Anime & Manga > D.Gray Man
Ricorda la storia  |      
Autore: _Calliope_    30/11/2011    13 recensioni
Uno non può avere in testa tutto lo scibile umano e aspettarsi di non diventare pazzo.
Undici cose collezionate da Lavi fino al capitolo 122, (volgarmente plagiate) liberamente ispirate a quelle narrate da Savigny in Oceano Mare di Baricco, e un cameo piuttosto significativo di Allen alla fine.
La prima cosa è il mio nome.

Non vi aspetterete mica che ve lo riveli, giusto? Già il fatto che abbia ammesso di ricordarlo va contro la prima regola dei Bookman e, quindi, le infrange tutte.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Rabi/Lavi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

per chaska, che naviga con me nel mare del delirio

sulla nave della follia. WEIGH ANCHOOOR! 8D

 

Dieci cose (più una)

 

Uno non può avere in testa tutto lo scibile umano e aspettarsi di non diventare pazzo.

Sul serio, tutta quella conoscenza finisce per diventare quasi un'entità a sé stante, e tu, povero vuoto contenitore di tutte quelle nozioni, rischi di finirne schiacciato e allora tanti saluti, mica si possono affidare queste quasi infinite informazioni ad un folle.

Quindi, logicamente, devi aggrapparti a qualcosa. Qualcosa che ti ricordi della tua esistenza (sarebbe facile annullarsi nella conoscenza). Ma cosa?

Ho provato con poesie, nozioni, regole, cose che sapevo (cantami o Diva del Pelide Achille l'ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei il quadrato costruito sull'ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti sui due cateti panta rhei os potamòs in una reazione chimica la massa dei reagenti è esattamente uguale alla massa dei prodotti), ma non erano mai mie. Erano dell'Umanità. Appartenevano all'altra parte di me, che non aveva nome perché li aveva tutti e non provava emozioni perché le sentiva tutte e non era identificabile perché possedeva tutte le caratteristiche di tutti gli esseri umani. Era l'Uomo, non un uomo. E il suo peso era schiacciante e rischiava di soffocare l'altra parte, quella che ce l'aveva, un nome.

Sarebbe dovuta andare così, per certi versi. È proprio una regola, una delle più importanti: tu non sei più un individuo, diventi conoscenza pura, qualcosa di quasi astratto. Vedi e conosci tutto e di conseguenza non parteggi per nessuno, perché comprendi le ragioni di entrambi.

Come fa un essere umano a sopravvivere a tutto questo?

Ricorre a dettagli stupidi, cose insignificanti ma tangibili. La grammatica corretta, gli ultimi quattro peli che gli sono rimasti in testa. Dettagli che gli appartengono, lo identificano.

Così ho iniziato a collezionare le mie cose. Ricordi e particolari ereditati dalle mie vite precedenti, impressi a fuoco nella mia memoria, indelebili. Esclusivamente miei.

 

La prima cosa è il mio nome.

Non vi aspetterete mica che ve lo riveli, giusto? Già il fatto che abbia ammesso di ricordarlo va contro la prima regola dei Bookman e, quindi, le infrange tutte.

Prima regola: dimentica il tuo nome. È il passo più importante e insieme il più difficile, per giungere alla conoscenza suprema. Annullarsi.

Se c'è una cosa che ho imparato, passando una vita intera tra i libri, è che le parole hanno un potere spaventoso. Non solo possono ferire più di una spada o curare meglio di un farmaco: possiedono la straordinaria capacità di trasformare la materia in idee, di evocare immagini dal nulla e combinarle insieme, di collegare pensieri e azioni. Astraggono e allo stesso tempo materializzano.

Ora, se vuoi arrivare a conoscere tutto, devi essere libero. Totalmente e completamente libero. Non puoi aspirare all'infinito se sei limitato da regole, barriere. Devi fare in modo che nulla abbia potere su di te. E quali sono le cose che esercitano il maggior potere in assoluto sulle persone? Le parole. Ergo, è necessario liberarsi dal loro dominio. Più precisamente, dal dominio della parola che controlla tutte le altre e quindi anche il tuo animo.

Il tuo nome.

Dimenticare il proprio nome non è facile. Anzi, oserei dire che sia la prova più difficile alla quale un Bookman venga mai sottoposto. C'è un metodo, ovviamente: bisogna fare in modo di associare quella parola onnipotente e pericolosa a qualcosa che non sia tu. È necessario collegarla a qualcosa di estraneo, di altro, di insignificante. A quel punto, anche il tuo ego si sentirà estraneo, altro, insignificante. Privato del nome, verrà privato anche della sua sostanza,e a poco a poco si annullerà. Questo renderà il tuo essere un contenitore ideale per la conoscenza, uno spazio vuoto in cui accumulare tutte le nozioni passate e presenti.

Quindi è anche una questione pratica: una volta liberato dalla conoscenza fondamentale – la conoscenza di sé – il futuro Bookman si sente vuoto, ignorante, ed è ansioso e capace di apprendere virtualmente tutto. Il che è esattamente ciò che gli si richiede.

Ora, ci tengo a specificare una cosa (buffo come ci si aggrappi alle convinzioni più ridicole quando ci si trova in una situazione disperata): io avrei potuto dimenticare il mio nome. Ho fatto uno sforzo titanico per arrivarci, ma sono sicuro che ci sarei riuscito. Ero a tanto così dal riuscirci. Vedete, il mio è (era?) un nome abbastanza comune ed associarlo a qualcun altro – un ragazzino della mia stessa età con cui lo condividevo – si stava rivelando estremamente difficile ma non impossibile. Ogni volta che lo sentivo dovevo costringermi a pensare al ragazzino – solo al ragazzino, non a me stesso – finché non mi fosse venuto spontaneo. E alla fine mi è venuto spontaneo. Una volta sola.

Poi qualcosa, dentro di me – chiamatelo spirito, ego, anima, come preferite – si è ribellato. Si è rifiutato di farsi amputare a questo modo e mi ha fatto esplodere davanti agli occhi un'immagine della mia faccia – la mia. È stato un gigantesco sollievo.

Perché, pur sapendo di commettere un'infrazione gravissima e potenzialmente pericolosa, mi sentivo come se avessi riabbracciato l'amore della mia vita, qualcuno che mi capiva perfettamente, che mi completava - e che, in fin dei conti, non ero altro che io.

Quindi non è che non ci fossi riuscito, più che altro – non posso neanche dire di non averlo voluto, perché razionalmente lo volevo, desideravo diventare Bookman... è stato più una specie di istinto. Istinto di autoconservazione psicologica.

Ho dovuto tenerlo nascosto a Bookman, ovviamente: se avesse scoperto che avevo trasgredito la prima regola da lui insegnata, avrei potuto dire addio alla mia carriera, nonché al mio futuro.

Ma c'è più di questo. Vedete, di solito noi ostentiamo le caratteristiche che ci identificano – pensate a Panda e ai suoi capelli – perché così possiamo essere controllati dai nostri allievi e dalle persone che ci circondano, in modo che questi ultimi abbiano la possibilità di capire quando le caratteristiche stanno per diventare ossessioni e di impedirlo.

Ma nulla sembra avere più importanza di ciò che è nascosto, e occultando la mia trasgressione non ho fatto altro che ingigantire la sua rilevanza.

Tant'è. Inutile piangere sul latte versato.

La prima cosa è il mio nome.

 

La prima cosa è il mio nome, la seconda sono gli occhi di chi se ne va, verso l'infinito, sapendo di poter non tornare ma deciso a compiere il suo viaggio, sereno, consapevole.

Sono cresciuto vicino al mare. Ovviamente non dirò quale mare, in che Stato, nemmeno su quale continente, ma non credo che importi. Il mare è multiforme, può essere crudele, impetuoso, salvatore, pacifico, ma è sempre lui, nonostante abbia molti nomi. E anche le genti di mare, pur con le loro differenze, sono in fondo molto simili tra loro: sagge, fiere, fataliste, cupe, ospitali, con un occhio sempre volto a quello che c'è al di là, all'infinito.

Mi capitava spesso vederli partire, gli uomini di mare, pescatori, ammiragli, semplici mozzi, e di pensare che, indipendentemente dalle emozioni che mostravano, avessero tutti lo stesso sguardo; uno sguardo tranquillo ma quasi... impaziente.

L'impazienza nei loro occhi si calmava solo al momento della partenza, quando, salutati gli amici e i parenti, si imbarcavano e issavano le vele, navigando verso l'orizzonte, fino a diventare solo un puntino bianco in lontananza – una vela – e poi più niente.

Ho rivisto quello sguardo anche in seguito, lontano dal mare, negli occhi di alcuni uomini che andavano in guerra. Ci ho messo un po' a tradurre a parole ciò che significava: l'accettazione del proprio destino, qualunque esso sia. Arriva per tutti un momento in cui è necessario accettare il fatto che non tutto dipende dalla nostra volontà, e l'unica cosa che possiamo fare è andare incontro al futuro con la coscienza tranquilla e la determinazione di fare del nostro meglio. Credo che il mare, simbolo per eccellenza del fato imprevedibile, abbia insegnato ai suoi popoli questa calma suprema, questa specie di catarsi, e li abbia, in ultima analisi, salvati.

Per questo gli uomini di mare mi sembravano tranquilli ma quasi impazienti: accettavano il loro destino, ma volevano andargli incontro il prima possibile, per farla finita una buona volta, per così dire. E nel momento in cui lo affrontavano, partendo per il mare, scendeva su di loro una calma sovrumana, quella dell'attore che sale sul palcoscenico e, pur conscio dei possibili imprevisti, inizia a recitare le sue battute e non pensa più ad altro.

Mi capitava di immaginare come cambiasse lo sguardo negli occhi di questi uomini al momento della catarsi, quando erano in mezzo al mare da soli, senza possibilità di scampo, potendo contare solo sulle proprie forze. A rigor di logica, pensavo che avessero gli occhi dell'attore che sta recitando il suo monologo, sapendo di dominare il pubblico e quindi tutto il mondo, uno sguardo onnipotente, esaltato, ma sicuro e controllato.

E poi, quando tornavano indietro, quando erano per noi di nuovo un puntino bianco in lontananza, assumevano quell'espressione sollevata, calma, salvata. Ce l'ho fatta.

Non sarebbe dovuto rimanermi così impresso, eppure. Ogni volta che vedo una vela bianca all'orizzonte non posso impedirmi di sperare che anch'io, prima o poi, potrei arrivare ad essere salvato (da cosa, poi) e a possedere quegli occhi, quelli dei marinai che tornano a casa, fiduciosi ma come lontani, onnipotenti. I loro occhi.

 

La prima cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi, la terza un pensiero – sto per morire non morirò – in mezzo a sangue, sudore e lacrime, perché è qui che si fa la Storia, in guerra, tra sangue, sudore e lacrime, ed è qui che il Bookman deve stare – sto per morire, non morirò – con una pistola puntata alla tempia mentre delle persone cercano di costruire una nazione, in mezzo ai bombardamenti di chi cerca di sgretolarne un'altra, vicino ai ragazzini che tentano di salvare il mondo – sto per morire non morirò.

Ho rischiato la vita più volte di quante ne riesca a ricordare, e tuttavia ho sempre sentito, nella parte repressa e quasi dimenticata della mia anima, quella che porta il mio primo nome – ho sempre sentito una sorta di tenacia, quasi di ribellione, che mi ripeteva ossessivamente questa cosa, ogni volta che stavo per lasciarci la pelle – sto per morire non morirò sto per morire non morirò sto per morire non morirò.

Non oso chiamarlo istinto di autoconservazione (i Bookman non ne possiedono, non cercano di conservare loro stessi, si preoccupano solo della conoscenza a loro affidata), ma è , è una sorta di consapevolezza, di coscienza del fatto che sono vivo e in qualche modo lo sarò anche domani e che questo è un fottuto miracolo, sto per morire non morirò. È la base dell'individualismo, il sapere di essere vivo, ora e in futuro. ESISTO! Sto per morire. Non morirò.

Anche questo è assolutamente proibito; i Bookman non si gloriano della propria esistenza, men che meno della propria vita. Non hanno una vita, sono puro sapere.

(Ma io la sento. Scorre nelle mie vene, pulsa al ritmo del mio cuore. E non finirà tanto presto. Sto per morire non morirò, sto per morire non morirò.)

 

La prima cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi, la terza un pensiero e la quarta è la notte che viene, sempre, grande ombra che oscura il sole, ingoia la luce, inevitabile irresistibile notte.

Cosa ci fa tra le mie cose, vi chiederete. Facile: ho scoperto il suo segreto. Io l'ho scoperto. Non Bookman Junior. E non ho intenzione di divulgarlo.

Ovviamente, non siamo tenuti ad avere segreti. Almeno, non segreti nostri. Possiamo custodire quelli degli altri – diavolo, praticamente non facciamo altro – ma se acquisiamo un'informazione ignota ai nostri predecessori e nostro preciso compito registrarla e tramandarla. Non siamo autorizzati a morire prima di averlo fatto.

Beh, tanto per cambiare credo che disubbidirò anche a questa imposizione e mi porterò il segreto della notte nella tomba. Il foglio su cui sto scrivendo sarà il mio unico confidente, ma chissà chi lo troverà, sepolto sotto strati e strati di polvere e tomi interminabili, nel cuore della biblioteca dell'Ordine Oscuro. Sto deliberatamente mettendo un'informazione nella mani del fato, affidandogli la sua divulgazione e la sua stessa vita, non preoccupandomi della sua sopravvivenza. Infrazione gravissima.

Il segreto della notte è questo: quando viene, è sempre uguale. No, meglio: è sempre la stessa. Ci illudiamo che esistano tanti tipi diversi di notte, tante notti ben distinte le une dalle altre, ma in realtà è solo lo strascico dei giorni a darci questa impressione, e loro sì che cambiano sempre, che sono entità distinte e segnano lenti ma inesorabili lo scorrere del tempo. Ma la notte, quella vera, è sempre lei, dall'inizio dei tempi, non contaminata dagli echi del giorno, la notte che viene, misteriosa ed indecifrabile. Quando tutto dorme e tace e non si muove – tutto tranne le sue creature, che riconosciamo come tali anche di giorno e ci affascinano e ci disgustano al tempo stesso, i pipistrelli, i mostri, gli amanti – quando tutto dorme e tace e non si muove, eccola, la notte che viene, in tutta la sua enormità, a ricordarci quanto anche noi siamo enormi ed insignificanti, quanto poco siamo cambiati dalla sua ultima visita e quanto siano uguali e giganteschi e irrilevanti i nostri – sempre gli stessi – timori e speranze e pensieri e sentimenti.

Ho scoperto questa cosa prima di diventare Bookman Junior, prima del disastro, prima ancora di poterlo tradurre bene a parole. È stato un istinto, ovviamente, un'illuminazione, improvvisa ed inspiegabile. La notte, quando viene, è sempre uguale, e così le persone che la percepiscono. Io, che la percepisco, sono sempre uguale.

Io che ho un nome.

 

La prima cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi, la terza un pensiero, la quarta la notte che viene e la quinta quei corpi straziati, ovunque, intorno a me, dopo la guerra, qualsiasi guerra, corpi senza vita, devastati, dappertutto.

Ora, lasciate che vi dica una cosa: non c'è niente – niente – di più bello del corpo umano. Dimenticate i tramonti, dimenticate le poesie, dimenticate musica e scienza: nulla potrà mai superare la bellezza e l'armonia del corpo umano, di questa macchina funzionale ed incredibile, dall'equilibrio fragile e tuttavia tenace, dalle potenzialità inesplorate e praticamente infinite. Il corpo umano – ogni corpo umano – è quanto di più meraviglioso esista nell'Universo. La sua perfezione può essere comparata solo a quella dell'Universo stesso, che gli fa da modello, con le sue stelle e i suoi pianeti e le sue galassie, ma noi siamo umani, io sono umano, e una tale perfezione cosmica, pur essendo affascinante, mi atterrisce e causa sgomento. Quindi, ciò che risulta perfetto ai miei occhi è il suo corrispettivo terreno, il fragile, stupefacente corpo umano.

Mettiamo in chiaro anche questo: i Bookman sanno cos'è la bellezza. Hanno, per usare un'espressione comune, un ottimo gusto. Logicamente conoscono tutti i canoni di bellezza di tutte le culture del mondo e i relativi esempi più rappresentativi, e conoscono persino il segreto che va oltre le proporzioni prescritte e le singole caratteristiche, ciò che rende una cosa bella all'occhio di ogni osservatore – l'armonia. Sanno distinguere con precisione ciò che è bello da ciò che è brutto, da ciò che è sublime e da ciò che è orribile.

Ma questo non fa alcuna differenza, perché i Bookman non se ne curano. Non amano la bellezza, per loro è solo una caratteristica come tante, un dettaglio da registrare, niente di più. La sua presenza o assenza è assolutamente irrilevante.

O così dovrebbe. Ma allora, mi chiedo, perché mi sento spezzare il cuore che non dovrei avere, quando cammino tra i cadaveri, dopo ogni battaglia, e vorrei piangere per l'orrore, per tutta quella bellezza perduta, sprecata inutilmente, per quella perfezione alterata, corrotta? Perché?

(È colpa sua, ovviamente, della parte del mio animo che ha ancora un nome, che mi fa svegliare ogni notte con le lacrime agli occhi, che mi fa detestare ogni campo di battaglia, che mi fa sognare ogni notte i cadaveri spogli, quei corpi straziati.)

 

La prima cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi, la terza un pensiero, la quarta la notte che viene, la quinta quei corpi straziati e la sesta è fame, non so come altro chiamarla, fame assoluta, preoccupante, instancabile, bisogno, mancanza.

È necessità: ho bisogno di sentire, di provare emozioni, di pensare. Non l'ho fatto per letteralmente metà della mia vita, questa regola almeno sono riuscito a rispettarla: non mi sono affezionato a nessuno, non ho odiato nulla, ho soppresso rabbia, dolore, gioia. Quelle che mostro al mondo sono le emozioni di Lavi, di Deak, di uno degli altri quarantasette personaggi che ho interpretato, non le mie, mai le mie. Sono delle reazioni automatiche, controllate, conseguenze precostituite e prevedibili. Servono a non spaventare le persone che circondano il Bookman, a spingerle a fidarsi di lui, convincendole che si trovano davanti a un loro simile. Ma è una finzione. Bookman non prova emozioni e non ha opinioni.

Finora ci sono riuscito. L'indifferenza è più facile da adottare di quanto si creda; forse è vero che l'uomo è per sua natura malvagio ed egoista: credo che per tutti sarebbe potenzialmente facilissimo disinteressarsi della sorte degli altri, limitandosi a registrarla. L'empatia è semplice da soffocare, e io ci sono sempre riuscito. Finora.

Ma ultimamente mi capita, nei momenti più impensati, di avvertire una sorta di stretta al cuore, una cosa che somiglia molto alla protesta dello stomaco affamato, qualcosa che reclama con urgenza la mia attenzione, che deve essere nutrita, ora. È insopportabile, e non fa che aumentare. Mi urla di innamorarmi di una bella ragazza, di indignarmi per un'ingiustizia, di crearmi un'opinione ed esprimere la mia personalità. Tento di soffocarla regolarmente, terrorizzato dalla possibilità che Bookman mi scopra, ma non posso farci niente, questa fame è incontrollabile, minaccia di farmi piangere ad ogni avvenimento triste, di farmi esplodere di gioia per ogni piccola vittoria, di farmi morire di angoscia ad ogni vita spezzata. Ormai si fa viva anche per cose insignificanti, il non riuscire a trovare una cosa che mi serve – arrabbiati!, mi impone – il riuscire ad avere la meglio su un compagno in un allenamento – esulta! Tento di apparire impassibile, ma c'è troppa differenza tra il mio tumulto interiore e la mia apparente calma esteriore, e ho una paura folle di farmi scoprire. Sto impazzendo.

Oh, adesso capisco esattamente perché per diventare Bookman sia necessario annullare se stessi. Nessun animo può rinunciare a sentire, provare, pensare. Se gli capitasse di diventare solo un vuoto ricettacolo della conoscenza, diventerebbe folle per mancanza di scopo. Saprebbe di non servire a nulla- non a sentire, non a provare, non a rendere migliore il mondo mediante le sue conoscenza, non ad esprimere giudizi – e quella sarebbe la sua fine.

Per questo i Bookman eliminano il problema alla radice: niente animo, niente follia. Semplice.

Ora lo so. Ma è troppo tardi. Il mio ego esiste, e reclama attenzione.

(Sto impazzendo. Credo.)

 

La prima cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi, la terza un pensiero, la quarta la notte che viene, la quinta quei corpi straziati, la sesta è fame e la settima orrore, tra tutti i pensieri e sentimenti e sensazioni che potrebbero sopraffarmi mi tocca proprio questo, l'orrore, tanto per mettere il dito nella piaga.

In realtà è anche sensato, voglio dire, intorno a me ci sono sangue, morte e distruzione, è ovvio che per primo soccomba all'orrore, ma avrei tanto, tanto preferito provare, per la prima volta, amore, felicità, senso di trionfo. E invece. Orrore.

La prima volta che lo sento – che lo sento veramente, non come una sorta di rumore della mia coscienza in gran parte attutito dal muro che ho costruito – la prima volta è devastante. Non sono preparato a tutto questo, al desiderio irrazionale di correre via dal campo di battaglia ingombro di cadaveri e fuggire lontano, lontano. Non sono preparato al fatto che non riesca a fermarlo, in alcun modo, né sono preparato alla disperazione che segue questa consapevolezza; disperazione sensata, perché cosa c'è di più terribile di soffrire indicibilmente e non sapere come far cessare il dolore?

Ora, nel caso non l'avessi già detto o non l'aveste intuito, specificherò una cosa: i Bookman non fingono di rimanere impassibili davanti a stragi, vittorie, amore, odio: lo sono davvero. Non si sforzano di non provare emozioni, ne sono veramente privi. La grande fatica viene fatta all'inizio, quando si rinuncia al proprio nome e lo si dimentica; in questo modo si rinuncia alla propria umanità, completamente. Si diventa completamente refrattari a qualsiasi sollecitazione psicologica esterna. In teoria.

Ma io ricordo il mio nome, e a rendermi refrattario sono riuscito solo in parte, per un periodo limitato di tempo. Adesso emozioni, pensieri e sentimenti mi assalgono di colpo, e non so come respingerli. Non ho alcuna esperienza, a parte quella vaga e ancora abbozzata della mia infanzia. Non so come reagire, come difendermi di fronte all'orrore. Il mio animo urla che tutto questo è sbagliato, che la guerra è orrenda, che deve smettere, adesso, ed io non posso fare a meno di dirmi d'accordo e dichiarare la mia impotenza, non so come fermarlo, basta, ti prego, basta, ma non smette mai e mi sta facendo impazzire, l'inarrestabile orrore che provo.

 

La prima cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi, la terza un pensiero, la quarta la note che viene, la quinta quei corpi straziati, la sesta è fame, la settima orrore e l'ottava i fantasmi della follia, com'era prevedibile, subdoli e striscianti, e molto, molto tenaci.

Evidentemente la parte di me che ha ancora un nome, stufa della resistenza della mia parte cosciente, ha deciso di attaccare il subconscio. Parte che nessun Bookman si è mai preoccupato di difendere, essendo le sue dimensioni proporzionali a quelle del suo ego (cioè quasi nulle).

Ma il mio subconscio esiste, eccome se esiste, e tanto più più cerco di reprimere emozioni e pensieri, tanto più diventa paranoico e vulnerabile. Mi sembra di vedere ovunque i volti delle persone che ho visto morire, rinascere, soffrire, sperare.

Non che sia importante, ovviamente, ma in altre circostanze mi soffermerei a considerare quanto sia straordinaria la precisione con cui la mia memoria ha conservato il ricordo di queste persone: cammino per la strada e vedo delle facce che credevo di aver dimenticato, l'uomo che ho visto morire e ho aiutato a seppellire, la ragazza che mi ha ringraziato perché le ho portato notizie del fratello, volti apparentemente scordati da tempo, e poi eccoli lì, su corpi che solo in seguito riconosco come estranei, eccoli lì, e mi chiedo, come ho fatto a dimenticarti? Tu avevi una fotografia di tua moglie nella tasca interna della giacca, vicino al cuore, e le tue mani l'hanno stretta mentre morivi, e tu mi hai ricoperto di ringraziamenti e ridevi tra le lacrime e mi hai abbracciato, ciao, come stai? Certo che non ho dimenticato, come avrei potuto?

Ma passa in una frazione di secondo. Immediatamente prima di alzare la mano per salutare il vecchio amico ritrovato dopo tanto tempo, mi ricordo che non ho amici, che non devo averne, che qualcuno che non sono io ha sepolto quella persona in una terra lontana, e che comunque questi individui non sono importanti, nel grande disegno della Storia, contano solo in quanto membri di un esercito, di un popolo. Avrei dovuto dimenticarli.

Eppure i loro volti sono impressi a fuoco nella mia memoria.

All'Ordine Oscuro siamo specialisti nel vedere cose che agli altri sfuggono, o che non esistono. Sto pensando a Yuu, ovviamente, e ho da poco conosciuto un ragazzino di nome Allen che vede le anime intrappolate negli Akuma; a quanto pare è uno spettacolo orribile, sebbene questa abilità si riveli spesso molto utile.

Ma concedetemi questo piccolo atto di presunzione: sono convinto che nessuno veda cose terribili quanto quelle che vedo io. Volti scomparsi da tempo, sepolti nella mia memoria, che davvero, davvero non dovrei ricordare, individui sconosciuti che si rivelano all'improvviso assurdamente familiari, che mi perseguitano, mi biasimano e mi deridono, i fantasmi della follia.

 

La prima cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi, la terza un pensiero, la quarta la notte che viene, la quinta quei corpi straziati, la sesta è fame, la settima orrore, l'ottava i fantasmi della follia, e la nona è carne, ma attenzione, non quella perfettamente modellata del corpo umano, solo carne, materia informe e senza scopo.

È paradossale che io mi trovi in una situazione del genere, intrappolato dentro la mia testa, il luogo più incorporeo che esista, e sia circondato da carne. Sviante.

Ho iniziato a preoccuparmi quando quella ragazzina ha mi ha spedito in mezzo ai miei ricordi. Non erano memorie a caso, ma momenti di debolezza: quello in cui ho rischiato di inorridire per il numero di morti causati da questa guerra, quello in cui ho rischiato di affezionarmi alla mia identità precedente. Ho cominciato a sospettare che le mie trasgressioni fossero palesi per Road, e mi sono spaventato al pensiero di come avrebbe potuto usarle contro di me.

E infatti. Nel modo repentino e inevitabile tipico dei sogni, eccomi qui, circondato da cadaveri, da persone che conosco, che tentano di soffocarmi. Vado nel panico.

Chiariamoci: non sono le loro facce a spaventarmi. Dopo un attimo di iniziale smarrimento, mi sono reso subito conto che sono solo immagini, riflessi, illusioni: quello non è Yuu, quella non è Lenalee, non sono Crowley, Reever, Johnny.

Sono due altre cose: la prima, il perché Road abbia usato proprio le loro immagini. Pensa che per me siano causa di debolezza? Crede che, siccome sono Yuu, Lenalee, Crowley, cercherò di non ferirli? È convinta che mi sia affezionato a loro?

E soprattutto. Ha ragione?

Potrebbe. Ma non mi farò fregare così facilmente. Sono solo immagini, riflessi, illusioni, e per ora non voglio fermarmi a pensare a cosa significhino o non significhino per me. Non voglio fermarmi e basta.

Però – seconda cosa – la carne mi blocca. Da questo capisco che le immagini non sono reali: non sono corpi, sono carne. Non sono regolati dall'intelletto, non possiedono l'armonia che li renderebbe perfetti. Forse ad un occhio esterno potrebbero sembrarlo, ma io sono Bookman – anche, in parte – e conosco l'ordine cosmico, e non ne vedo traccia in queste figure. Sono carne, semplicemente, lo so che è assurdo, ci troviamo nella mia testa, dopotutto, ma lo sono veramente, materia informe e priva di armonia, incomprensibile e aliena. Mi ripugna profondamente, ed è ovunque, sopra di me, intorno a me, e mi soffoca.

 

La prima cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi, la terza un pensiero, la quarta la notte che viene, la quinta quei corpi straziati, la sesta è fame, la settima orrore, l'ottava i fantasmi della follia, la nona è carne, e la decima è un uomo.

Il suo nome è Allen. Uso la parola “uomo” nel senso più ristretto del termine, come sinonimo di vir, essere umano di sesso maschile, ma in realtà è poco più di un ragazzino, costretto a crescere in fretta a causa della maledizione/benedizione dell'Innocence e dalla violenza che porta con sé. È, insomma, un tipo come se ne trovano tanti all'Ordine Oscuro, con un passato tragico ed un sorriso tenace che raramente gli arriva agli occhi. Abbiamo viaggiato un po' insieme, e l'ho trovato simpatico, alla mano, per nulla incline al vittimismo, cosa piuttosto rara da queste parti.

Sto osservando il suo corpo acefalo. Un tipo che ha la mia faccia, ma che non sono io, mi guarda e dice: “Cosa significa questa reazione? È un ammasso di inchiostro, niente di più. Se non riesci ad assistere a questo tipo di spettacolo senza restare impassibile, non sei più degno del tuo titolo”.

Lo ascolto con un misto di timore e disprezzo. So chi è: la parte di me che non ha nome. È l'Uomo, la Conoscenza, e io sono il suo contenitore, ma non siamo la stessa cosa, anche se non so fino a che punto siamo fusi l'uno nell'altro.

Ha preso possesso del mio corpo, e sento che sta combinando un mucchio di danni. È quasi ridicolo: sa tutto, ma non capisce niente. È incapace di essere soggettivo, di adattarsi alle situazioni; ragiona per assoluti, per universali, e non distingue il bene dal male, perché tutto è relativo. Così ciò che fa è assolutamente indifferente, e diventa una docile marionetta nelle mani di Road.

Non so come sconfiggerlo. Ho pensato ad atti violenti – pugnalarlo, strozzarlo, spezzargli il collo – ma so benissimo di essere dentro un'illusione, e le illusioni non sono dissimili dai sogni: le si possono modellare a proprio piacimento, e si muore solo se lo si desidera. E lui decisamente non vuole morire.

Che fare, dunque? Cercare di ragionarci? Non si può sconfiggere a parole chi è onnisciente. Minacciarlo? Ma di fare cosa? Non ho potere su di lui.

E intanto il tempo passa. Allen non riuscirà a trascinare tanto a lungo questo combattimento, e sarà costretto a farmi del male. O, peggio, verrà sconfitto. Ci deve essere una soluzione. Ma dove?

E poi il mio corpo, riflesso perfetto dell'ordine cosmico, animato da un intelletto superiore ma allo stesso tempo umano, mi fornisce la risposta. Per una frazione di secondo, un attimo di comunione con la parte di me che ha ancora un nome, mi concede di tornare in possesso dei miei occhi. E allora vedo. Vedo una cosa che l'Uomo, nella sua onniscienza, non ha tenuto in considerazione, perché io teoricamente non dovrei essere umano.

È un uomo, che mi guarda. Si chiama Allen, e sta cercando di non farmi male. Anche se evidentemente qualcosa – o meglio qualcuno – ha preso possesso del mio corpo e mi ha trasformato in un suo nemico, lui si ostina a non ferirmi. Per il motivo semplice e umanissimo che si considera mio amico e ci tiene a me.

Illuminazione. Come ho fatto ad oppormi costantemente, pur non volendolo, alla parte che non ha nome? Con quella che ce l'ha. Con manifestazioni di debolezze umane. Eureka!

L'Uomo mi guarda, sgomento. Non vuole credere ai suoi occhi. Oh, sì, penso, e sono quasi sicuro che riesca a sentirmi, l'ho fatto davvero.

La più sciocca delle debolezze umane. Il sacrificio. L'andare contro il proprio istinto di autoconservazione per preservare qualcun altro. Follia pura, dal suo punto di vista. Ma non dal mio.

Il pugnale conficcato nel mio petto non fa male, come mi aspettavo – siamo nella mia testa, dopotutto, ed io non ho un corpo – ma il suo effetto non cambia. Le mie forze si stanno rapidamente esaurendo, e non riesco a stare in piedi. Ma sono contento. Il mio corpo è d'accordo con quello che ho fatto – è mio, e anche se contiene qualcosa che non sono io ama e risponde sempre al suo proprietario – e sta traducendo in fatti quello che è successo nella mia mente. Allen e Lenalee sono salvi. Per fortuna.

E a quanto pare le illuminazioni non sono finite. Con le ultime energie che mi sono rimaste, alzo il braccio e conficco il pugnale nel corpo acefalo steso vicino a me.

Ho sbagliato a sottovalutarti, ragazzo mio... allora, mi hai trovata? Hai indovinato sotto quale apparenza mi nascondevo?

Già. Un ultimo colpo di genio.

Affondo nell'acqua, nell'incoscienza, nell'oblio. Guardo, con occhi fiduciosi, ma come lontani, onnipotenti (che di sicuro lui riconoscerà), un bambino che ha la mia faccia di tanti anni fa. So chi è. So tutto di lui, il suo desiderio di conoscere ogni cosa, il suo sgomento davanti alla costante violenza umana, il fatto che abbia scoperto il segreto della notte. Conosco il suo nome, anche se avrei dovuto dimenticarlo.

Però. Se lui è davanti a me, e mi guarda...

chi sono io?

La decima cosa – l'ultima, credo - è un uomo che mi guarda e non mi uccide. Si chiama Allen, ed è mio amico.

 

La prima cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi, la terza un pensiero, la quarta la notte che viene, la quinta quei corpi straziati, la sesta è fame, la settima orrore, l'ottava i fantasmi della follia, la nona è carne e la decima è un uomo che mi guarda e non mi uccide.

L'ultima è una vela.

Bianca. All'orizzonte.

 

Il mio nome è Lavi, adesso. Bookman non lo sa, e spero davvero che non lo scopra mai. Sarebbe la mia fine. Perché, vedete, Lavi non è solo il mio nome. Io sono Lavi. Sono vivo, e la cosa mi esalta. Conosco il segreto della notte. Trovo terribile l'infinito orrore della guerra. Penso, sento. Sono un po' folle – d'altra parte, uno non può avere in testa tutto lo scibile umano e aspettarsi di non diventare pazzo. Ho delle persone a cui sono affezionato, degli amici. E, soprattutto, sono stato salvato. Il mare ha trovato il modo di salvarmi, alla fine – faccio parte del suo popolo, dopotutto. Accetto il mio destino, e faccio del mio meglio, e sono sereno riguardo al fatto di essere come sono. Il mio sguardo è tranquillo, ma come lontano, onnipotente. Come quello dell'attore che sta per salire sul palco, come quello del marinaio che vede una vela, bianca, all'orizzonte, e sa che sta per imbarcarsi e affrontare il proprio destino e si dispone a farlo al massimo delle sue possibilità.

Sono un essere umano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(Spero davvero di essere morto o dimenticato da tempo, quando queste righe verranno trovate e lette. È solo che non ho proprio potuto fare a meno di affidare queste informazioni a qualcuno, sebbene non sappia chi. Avevo bisogno di condividere queste cose. La propria identità a volte pesa più di tutto lo scibile umano.)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Deliri Post Partum:

Ma prima AVVISO AI NAVIGANTI: saltate pure queste righe, se non volete stare a sentire i miei vaneggiamenti senza senso. Già è un miracolo se siete arrivati fin qui senza essere completamente rintronati orz

 

Occhei. Dunque. Ehm. Hello new fandom! *agita manina* innanzitutto, perdonatemi se ho vi ho invaso con le mie insensataggini. Uhm. È che. Non ne ho potuto fare a meno? NON LO SO DATEMI TREGUA QUESTA COSA MI RONZAVA IN TESTA DA MESI LE MIE MANI HANNO FATTO TUTTO DA SOLE PRENDETEVELA CON LORO.

Ora. Se mi conoscete lo sapete già e se non mi conoscete ve lo dico adesso: io non mi affeziono tanto ai personaggi, quanto all'idea che mi faccio di loro. Per questo in genere non mi affeziono tanto ai protagonisti: non è che possa combinare grandi misciotti rimescolamenti incroci con gente della quale sappiamo già più o meno tutto. E quindi mi sfogo con i personaggi secondari e gli faccio cantare canzoni anni Ottanta (COUGHDinoCOUGH ma questa è un'altra storia) e citare l'Iliade. Sono fatta così.

Per quanto riguarda Lavi, il mio cervello l'ha elaborato nel seguente modo: OH MIO DIO TIZIO FIGO CON I CAPELLI ROSSI CHE CONOSCE VIRTUALMENTE TUTTO HOW COOL IS THAT? (Vi ho già parlato del mio vergognoso fetish per i capelli rossi? No? Ecco, meglio sorvolare.)

E poi ho pensato: “Ma se uno fosse teoricamente onnisciente, la cosa non lo farebbe diventare un filino matto? Uhm. Interessante”. Buttateci dentro un po' di Baricco che ci sta sempre bene (Baricco protesta e chiede i danni) ed ecco fatto. Tadàn.

Sono discretamente contenta di questa storia. (Poi la rileggerò tra una settimana e penserò UGH CHE SCHIFO COME HO POTUTO SCRIVERE UNA COSA DEL GENERE BLEAH ma questi sono dettagli.) Oddio, il titolo con la parentesi è orribilmente pretenzioso e ho usato un sacco di termini astrusi che fanno tanto intellettuale-a-tutti-i-costi e per questo vorrei autoaccoltellarmi e Lavi mi è uscito un pelino schizofrenico, ma insomma. Ho scritto di peggio. Decisamente. Mi rendo perfettamente conto che delle persone che inizieranno a leggerla sì e no un terzo arriveranno alla fine perché è una roba francamente allucinante e delirante e molto astratta e si capisce poco o niente e per di più è lunghissima, ma sono felice di averla espulsa dal sistema (???).

Ultima cosa! È perfettamente plausibile (o almeno, mi piace credere che lo sia – perché se così non fosse EPIC FAIL EPIC FAIL) che Lavi conosca la traduzione dell'Iliade di Monti (1812), anche perché, oltre a quella in inglese di Poe, è l'unica che secondo i critici abbia reso veramente lo spirito della versione greca originale, il teorema di Pitagora (VI secolo a.C.), il tutto scorre come un fiume di Eraclito (sempre V-VI secolo) e la legge di conservazione della massa di Lavoisier (fine XVIII secolo).

MI CI SONO SPACCATA LA TESTA SU STE COSE OKAY.

(Che poi quello che mi fa incazzare è che quel bastardo NON LO SAPEVA NEANCHE, IL GRECO! Ha solo “rielaborato” per “svago personale” delle “traduzioni precedenti” in italiano e latino. E ALLORA STUDIARE QUELLA CAVOLO DI LINGUA NON SERVE PROPRIO A NULLA, EH *sob*)

Sì, avreste fatto meglio a saltare questa postfazione (DAGHE DE PAROLONI INCOMPRENSIBILI mi faccio schifo da sola). Perdonate la mia follia e classicfaggheria. Chiedo venia.

BENE! Se Apollo vuole ho finito. Siete caldamente invitati a lasciare commenti/recensioni/insulti/minacce/quellochevolete (altrimenti come faccio a sapere che i miei poveri lettori sono arrivati indenni alla conclusione?). Grazie per la pazienza. Ailoviuoll ♥

~ Callie

P.S: dimenticavo! Come al solito citazioni dal manga per nulla precise perché (sì, ridete, ridete) io possiedo i volumi di D. Gray-Man in francese e ho fatto delle traduzioni un po'. Uhm. Un po'. Gomen >.<

  
Leggi le 13 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > D.Gray Man / Vai alla pagina dell'autore: _Calliope_