da dove iniziare ad immaginare.
Poi c’è una probabilità davvero infinitesimale, praticamente impossibile, che volesse dire – e come, se non sa chi lui sia o cosa cerchi? – che va bene, non fa nulla se vende il suo corpo.
Non lo rende colpevole come crede.
Jack sa che è solo il suo desiderio di qualcuno che gli rivolga parole simili, e non la realtà: lo sa, lo tiene presente e mette a tacere la speranza che invece sia proprio ciò che poteva intendere quella voce che non ha volto, per lui.
Eppure, per la prima volta, vuole piangere.

Quando si rende conto, in un modo quasi brutale, che ha davvero rovesciato il contenuto del bicchiere che ha ancora in mano contro qualcuno, quello è il momento in cui capisce sul serio.
A parole si è perdonato così tante volte, Jack, da convincersi che dopotutto non aveva fatto nulla di male; ma la verità è che in tutto quel tempo non aveva fatto altro che chiedersi se la persona che era diventato non fosse inesorabilmente ed unicamente legata a nessuno se non a se stesso.
Incapace di legarsi a qualcuno – chi mai avrebbe accettato sinceramente una persona così? – il desiderio di incontrare Lacie era ormai l’unica strada da percorrere. Perché solo lei, lei che per prima aveva fatto sembrare sempre tutto grave quanto l’innocente scherzo di un bambino, avrebbe potuto stargli vicino, accoglierlo senza giudicarlo.
La verità – e Jack lo sa, mentre guarda Oswald, rosso di timore e vergogna – è che quelle mani estranee, gli sguardi di falsa curiosità che mascherava il lascivo desiderio, lo avevano sempre disgustato.
La verità è che non è mai andato fiero di nulla, che nemmeno una volta in passato aveva sinceramente creduto che fosse normale e che andasse bene; qualche volta, intimamente, ha desiderato di poter smettere di sopravvivere per una maledizione dall’aspetto e dal nome di fanciulla.
Lo sguardo di Oswald, che è fermo e non ha vergogna di guardarlo anche con i capelli bagnati e l’aspetto ora poco consono a causa del gesto di Jack, lo fissa celando tutto e dicendo ogni cosa al tempo stesso.
Jack lo guarda, come se di punto in bianco Oswald dovesse svelare a tutti di quel giorno, di quelle labbra sfiorate, quel sussurro che faceva venir voglia di piangere.
Di abbandonare il ricordo di Lacie, anche se solo per un istante.

 

Questa cosa è partita per due benedette tavole del capitolo 67, la sequenza – appunto – dell’opinione che Oswald dà di Jack e la reazione di quest’ultimo, con tanto blush finale che, diciamolo, ha scatenato il mio istinto di fan girl della Glen(Oswald)Jack, assopito da mesi tipo.
Dunque ecco qui, shot che copre con un “What if” (ossia “e se il primo incontro di Oswald e Jack fosse stato quando Jack si prostituiva?”) niente più che due tavole o poco più, basato sul fatto che la Mochizuki ci ha fatto amorevolmente intendere che il passato di Jack non sia stato così – uhm – pudico.
Un grazie a Damie, che mi fa venire voglia di scrivere di Jack in questi panni e che poi sta con me al bar dell’università mentre scrivo su carta a causa di ispirazione fulminante, e ad acchan, che si sorbisce i miei dubbi esistenziali sul rating da mollare alle shot XD

Ah! Siccome sono tonta e vecchia (?) e non mi ricordo mai che esiste la funzione “rispondi alle recensioni” – cioè, me lo ricordo dopo mesi – approfitto qui per ringraziare Seeker of the Secret e black_lacie, per i commenti a “No one can hide the trembling”! >w<

   
 
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