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Autore: Elis12    05/12/2011    1 recensioni
"Al cambio dell’ora si era girato verso di me e sorridendo in modo sfacciato disse: “Io mi chiamo Jonathan e tu?”, risposi solo con un: “Valeria”. La stretta di mano che ci scambiammo rimase impressa nella mia mente, e forse è l’unico ricordo di quel ragazzo che nella mia mente non svanirà mai."
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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To Live
 

 T
Quando la professoressa mi chiese cosa volessi fare da grande risposi vagamente dondolando la testa. E’ abitudine degli adulti chiedere ai ragazzi cosa gli piacerebbe fare. Ed è abitudine degli adolescenti, la maggior parte delle volte, non saper rispondere. Arrivati in quel periodo delicato della vita, quasi mai i nostri sogni e desideri corrispondono con quelli che avevamo da bambini, e l’indecisione è d’obbligo. Sarà perché cresciamo, sarà perché cambia la mentalità, le persone al nostro fianco, e il mondo che ci circonda.

Da piccola avevo cambiato idea varie volte: prima volevo fare la ballerina, ma dopo aver convinto mia madre ad iscrivermi a una scuola di danza e preso qualche lezione, avevo deciso che non faceva per me; poi mi dedicai al nuoto, ma dopo essere quasi annegata durante una lezione, rinunciai anche a quello. Passai poi alla pallavolo. Mi allenai moltissimo perché non volevo lasciar perdere anche quello, e ci tenevo talmente tanto che quando l’allenatrice mi disse che non mi avrebbe fatto giocare durante una partita, la insultai arrabbiata e lasciai la squadra. Dopo quella volta capii che lo sport non faceva per me, e così finì per relegarmi in casa a guardare la tv sul divano e a sgranocchiare patatine. Un giorno mia madre, stanca di vedermi a bighellonare e ad occupare il salotto, quando lei doveva chiacchierare con la sua amica bevendo tè, mi propose di provare a prendere lezioni di teatro. L’idea non mi attirava molto, anche perché stare su un palco con tanti occhi puntati addosso non mi piaceva. Quando protestai, rispose che se non ci provavo non  potevo sapere com’era recitare davanti a un pubblico. E così, non troppo convinta, mi presentai alla biblioteca del mio paese, dove al piano superiore tenevano le lezioni. Non erano nemmeno riusciti a trovare un posto decente o più adatto, e io dovevo anche partecipare. Come entrai nella biblioteca diretta alle scale, avevo già voglia di fare dietrofront e tornare ai miei programmi televisivi pomeridiani. Per mia sfortuna però, incontrai una mia compagna di scuola, se possibile la più insopportabile, impicciona, e secchiona della classe. La classica persona che scambia le maestre di scuola come amiche piuttosto che come insegnanti. Delle amiche a cui bisogna raccontare tutto quello che si è fatto il giorno prima quando a loro non può importare di meno. Io e le mie compagne la chiamavamo “leccaculo”. E questo fu il mio brutto esordio alle lezioni di teatro, incontrare Marta fu la cosa peggiore che mi potesse capitare, perché dopo avermi salutato calorosamente, mi trascinò al piano di sopra e mi presentò alle altre ragazze e all’insegnante come sua “migliore amica”, cosa per altro aveva deciso da sola. Da lì in poi, sia a scuola che a teatro, ci fu una lunga serie di episodi in cui Marta mi veniva incontro per raccontarmi cosa le era successo il giorno prima, e io che la evitavo nei più vari modi possibili, nascondendomi in bagno o nel primo posto in cui mi capitava. La situazione era arrivata a un punto talmente insopportabile, che quando finii le scuole medie fui felicissima di liberarmi di Marta, allo stesso tempo lasciai teatro, con il disappunto di mia madre.

Quando entrai al liceo la mia vita cambiò letteralmente. Era come se con l’inizio dell’adolescenza fossi entrata in un tunnel che portava a un mondo completamente diverso da quello in cui ero stata finora da bambina; dall’altra parte del tunnel c’era l’età adulta. Come se l’adolescenza fosse un periodo a sé, un periodo di passaggio, fatto di cambiamenti, decisioni, lacrime, amori, amicizie, umori mutevoli, e una grande voglia di libertà. In quel periodo mi sentivo proprio così, un uccello rinchiuso in gabbia prigioniero delle proprie emozioni, che l’unica cosa che desidera è la libertà. Tutto nel mio comportamento era diventato ribelle, dalle scarpe slacciate con le stringhe infilate all’interno, ai pantaloni stracciati a vita bassa che strisciavano per terra, alle magliette di una taglia più grande, fino ad arrivare ai numerosi piercing sulle orecchie, al pesante trucco in viso, ai miei capelli di colori diversi: ciocche nere e viola, altre blu striate di azzurro. Due cuffie infilate costantemente nelle orecchie, e una borsa a tracolla portata troppo bassa rispetto alla sua naturale misura. Mia madre disprezzava il modo in cui “andavo in giro conciata”, ma io occupata nella mia ricerca di libertà, me ne fregavo di quello che diceva, desiderando solo che quel periodo “assurdo” finisse il più presto possibile. Mi chiedevo spesso se in fondo tutti gli esseri umani si sentissero prigionieri della loro età, non solo gli adolescenti da persone non troppo piccole ma nemmeno troppo grandi. Mi chiedevo come sarebbe stato essere adulta, grande, vaccinata e responsabile. Mi sentivo una creatura sola al mondo, senza amici perché tutti nella mia scuola mi consideravano “fuori di testa” per via dei capelli e senza famiglia, perché l’unico membro, criticava tutto di me. Ero come un unico pesce in un oceano profondo, e come un solo uccello in un immenso cielo. Eppure quello che chiedevo non era così irraggiungibile, volevo solo essere libera e felice. Prendere la vita così per così, senza complicazioni, sentimenti inutili, senza rimuginarci troppo, ma senza nemmeno essere superficiale, desideravo essere una persona profonda ma indifferente.

Fu solo quando incontrai lui, che cominciai a non sentirmi più così estranea al mondo. Però assecondare le sue idee e frequentarlo, fu probabilmente la scelta peggiore che potessi fare, sì peggiore anche all’essere entrata in quella maledetta scuola di teatro. Chissà cos’avrebbe detto Marta se mi avesse visto in questo momento. Il giorno in cui lo vidi per la prima volta era un venerdì di metà settembre due settimane dopo l’inizio del mio quarto anno di liceo. Era impossibile non notarlo, anche perché tutti gli sguardi degli studenti usciti sul prato per l’intervallo, erano fissi su di lui. I jeans scuri portati sotto il sedere erano infilati negli anfibi neri, la canottiera bianca era talmente attillata che si intravedevano i muscoli scolpiti, e in testa aveva la cresta più alta che avessi mai visto. Mi chiesi quanto gel usava per tenere su tutti quei capelli. Eppure non potei fare a meno di rimanere affascinata, quando tutti gli altri lo guardavano con un’espressione di disapprovazione, dal modo in cui camminava incurante degli sguardi fissi su di lui, con una mano in tasca e l’altra che penzolava tenendo tra le dita una sigaretta accesa. Il filo delle cuffiette che teneva nelle orecchie oscillava seguendo il movimento del corpo. Mi domandai se fosse uno studente, dal momento che non portava zaini o borse. Mentre pensavo ciò, mi passò accanto lanciandomi uno sguardo curioso per poi girarsi subito entrando nella scuola, non prima di aver buttao la sigaretta per terra spegnendola con il piede. Lo seguii con lo sguardo finchè non sparì dalla mia vista. Non potevo immaginare che i nostri destini di li a poco si sarebbero incrociati di nuovo. Infatti non meno di venti minuti dopo, quando suonò la campanella spensi anch’io la mia sigaretta ormai finita, e rientrai di malavoglia nella scuola per le prossime lezioni. Quando tornai in classe mi sorpresi di trovarlo lì, e proprio seduto al banco vicino al mio, che dall’inizio dell’anno era sempre rimasto vuoto. Una volta che tutti si erano seduti, il professore di matematica, appena entrato in classe, gli chiese come si chiamava. Lui dondolandosi sulle gambe posteriori della sedia rispose sorridendo: “Sono Jonathan.” 

Da lì in poi Jonathan divenne non solo il mio compagno di banco, ma anche un amico molto speciale per me. Finalmente ero riuscita a trovare qualcuno che mi capisse, senza giudicarmi o guardandomi male, Jonathan sembrava comprendere i miei sentimenti. Lo stesso facevo io con lui, non era poi in una situazione molto diversa dalla mia. Mi aveva raccontato che si era trasferito lì con suo padre e il fratello maggiore. La madre era morta in un incidente stradale quando lui aveva 5 anni, il fratello maggiore era sempre fuori casa e se ne fregava della famiglia, e il padre rientrava la sera tardi ubriaco. Da quell’incidente in poi, la sua famiglia non si riprese più, e Jonathan era cresciuto da solo, girovagando per i parchi e frequentando “ragazzi di strada”. Era così che aveva cominciato con la droga. Aveva detto che aveva alcuni “amici” che gliela procuravano, e poi sniffavano e si bucavano insieme. Tutti quanti, ce la spassavamo così. Jonathan mi presentò questi suoi “amici” e nemmeno io riuscii a resistere alla tentazione di sfuggire alla realtà, anche solo per un momento. Fu così che la mia vita iniziò a peggiorare sempre di più. Penso che il mio incontro con lui, mi abbia rallegrato l’esistenza, ma rovinato la vita. Non è certo colpa sua, prendere questa strada è stata una mia decisione. Le cose si misero presto male, e le crisi di astinenza erano insopportabili, tanto che credevo di morire ogni volta. Ci divertivamo così, saltavamo la scuola, andavamo in giro tutto il giorno, ci facevamo, fumavamo, e tornavamo a casa la notte ubriachi.. quando ci ritornavamo a casa. Mia madre aveva provato varie volte ad aiutarmi, prendendo appuntamenti con gli psicologi o specialisti sull’adolescenza, ma non ero mai andata a nessun colloquio. Preferivo di gran lunga stare in compagnia di Jonathan, che di pazzi che ti analizzano in tutto quello che fai e pensi. Ma forse se ci fossi andata anche solo una volta non sarebbe finita così, in una fossa sottoterra. Avrei preferito morire insieme al mio amico, ma in overdose quel giorno ero andata solo io. I soccorsi furono inutili, non ci furono speranze per me. Jonathan fu arrestato, i nostri “cari amici” ci avevano abbandonato ed erano scappati. Invece lui no, lui era rimasto con me cercando di rianimarmi, ma i suoi sacrifici furono stati vani. Ci tenevo a lui, e lui teneva a me. Non eravamo innamorati, ma solo buoni amici. Forse era destino così, forse la libertà avrei potuto raggiungerla solo con la morte. L’unica cosa che rimpiango è di non essere riuscita ad essere la sua libertà, avrei davvero voluto rimanere al suo fianco. Cosa ne sarà adesso di Jonathan? E quando uscirà di prigione? Ormai non posso più saperlo. Ricordo ancora la prima volta che ci siamo parlati, quel venerdì di metà settembre quando era arrivato a scuola e me lo ero trovato vicino di banco. Al cambio dell’ora si era girato verso di me e sorridendo in modo sfacciato disse: “Io mi chiamo Jonathan e tu?”, risposi solo con un: “Valeria”. La stretta di mano che ci scambiammo rimase impressa nella mia mente, e forse è l’unico ricordo di quel ragazzo che nella mia mente non svanirà mai.

End

Angolo dell'Autrice:

Questa è stata la mia prima storia originale, quindi abbiate pietà. XD
Spero vi sia piaciuta, lasciate un commento. :)

Grazie a chi recensirà e anche a chi ha solo letto.
Alla prossima, Elis.

  
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