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Autore: Sophrosouneh    02/12/2011    0 recensioni
“Soltanto la sua fiera presenza statuaria infondeva nel cuore di Thaet una sicurezza innata che la portava a nutrire una flebile speranza di salvezza.
“Grazie.” Bisbigliò a denti stretti abbassando la testa.
“Dovere” rispose Vhes, concedendosi un sorriso rilassato alla vista dell’impaccio della minore.
Così, mentre il sole calava lento dietro le nubi antracite. In quel disperso angolo di infernale paradiso, si rovesciava copiosa una tempesta depuratrice di mali. L’acqua corrente lavava via il sangue dalle anime e la polvere dai ricordi. Ma, allo stesso tempo, custodiva i segreti nei cuori di ogni dimora.”
Le tre Erinni: tre sorelle che non potrebbero essere più differenti. Vhes la forte, Thaet la subdola ed Inarwe la fragile. Ed è proprio quando la minore si trova ad affrontare la realtà che le si para di fronte il più insidioso dei nemici: la paura di affondare sé stessi.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tenebre della Fine - Pont-Saint-Martin 17 marzo1987
 
Era fantastico. Uno degli spettacoli più belli che madre natura potesse offrire ai propri figli. Un Sogno era la massima realizzazione umana in cui l’uomo era padrone del suo futuro, ma, allo stesso tempo non conosceva le regole del gioco a cui stava giocando. In sogno l’uomo faceva e disfaceva, creava scenari idilliaci e li lasciava precipitare nell’oblio. I sogni erano il più grande desiderio e mistero della mente umana.
Esternamente apparivano come una bolla d’acqua stagnante colma, al suo interno, di una fine nebbiolina caliginosa che non permetteva di sondarne il contenuto. Restavano sospesi, incorporei ed invisibili ad occhio umano, pochi centimetri sopra la testa dell’uomo, e lì fluttuavano per tutta la durata del sonno, intrappolando al loro interno l’anima dell’uomo che da loro veniva inesorabilmente attratta.
 
Inarwe allungò debolmente una mano verso l’imprecisa superficie della bolla, ritraendosi non appena le era arrivata troppo vicina.
La Furia galleggiava a mezz’aria, distesa carponi nel vuoto, osservando la sfera con occhi da cerbiatta.
Entrare nei sogni di un umano era come partire sempre con un piede in fallo per loro Erinni. Lì era l’uomo il padrone, ed il fatto che non riuscisse a controllare tutto il potere di cui disponeva, sicuramente non facilitava il loro compito, rendendo la vittima una bomba ad orologeria pronta ad esplodere da un momento all’altro. Solo Vhes possedeva il potere di manipolare, se pur in piccola parte, i sogni altrui, ma a lei tale possibilità era univocamente preclusa.
 
Si lasciò sfuggire un profondo sospiro e, dopo aver raccolto il coraggio a due mani, sfiorò con la punta dell’indice la superficie della bolla che, al suo tocco, si increspò in tante soffici onde.
‘Questa è la cosa giusta. Sto facendo la cosa giusta.’ Continuò spasmodicamente a ripetersi, per scacciare quel peso che percepiva all’altezza dello stomaco.
Fugace com’era apparsa nella stanza, scomparve nell’oscurità in un battito di ciglia.
 
 
Il paesaggio era sempre lo stesso: la landa di fuoco si estendeva a vista d’occhio ovunque gettasse lo sguardo. Le fiamme continuavano a procurargli un effimero dolore, non accompagnato da ferite corporee. Si sentiva stranamente leggero quella sera. Gli sembrava quasi di riuscire a fluttuare in quel cielo rossastro che vedeva sormontargli la testa. Forse il tutto era dovuto a quella tripla dose di sonniferi che aveva ingurgitato. Sentiva che qualcosa era cambiato dall’ultima volta che aveva visitato quel luogo. Qualcosa mancava per far sì che tutto tornasse come era sempre stato. Percepiva il calore sulla pelle innalzarsi sempre di più, gradualmente, come se il suo corpo si adattasse al calore di quella fornace con estrema lentezza.
Come alzò lo sguardo sul terreno di fronte a lui, vide la ragazza vestita di nero lì, in piedi al suo cospetto. Tanto vicina da poterla toccare, ma, allo stesso tempo, irraggiungibile.
 
“Perché hai chiesto proprio a me di salvarti?” questa volta fu Inarwe a rompere il silenzio per prima.
L’uomo non rispose, rimanendo a fissarla incantato, come un fedele devoto fisa l’effige del proprio Dio.
“Perché io?” chiese di nuovo la ragazza, portandosi una mano al petto.
Inizialmente l’uomo si limitò a rivolgerle un ampio sorriso, solo dopo che furono passati parecchi secondi rispose: “Perché siete stata l’unica  volermi aiutare.”.
A quella risposta il cuore di Inarwe si strinse in una morsa ancor più di quanto già non fosse, e la decisione che aveva preso non le era mai sembrata più orribile.
“Mi dispiace…” sussurrò, tentando di trattenere le lacrime.
“Io non posso salvare neppure me stessa” sussurrò mentre, lentamente, si allontanava e il suo corpo perdeva di consistenza.
Nel mentre le fiamme attorno al corpo di Varian divennero reali e cominciarono a divorare il suo spirito. Al mattino avrebbero trovato il suo corpo deceduto per overdose e quello della sorella nascosto nella cassa per gli addobbi natalizi in soffitta.
Il sorriso sul volto dell’anima morente non accennò a mutare di una virgola, mentre i suoi occhi assumevano un tono rassegnato.
“Lo so…” sussurrò abbassando lo sguardo.
Furono queste le ultime parole che Inarwe udì prima di abbandonare l’orrendo spettacolo.
 
E mentre l’anima dell’uomo veniva divorata dalle fiamme ardenti, un nome gli affiorò alle labbra in modo totalmente inaspettato. E li rimase sotto forma di sussurro incorporeo. A metà tra la vita e la morte, rincorrendo il suo destinatario.
 
 
Inarwe si volse indietro, ad osservare il sole nascente, avendo percepito un brivido lungo la schiena. Le cime innevate dei monti rilucevano di milioni di sfaccettature iridescenti mentre appariva all’orizzonte la speranza nell’avvenire.
 
“Allora? Ci volgiamo muovere?” le giunse alle orecchie, aspra come al solito, la voce di Thaet.
Alla fine aveva deciso quale strada seguire.
Gli uomini, secondo Vhes, lo avrebbero chiamato ‘destino’ ma per lei non era altro che una strada: quella che aveva deciso di percorrere. Ovvero quella che la portava al fianco delle sue sorelle, le due persone che sarebbero sempre state al suo fianco. Avrebbe lottato per vivere e conquistarsi il suo posto nel mondo; non avrebbe ceduto a false lusinghe ed echi di irraggiungibili passati.
Nitido le giunse alle orecchie il sonoro rumore di uno scappellotto.
“Lezione del giorno: porta pazienza.” Decretò Vhes mettendo a tacere, con il sorriso sulle labbra, la linguaccia biforcuta della minore.
Ad Inarwe scappò un sorriso mentre si nutriva di quegli attimi di così straordinaria quotidianità.
Sapeva che non avrebbe potuto fare niente per salvare Varian e la sua anima. Lui e Vittoria erano legati da quel malsano amore che lei nutriva nei suoi confronti.
Eppure lui le si era rivolto pur sapendo che non avrebbe potuto fare nulla per salvarlo dal triste destino che incombeva sulla sua testa. Cercava solo un’illusione di aiuto e perdono. Un perdono che Dio non concede agli omicidi dei proprio familiari e che l’aveva portata nella vita del giovane. E seguendo il proprio ‘destino’ Inarwe, con il suo intervento, aveva finito per concedere a quell’anima un’illusione ancora più dolorosa della verità stessa, promettendogli paradisi a lui preclusi.
Sospirò abbattuta dall’ironia e dalla meschinità della vita.
 
“Arrivo subito!” urlò per farsi udire dalle sorelle che l’attendevano poco lontano.
Cominciò a correre verso di loro a perdifiato tenendosi la veste corvina tra le mani per evitare di inciampare da qualche parte.
Ed ecco che, come una scossa elettrica, una folata di vento l’attraversò facendogli giungere all’orecchio quello che prima le era parso un verso indefinito.
Si guardò attorno un poco spaesata, per poi portarsi le mani all’altezza al cuore e percepire un calore improvviso. Spalancò gli occhi entusiasta e riprese a correre verso le sorelle portando nel cuore lo spirito di Varian che aveva saputo rappresentare per lei il più grande dei nemici: la paura di affrontare sé stessi e la realtà.
 
Quel sussurro, trasportato del vento, l’aveva colpita dritta al cuore. Tanto flebile come la vita che lo aveva pronunciato negli ultimi spasmi di lucidità. Non era un lamento o una richiesta; quel semplice nome racchiudeva in sé la felicità della liberazione dopo una lunga prigionia. Era lo spirare silenzioso di un’anima che consegnava al vento la sua ultima preghiera.
 
‘…Inarwe…’
 

L'alba poi è sorta
sembra essersi portata via,
il lato oscuro della notte,
ma esso è ancora lì nascosto
pronto a mostrare la sua oscurità.
(Marzia Ornofoli)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

  
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